CAOS

Paul Valéry scrive, nel suo Journal, all’inizio del Novecento, che «l’umanità è permanentemente minacciata da due pericoli: l’ordine e il disordine». Con questa nota, Valéry proietta su tutto il secolo un dilemma decisivo. L’architettura del Novecento, l’architettura razionalista del Movimento Moderno, rispetto a questo dilemma ha fatto una scelta radicale. Nella sua certezza positivista ha immaginato che un nuovo ordine fosse la risposta a innumerevoli domande. E ha perseguito l’ordine, se possibile, con ancora maggior forza e convinzione dell’architettura del passato. Perché l’architettura del Novecento,
come tutti i grandi fenomeni collettivi del secolo scorso, era affascinata dall’eccesso. L’ordine perseguito era perentorio. Le Corbusier, nel 1925, alla borghesia industriale europea ancora sotto il duplice shock della prima guerra mondiale e della Rivoluzione di Ottobre, suggerisce una drammatica alternativa: «architettura o rivoluzione». In altre parole, o si mette mano alla città e la si ammoderna in senso democratico, oppure sarà il caos. La Rivoluzione fatela fare agli architetti.

La borghesia europea si fidò, ma non del tutto. Il razionalismo dello zoning lecorbusieriano divenne uno dei sistemi di controllo più sofisticati per gestire e convogliare il più grande processo di urbanizzazione della storia dell’uomo. Le ‘macchine per abitare’ di Le Corbusier sono diventate la matrice di periferie sciatte e monofunzionali. La dimensione pubblica della strada («Il faut tuer la rue corridor» era uno dei suoi più famosi slogan) viene dissolta per lasciare spazio all’automobile come principale elemento ‘abitante’ la città contemporanea. Del sogno lecorbusieriano rimane ben poco: una parvenza di efficienza, una illusione di democrazia, una estetica pauperista. L’architettura del Novecento ha avuto un’eccessiva fiducia nelle sue possibilità. Spalleggiata dall’industria, dalla tecnica, dalla sociologia, non ha creduto neppure per un attimo di deviare dai suoi assunti. Eppure l’architettura del passato, fin dal Rinascimento, aveva fondato il suo grande potere ordinatore proprio sull’idea che l’ordine potesse essere altrettanto pericoloso che il disordine. Lo sa Brunelleschi quando colloca nel corpo denso della Firenze medievale la cupola di Santa Maria del Fiore. Lo sa Filarete che affianca alla Milano compatta e chiusa la Ca’ Granda, l’ospedale più grande e moderno del mondo classico. E lo sa Michelangelo che offre a Roma l’ordine e la prospettiva della piazza del Campidoglio. E il progetto implicito di Andrea Palladio nel Triveneto non è altro che quello di ridisegnare, nelle maglie del territorio esistente, il nuovo ordine della borghesia mercantile che, dopo la metà del Cinquecento, capisce che deve inventare una nuova economia politica nell’agricoltura, non potendo più competere sul mare solcato dalle nuove potenze. Sono infiniti gli esempi di architetture del passato che, immaginando un nuovo ordine, per la città o il territorio, lo mettono in pratica ma fino-a-un-certo-punto. I nessi della città esistente non vengono negati, i nuovi oggetti irrompono nel tessuto medievale e, non mistificando la loro alterità, ne salvaguardano il carattere. L’ordine eccessivo del Novecento non lasciava scampo. Nella sua incapacità di negoziare con la città esistente, nel suo incarnare la rivoluzione in una forma – e nell’ovvio risultato che la borghesia quella rivoluzione l’ha indirizzata – non ha avuto la modestia di accettare gli ordini impliciti ed esistenti che ogni città e ogni territorio hanno in sé. Perché ogni ordine interviene su ordini esistenti e il primo compito per chi opera non è altro che cercare di riconoscere l’ordine latente piuttosto che imporne uno esogeno. L’ambizione dell’architettura di ‘mettere ordine’ è legittima ma solo a condizione che essa sia in grado di riconoscere gli ordini – molteplici, spesso contraddittori – che sono già ‘al lavoro’ nella forma della città esistente. In questo senso, dalla fine del Novecento – segnato simbolicamente dalla inaugurazione del Guggenheim di Frank O. Gehry a Bilbao nel 1997 – i nuovi oggetti architettonici auto-referenziali, autonomi, anti-urbani, sembrano abdicare sia al riconoscimento dell’ordine esistente sia all’ambizione di imporre o suggerire un ordine differente. L’architettura di successo del tempo presente, ovvero gli oggetti solipsistici di Gehry e Zaha Hadid, di Daniel Libeskind e di Santiago Calatrava, risolvono nel modo più semplice e meno duraturo il dilemma di Paul Valéry. Se il Novecento ha fallito nel suo tentativo di mettere ordine, allora tanto vale gettare ogni remora, rifugiarsi in un linguaggio codificato e personalistico, e trasformare l’intervento architettonico in un elogio del disordine, in un’apoteosi del gesto personale, l’unico ormai legittimato ad agire. L’ordine fino-a-un-certo-punto, l’ordine che, riflettendo su se stesso, ammette anche le ragioni della città esistente, è una delle lezioni che invece vale la pena di indagare nel leggere la storia dell’architettura come una storia delle forme. In fondo, il motto di Paul Valéry non è altro che un invito a oscillare tra ordine e disordine, accettando che, in questa oscillazione, in questa incertezza, in questa sfumatura, ci sia un compito sufficientemente impegnativo da non lasciare spazio al personalismo e al soggettivismo dell’architettura che oggi sembra prevalere.

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