COLORE
I colori dei Greci
di Maria Michela Sassi
«Quanto diversamente i Greci hanno veduto la natura, se siamo costretti a riconoscere che i loro occhi erano ciechi per l’azzurro e il verde, e invece del primo vedevano un bruno più scuro, in luogo del secondo un giallo (giacché designavano con la stessa parola, per esempio, il colore dei capelli bruni, quello del fiordaliso e del mare meridionale, e con la stessa parola il colore delle piante più verdi e della pelle umana, del miele e della resina gialla: sicché, stando alle testimonianze, i loro grandissimi pittori hanno ritratto il loro mondo solo col nero, il bianco, il rosso e il giallo) – quanto diversa e quanto più vicina agli uomini dovette apparire loro la natura, dal momento che ai loro occhi i colori degli uomini erano anche nella natura preponderanti e questa nuotava, per così dire, nell’atmosfera dei colori umani! (Azzurro e verde disumanizzano la natura più di ogni altro colore)…».
Con queste parole Friedrich Nietzsche denunciava, nell’aforisma 426 di Aurora, la ‘cecità cromatica’ dei Greci, riprendendo un giudizio diffuso negli anni ’80 del XIX secolo. Era stato Johann Wolfgang von Goethe a cominciare: nella sua Teoria dei colori (1808-10) aveva osservato, e non si sbagliava, che il lessico greco del colore esibisce una peculiare ‘mobilità’ e ‘oscillazione’. L’area del giallo, ad esempio, non è nettamente delimitata dal rosso da un lato, dal blu dall’altro, né quella del rosso dal giallo e dal blu: così il termine xanthos può coprire le più diverse sfumature del giallo, da quello lucente delle bionde chiome degli eroi omerici alla vampa rossastra del fuoco, o il purpureo (porphyreos) può sconfinare nel blu. Goethe ne aveva desunto che gli antichi avessero scarso interesse per un’esatta discriminazione delle tinte; e notando, in aggiunta, la tendenza a concepire bianco e nero come colori (riportati all’antitesi di luce e oscurità), poteva giocare la visione greca del colore, esperienza psicologica ‘viva’, contro l’arida scomposizione della luce bianca nel prisma che aveva segnato, con il famoso esperimento di Isaac Newton, gli inizi dell’ottica matematica moderna.
Successivamente, in un quadro dominato dal darwinismo, nel sistema cromatico antico si era indicata non una ‘diversità’ da recuperare ma un tratto di ‘primitività’, da misurare proprio sul metro della lista newtoniana dei colori. Così William Gladstone, illustre come omerista non meno che come politico, nei suoi Studies on Homer (1858), aveva insistito sull’imperfetta discriminazione dei colori prismatici e, per contro, sulla forte sensibilità alle impressioni luminose (lo stesso nome greco del bianco, leukos, deriva dalla medesima radice etimologica del latino lux) che caratterizza la lingua dei poemi omerici e, su questa scia, dell’intera letteratura greca. In particolare, Gladstone aveva denunciato la vaghezza della designazione del blu, espresso in una sfumatura così scura da confondersi col nero (kyaneos), o così chiara da confondersi col grigio (glaukos, associato spesso a un’impressione di luminosità come nell’epiteto di Atena glaukopis, ‘con occhi chiari di civetta’). Curiosamente, poi, nella narrazione epica il cielo può essere grande e ampio, stellato, di ferro o bronzo, ma non è mai blu. Gladstone concludeva che l’organo visivo, in noi perfettamente sviluppato, era dato a Omero nella sua infanzia: perciò ancora più sensibile alla luce che al colore, e incapace di distinguere nettamente l’una dall’altro, nonché i diversi colori fra loro. E di lì a poco (siamo negli anni di Aurora) un oftalmologo, Hugo Magnus, avrebbe offerto a queste tesi l’appoggio della fisiologia, giungendo a disegnare uno schema evolutivo universale del senso del colore (parallelo allo sviluppo funzionale della retina) sulla base di un processo di identificazione che inizia a muoversi dai colori più ricchi di luce, sul versante rosso dello spettro (rosso e giallo), per passare a quelli di intensità luminosa via via più debole (verde, blu, violetto), sul versante opposto (Die geschichtliche Entwickelung des Farbensinnes, Leipzig 1877).
Nella prima metà del Novecento si è assistito ad una (parziale) inversione di rotta. In una fase di arretramento del paradigma evoluzionistico sotto l’incalzare del relativismo culturale, la linguistica ha portato attenzione crescente (la cosiddetta ipotesi Sapir-Whorf rientra in un movimento generale in questa direzione) sul fatto che le lingue del mondo operano, ciascuna, una segmentazione determinata (e in quanto tale arbitraria) dei diversi ambiti del reale: e le tassonomie cromatiche offrono qui un banco di prova esemplare. Ecco allora che la tendenza del greco antico a una distinzione floue dei colori, la prevalenza di notazioni di splendore e la ricchezza di sfumature favorevoli all’innesto di dati affettivo-simbolici (lo splendore prezioso di xanthos, la luce inquietante dell’occhio glaukos) vengono viste come manifestazione di uno ‘stadio mentale’ arcaico, in cui il sensibile predomina sul logico. In questa prospettiva si è preferito insistere su fatti di verbalizzazione piuttosto che di fisiologia della percezione: ma, significativamente, un’idea di ‘sviluppo’ ha continuato (e continua) a sottendere il quadro. Il problema è che la predilezione innegabile del lessico greco per gli aspetti quantitativi del colore (la ‘luminosità’, o gradazione di chiarezza/oscurità, e la ‘purezza’) a scapito della dimensione qualitativa o ‘tinta’ (determinata dalla posizione nello spettro) non trova spiegazione esauriente nella categoria della diversità culturale. Di fatto, come gli antropologi hanno dovuto ammettere in base allo studio pur controverso di Brent Berlin e Paul Kay (Basic Color Terms. Their Universality and Evolution, Berkeley-Los Angeles 1969), il colore è un dato di percezione e, in quanto tale, ‘universale’: perciò le culture più diverse condividono la tendenza a una più precoce e precisa definizione (in termini di tinta) di colori come rosso e giallo, che raggiungono il massimo della purezza a un grado particolarmente elevato di luminosità, e sono quindi capaci di più forte impatto visivo, mentre colori come verde e blu, di impatto visivo minore, vengono inizialmente colti e descritti in termini di valore luminoso, e solo gradualmente focalizzati come tinte.
Resta vero che sullo sfondo comune del colore naturale si innestano fatti di diversificazione culturale. Prendiamo il caso esemplare del termine greco porphyreos: l’ampiezza dell’area semantica che esso copre non dipende da una generica ‘indefinitezza’ nomenclatoria, ma dalla precisa tecnologia di produzione della porpora nel mondo antico. Più tinture, dal giallo al rosso scarlatto al blu-violetto, potevano ottenersi dal succo secreto da più specie di murici, a seconda del dosaggio e/o del momento di arresto del processo di esposizione fotochimica (o dell’eventuale bollitura). In particolare le varietà del rosso scuro e del violetto, poi, erano ottenute con succo non diluito, di cui un singolo mollusco forniva pochissime gocce. Ciò spiega le connotazioni di preziosità di questo aggettivo, ulteriormente arricchite da associazioni simboliche (con il sangue o con la morte): è purpureo, ad esempio, lussuoso ma anche ambiguo annunciatore di morte, il tappeto che Clitennestra (nell’Agamennone di Eschilo) stende davanti allo sposo reduce dalla guerra di Troia.
Anche quella strana latitanza del blu di cui si è detto può essere ricondotta, forse, a specifiche condizioni socioculturali osservando che essa è complementare a una preferenza per i toni del rosso e del giallo che può trovare spiegazione (come la trova presso tante culture primitive) con la loro qualità di colori ‘animali’, perciò utili alla distinzione di elementi importanti per la vita pratica: là dove blu (e verde) funzionano come colori di sfondo, poco importanti in contesti scarsamente interessati a una fruizione contemplativa del paesaggio naturale (ai fini pratici la nuvolosità del cielo o il movimento del mare sono più importanti della loro tinta). Anche la cultura greca, di fatto, appare segnata da un interesse per la varietà e classificazione dei tipi umani decisamente superiore a quello per il paesaggio: potremmo scoprire insomma che Nietzsche aveva ragione, affermando che la natura dei Greci «nuotava, per così dire, nei colori umani».