CAOS

Ha una sua indiscutibile fierezza il muflone sardo, solida pecora selvatica dalle grandi corna, quasi un simbolo dei pascoli dirupati della grande isola in cui è di casa. In Sardegna, tuttavia, il muflone non abita da sempre, né ci è arrivato da solo. Ce l’ha portato l’uomo dal Vicino Oriente, 6.000 anni avanti Cristo.

Ottanta secoli, tutto sommato, sono un periodo di tempo lungo abbastanza per considerare oggi il muflone come una specie naturalizzata, un membro legittimo della fauna sarda. Il suo caso è ben diverso da quello dello scoiattolo grigio nordamericano, piccolo e grazioso animale dal carattere un po’ invadente introdotto in Europa pochi decenni fa, che in Inghilterra si è fatto avanti, sgomitando, a danni di un suo stretto parente, lo scoiattolo rosso, il quale abita invece nei boschi europei da millenni. Per proteggere quest’ultimo, siamo disposti a dare la caccia al piccolo invasore, fino all’ultimo esemplare, per cancellare gli effetti della sua sconsiderata introduzione in Europa? Faremo lo stesso con i parrocchetti dal collare, quegli agili pappagalli verdi, nativi di ampie parti dell’Africa e dell’Asia, che oggi popolano i parchi di molte città europee? E in quale modo ripuliremo le acque dei nostri fiumi dalla presenza delle quaranta specie aliene di pesci con cui le abbiamo riempite? Salveremo la carpa, solo perché la sua introduzione risale ai tempi dei romani? Risparmieremo il persico sole o il persico trota, nostri ospiti da poco più di un secolo, per salvaguardare gli interessi dei pescatori?

Di certo, le delicate scelte che dovrebbero essere alla base di una buona gestione dell’ambiente non possono essere basate soltanto, o soprattutto, sul numero di generazioni che le diverse specie hanno ormai trascorso nelle nostre acque o nei nostri boschi. Senza contare che alcune di esse non hanno atteso che l’uomo offrisse loro un passaggio verso casa nostra, ma ci sono arrivate da sole. Come la tortora dal collare orientale, così comune nelle nostre regioni da suggerire che qui ci abiti da sempre. Tuttavia, fino ad un secolo fa, la sua patria era un’ampia regione asiatica compresa fra Turchia e Cina; poi è cominciata la sua espansione verso Occidente e i primi esemplari della specie si sono fatti vedere in Italia nel 1947. Pensiamo ancora che le si possa negare il diritto di cittadinanza? Se a qualcuno venisse in mente questa idea, qualcun altro potrebbe suggerire, non meno seriamente, di eliminare il passero e il fringuello, il cardellino e il verdone, il merlo e il tordo, lo storno e l’allodola. Naturalmente, non dalle nostre campagne o dai nostri boschi, ma da quelli della Nuova Zelanda, dove tutti questi uccelli europei, introdottivi attorno alla metà dell’Ottocento, sono ormai di casa. Forse, tutto sommato, è davvero tardi per correre ai ripari. Peccato però che, nel frattempo, si sia estinta una quindicina di specie native di uccelli neozelandesi. Alla lunga, anche un animale introdotto può trasformarsi in una specie degna di rispetto e perfino di protezione. È il caso, da noi, dell’istrice, anche se la sua patria è l’Africa ed è da qui che questo grosso roditore fu introdotto in Italia molti secoli fa, forse ai tempi dei romani. In quei secoli, invece, in Italia non c’era il daino: più precisamente, non c’era più e non c’era ancora. Non c’era più perché se ne erano estinte da tempo le popolazioni conosciute dai nostri cacciatori pleistocenici, che in diverse località hanno ritratto il daino nelle loro pitture rupestri; e non c’era ancora perché la specie fu reintrodotta, in Italia e in altre parti d’Europa, solo a partire dal Medioevo. È possibile dunque definire in modo non ambiguo quale è la fauna (o la flora) di un Paese? È possibile, forse, se facciamo riferimento a una data precisa, se scattiamo un’istantanea che documenti le presenze ormai consolidate, ma anche in questo caso ci troveremo di fronte a una lista eterogenea, soprattutto se la regione di cui ci occupiamo – potrebbe essere l’Italia peninsulare, la Sicilia o la Sardegna – non ha conosciuto, in tempi recenti, le devastazioni portate dai ghiacci in larga parte del nostro continente. Nel corso del Quaternario, buona parte dell’Europa settentrionale e centrale ha conosciuto una serie di glaciazioni che hanno cancellato praticamente ogni forma di vita da vastissime regioni, il cui popolamento attuale è il risultato di una colonizzazione cominciata meno di ventimila anni fa – un attimo appena, se confrontato con il tempo che è trascorso da quando le prime forme di vita hanno visto la luce sul nostro pianeta. In questa prospettiva, intere regioni come le Alpi, la Scandinavia e l’Inghilterra ospitano solo (o quasi) popolazioni immigrate, arrivate in queste terre al più da qualche migliaio d’anni.

Faune e flore sono in continuo divenire, per un complesso intreccio di cause interne ed esterne. Da un lato, tutte le popolazioni continuano ad evolversi, a volte in maniera impercettibile, altre volte a una velocità sorprendente. Dall’altro, i cambiamenti climatici le trascinano in una vicenda sempre aperta di migrazioni, di estinzioni, di incontri, di ricongiungimenti. All’imprevedibilità di questo divenire l’uomo ha sempre offerto, e sempre di più offre ai nostri giorni, il contributo aggiuntivo di un incessante trasferimento, volontario a volte, accidentale in altri casi, di un numero crescente di piante e di animali, spesso a grande distanza, da un continente all’altro, da un emisfero all’altro.

Fra le erbe e i piccoli arbusti che incontriamo lungo le nostre strade o negli incolti delle periferie urbane, le specie aliene sono spesso più numerose di quelle native, qualunque cosa significhi ormai questo termine. Il contenuto della stiva di una nave, scaricato sull’altra sponda di un oceano, può cancellare molte righe di una storia che le specie e gli ecosistemi hanno scritto nel corso di molti milioni di anni. Il caos si fa strada, ogni giorno di più, tra le faune e le flore delle più diverse parti del mondo. La storia, tuttavia, va avanti e a volte prende strade inattese. Ci sono situazioni in cui l’evoluzione accelera e nuove specie nascono a una velocità prodigiosa. È successo, per esempio, nel grande bacino del lago Vittoria, dove almeno cinquecento specie diverse di pesci si sono formate, a partire da un comune antenato, nell’arco di centomila anni appena. Tuttavia, quasi tutte queste specie che fino a cinquant’anni fa popolavano il grande bacino africano oggi non esistono più. La loro esistenza è stata cancellata dal persico del Nilo, pesce grande e vorace, introdotto dall’uomo negli anni ’50. In tempi più recenti, la popolazione di questo pesce è stata ridimensionata e i piccoli pesci nativi hanno ricominciato a proliferare. Nuova vita e nuove avventure: tra i sopravvissuti sono avvenuti incroci che prima non si erano mai visti e così, in brevissimo tempo, stanno nascendo nuove forme ibride, delle quali almeno alcune potranno avere successo e diventare nuove specie. Lasciamo tempo al tempo.

Se per un momento chiudiamo gli occhi sulla tragedia degli anni passati, questi pesci ci raccontano una bella storia di nuovo ordine che emerge dal caos. Prima il caos dovuto all’uomo, con la rottura degli equilibri causata dall’introduzione del predatore forestiero; poi il caos genetico, cioè l’ibridazione. I nuovi equilibri che stanno emergendo potranno durare per un poco, magari fino al prossimo disseccamento dell’intero lago, vasto ma poco profondo, una vicenda che esso ha già conosciuto più volte. Oppure fino al prossimo rimescolamento di carte che Homo sapiens non mancherà di fare, consapevole o meno della sua grande abilità nel portare caos negli ecosistemi.

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