CAOS

Il termine ‘caos’ rinvia prioritariamente a uno stato di disordine (delle cose), ma anche a una sorta di indeterminazione della mente che, in qualche modo, ne segnala il pericolo: da un lato un oggetto oscuro e indistinto per l’intelletto, dall’altro l’impossibilità di intervento della volontà. Anche l’immaginario è impotente perché il caos è sempre al di là e/o al di qua del possibile e del pensabile, quasi sospeso tra il grado massimo della complessità del mondo-della-vita e il grado minimo della significazione, a metà strada tra i grandi determinismi della natura e l’arbitrarietà delle culture. Forse per questo tutti i sistemi sociali devono esorcizzare questo abisso dell’essere e del pensiero con un ordine del mondo, con una cosmologia, più o meno antropomorfica, capace di evitare sia fondamenti indefinibili e irregolari sia prospettive imprevedibili e pericolose: il caos è sempre uno stato da cui uscire per dare senso ai rapporti tra gli uomini e/o una eventualità da evitare per non perdersi nella complessità ipertrofica delle relazioni con la natura. Le civiltà nascono necessariamente da questa opposizione radicale: hanno bisogno di un ordine della ragione capace di trasformare i limiti della vita in regole del mondo, l’eterna continuità delle generazioni in temporalità sociale, l’informe delle origini in spazio antropologico. Il pensiero mitologico conosce bene il problema e già Esiodo lo affronta nella Teogonia che è anche, e non a caso, una cosmogonia: «Poiché veramente per prima il Caos nacque, ma poi/ Gaia ampiopetto, di tutti dimora incrollabile sempre/ [immortali, che tengono la vetta del nevoso Olimpo]/ e il Tartaro tenebroso nel cantuccio del suolo ampistrade,/ e Eros, il più bello tra gli immortali dèi,/ scioglimembra, e di tutti gli dèi e tutti gli uomini/ doma nei petti la mente e l’assennato consiglio./ Dal Caos l’Erebo e la nera Notte nacquero:/ dalla Notte a sua volta l’Etere e il Giorno nacquero/ che generò ingravidata a Erebo in amore mista» (Esiodo, Teogonia, vv. 116-125; trad. it. di Cesare Pavese, Einaudi, Torino 1981, p. 11).

Caos è spazio aperto, oscuro vuoto primordiale, abisso delle tenebre, voragine indistinta, materia nebulosa che però non ha nulla a che fare con l’arché del pensiero filosofico, anzi sottolinea tutto ciò che di indistinto e di indefinito si nasconde nella negatività originaria, e meno ancora con l’ideale greco di teleia, che è insieme compiutezza e de/finizione, ovvero un corretto rapporto tra le cose del mondo e l’inevitabile pressione che esercitano sul pensiero. Forse la traduzione filosofica meno approssimativa del caos esiodeo è l’apeiron di Anassimandro, da intendersi come non-delimitato (oggettivamente), non-distinto (soggettivamente), non-chiaro empiricamente e semanticamente. Ovviamente il passaggio al delimitato e al distinto in un simile contesto è sempre pensato e vissuto come positivo: in Esiodo è evidente non solo nel ciclo delle generazioni degli dèi e degli uomini, ma anche nel processo di segregazione e di differenziazione che coincide con la costruzione di un ordine cosmologico e con un’estetica del pensiero. La nostra civiltà ha spesso dimenticato queste lontane sedimentazioni del pensiero politeistico, dove entità negative come Caos, Erebo e Notte sono del tutto diverse dagli dèi come forme distinte e ordinate, quasi a proiettare nel racconto mitico la continua aspirazione degli uomini ad un ordine del mondo in cui vivere senza la nostalgia delle origini e senza l’angoscia della fine.

Il pensiero monoteistico ha rovesciato questi presupposti, negandone il valore esistenziale e nello stesso tempo assolutizzandone i principi: il Cristianesimo, ad esempio, ha rifiutato il processo generativo, molto umano e immanente, come origine e formazione del mondo, assolutizzandolo nell’atto creativo di Dio che trascende ogni dialettica tra diverse modalità di esistenza, tra indistinto-distinto, tra disordine-ordine, tra impossibilità-possibilità di significazione. Per i paradossi che caratterizzano le traduzioni culturali, è proprio il libro della Genesi a raccontare, in una forma particolare di mito che la fede trasforma in storia teologica, la creazione e non la genesi, del mondo e dell’uomo: «In principio Dio creò il cielo e la terra. Il mondo era vuoto e deserto, le tenebre coprivano gli abissi e un vento impetuoso soffiava su tutte le acque. Dio disse: “Vi sia la luce!”. E apparve la luce. Dio vide che la luce era bella e separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce Giorno e le tenebre Notte» (Gn, 1, 1-5). Il processo umano di segregazione e di differenziazione lascia il posto a un Dio che crea ordinando e chiamando, che ordina e chiama creando; anche ciò che precede questa azione trascendente si assolutizza nel nulla dell’essere e della significazione. In definitiva, nella prospettiva teologica del Cristianesimo il vuoto che precede la creazione coincide con il non essere del senso e quindi con quell’assenza assoluta che nega in modo categorico ogni possibilità e ogni relazione. Non a caso: se Dio è principio assoluto di ordine, di regole e di classificazione, tutto ciò che noi pensiamo come indistinto e come indeterminato coincide con il nulla, così come la precarietà dell’esistenza non è che la conseguenza di un peccato originale e originario. Dopo tutto anche l’Eden aveva le sue regole ed è inutile recriminare: quando l’uomo vuole riordinare il mondo, inevitabilmente pretende di essere simile a Dio, e questo non è possibile e meno ancora pensabile (maledetto serpente della conoscenza!), fin dalle origini (mitiche) della nostra storia cristiana. Nella civiltà del Dio della creazione e del senso, il caos coincide inesorabilmente con il nulla, e non esiste possibilità scientifica di evocarne il valore, sia in termini di complessità e/o di limite, sia come paradosso della vita che racconta, in una sorta di rito di inversione, la necessità dell’ordine e della conoscenza distintiva.

Anche la moderna teoria scientifica del caos, con modelli matematici adatti all’analisi della complessità, ritorna in qualche modo sull’opposizione tra l’indeterminabile o apparentemente tale e l’urgenza di de/finizione, e lo fa rinunciando a ogni fondamento teologico e/o ontologico della verità e basandosi su umani criteri empirici della certezza: essa è certamente più lontana dal racconto biblico che dal mito esiodeo. Coerentemente con un ordine scientifico, che ormai tende a diventare globale, ripropone la necessità umana di uscire dal caos-complessità del mondo-della-vita e dalle conseguenti ‘crisi della presenza’ implicite in ogni disordine del mondo. Questo non significa che siamo del tutto tranquilli: da un lato l’esistenza sociale ci espone continuamente al pericolo del caos, a volte possiamo anche conviverci, ma sempre a patto di uscirne; dall’altro vogliamo comprenderne il mistero, ma per farlo abbiamo bisogno di definirne gli orizzonti, e quindi inevitabilmente di decostruirne la materia prima con regole-limiti accettabili, che proprio per questo riteniamo forme sostanziali. Il caos, in definitiva, continua a opporsi a ogni cosmo-logia culturale e perciò a riproporsi come l’impensabile della vita e l’impossibile del pensiero.

multiverso

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