CAOS
Il caos come cifra del presente
di Claudio Melchior e Antonella Pocecco
Chi bombarda Aleppo? Perché le nostre città sembrano invase da giovani pakistani e afghani? Cosa si nasconde nella triste vicenda di Giulio Regeni? Il Vecchio continente è effettivamente disseminato di ‘cellule dormienti’ terroristiche, pronte a colpire la nostra quotidianità? E chi finanzia Daesh? Quali e quante conseguenze avranno gli esiti delle elezioni presidenziali statunitensi? La situazione economica dell’Italia sta migliorando o peggiorando?
La realtà che ci circonda sembra assumere sempre più i connotati di una concatenazione disorganica di frammenti. Frammenti cui i media contribuiscono a dare spessore nell’hic et nunc, senza, però, mai tentare di ricomporli in una logica razionale o in una narrazione coerente. Il termine chiave per poter descrivere questa realtà così come ci appare oggi è ‘caos’, ed è bene richiamarne esplicitamente il duplice significato attribuitogli dagli antichi greci di ‘disordine’, da un lato, e di ‘spazio vuoto, aperto’, dall’altro. Il mondo è oggettivamente complesso, quindi sperare di averne una conoscenza completa, totale, è un’ambizione irrealistica, un’utopia irrealizzabile. Ma un’assunzione di tal genere non implica che tutte le attività finalizzate alla conoscenza (pur nella consapevolezza dei suoi limiti) siano per questo inutili. Anzi, lo scienziato, constatato che la verità e l’obiettività assolute non esistono o non sono mai pienamente raggiungibili, deve impegnarsi ancora più fortemente nel suo doveroso impegno in direzione della verità e dell’obiettività.
Purtroppo, oggi anche il più volenteroso tra noi si trova di fronte a un paradosso che forse, a sua volta, è un moltiplicatore del caos. Le possibilità di conoscere, capire e attribuire un senso agli accadimenti sono infatti virtualmente infinite: in altre parole, gli interrogativi proposti all’inizio (e molti altri, ugualmente importanti) di fatto potrebbero trovare una risposta. Sappiamo, ad esempio, che i profughi che provengono dalla Siria conoscono gli avvenimenti, gli attori e il contesto della crisi mediorientale in misura incommensurabilmente superiore rispetto al livello di conoscenza e consapevolezza delle audience occidentali. Poiché hanno visto in prima persona ciò che è accaduto, o sono stati raggiunti da informazioni complete, sensate, ottenute grazie alla vicinanza ai fatti, alla rete di relazioni primarie e alla rilevanza immediata che questi accadimenti hanno per la loro stessa esistenza. Il paradosso sta nel fatto che anche noi occidentali, grazie ai supporti tecnologici di cui disponiamo (pc, smartphone ecc.), saremmo in grado di cercare e reperire tali informazioni, che sono spesso pubbliche e disponibili. Solo che, semplicemente, non lo facciamo. Lasciando così perdurare la nostra condizione di ignoranza e il nostro sgomento di fronte al caos. Indubbiamente una conoscenza più approfondita e critica della realtà globale richiederebbe un investimento di tempo e di attenzione che la maggior parte degli individui non può permettersi, al netto di tutte le altre attività che riempiono la quotidianità. Il principale ostacolo a un potenziamento delle capacità di sapere, conoscere e capire ciò che ci circonda discende da una necessaria ‘economia cognitiva’, ovvero l’esigenza di ridurre il livello e la quantità degli stimoli cui prestare attenzione, in maniera tale da scongiurare quel possibile blackout percettivo generato da un sovraccarico informativo costante. Menzionare questi limiti oggettivi non spiega in toto perché la nostra conoscenza del mondo sia così frammentaria e sfilacciata, e nemmeno il fatto che, ormai, il caos sia divenuto il tratto che connota pesantemente una indistinta percezione collettiva di movimenti centrifughi, che mettono in crisi ogni possibile interpretazione razionale. Bisogna infatti aggiungere un ulteriore elemento: domandarsi se chi è preposto a fare ‘per noi’ questo lavoro – giornalisti, editorialisti, esperti di settore, in una sola espressione il sistema dei media – si ponga o meno il problema di limitare i buchi informativi, di inquadrare i fatti all’interno di una cornice interpretativa che li renda comprensibili e li riempia di significato.
Molto spesso, il sistema dei media sembra allontanarci dalla verità o, meglio, da una realistica oggettività. E lo fa non tanto con la menzogna deliberata, risorsa troppo rischiosa perché rischia di trasformarsi in boomerang, ma tendenzialmente con l’omissione. Si preferisce non citare un fatto, oppure spostare l’attenzione altrove. Continue riproposizioni delle stesse informazioni, sotto forma di spot, che esplodono grazie al primo lancio di qualche agenzia e poi si riproducono, tendenzialmente sempre uguali, in un sovraccarico di ripetizione di dettagli che, in realtà, oscurano la narrazione complessiva, ne confondono le trame, sovrappongono i livelli e la rilevanza dei singoli dati. Vengono così dedicate migliaia di ore di telegiornali ai profughi che provengono dalla Siria, senza mai spiegare compiutamente perché scappano e perché siano nelle nostre città. Ed ecco che il risultato di queste pratiche si traduce, ad esempio, nell’idea di un Medio Oriente che permane nell’immaginario occidentale come il locus metaforico del caos, data la difficoltà per le opinioni pubbliche di decriptarne la complessità, se non in termini di semplificazioni basate su stereotipi e banalizzazioni.
Se il caos è coscienza della compresenza di differenti narrazioni del mondo, ognuna portatrice di un punto di vista parziale sulla realtà, in concorrenza con le altre, in un contesto in cui mancano i punti fermi per poter superare una visione relativistica del quadro complessivo in cui si svolgono le nostre vite, allora, forse, anche noi stessi diventiamo produttori di caos.
Le domande riportate nell’incipit non sono dunque senza risposta, anzi. Pur appannaggio di ristrette minoranze di esperti, individui direttamente coinvolti o operatori umanitari, le informazioni rimangono comunque disponibili. Sarebbe sufficiente avere la voglia di raccogliere questi frammenti, confrontarli, analizzarli in modo critico, eludendo le lusinghe della pigrizia intellettuale e del conformismo. Invece, queste ‘isole’ di piccole verità restano tali, ovvero saperi frazionati e di pochi.
Il singolo non sa cercare queste risposte, o non riesce a farlo; e il sistema dei media, che dovrebbe svolgere questo lavoro per noi, non lo sa fare, non riesce o non vuole farlo, perché in realtà si pone altri obiettivi. Come il consenso, o la ‘pace sociale’, o la difesa del ‘sistema’ come rete di relazioni e posizioni acquisite che, se messe in discussione, rischiano di creare un’altra forma di caos.
Il paradosso finale è proprio questo: sono gli stessi mezzi di comunicazione di massa, divenuti custodi del ‘sistema’, a cercare di impaurirci, proprio in funzione della salvaguardia del sistema stesso. «Dopo di me il diluvio», si sente dire sempre più spesso. Il diluvio, ovvero il caos. Ogni sistema organizzato tende, per sua stessa natura, a preservarsi. E, per farlo, una delle tecniche più usate è proprio quella di accreditarsi come l’unico ordine possibile, al di là del quale, giustappunto, non c’è nient’altro che il vuoto, di nuovo il caos. Ed ecco che così ‘caos’ diventa la categoria contrapposta al concetto di ‘ordine’, per incutere timore e salvaguardare l’integrità del sistema sociale, di quello politico, economico, mediatico. Categoria che si applica sempre e solo agli altri, all’esterno, all’estraneo. Categoria che non ci riguarda mai da vicino, dato che, nonostante tutti i problemi concreti ed evidenti delle nostre società, noi viviamo sempre nell’ordine, ça va sans dire.
E in ultima analisi, portando alle estreme conseguenze questo ragionamento, chi pensa che i sistemi sociali debbano sempre evolvere per poter restare efficienti e giusti, finisce per riporre una segreta speranza proprio nel caos, che diventa a quel punto l’unica chimera che possa avvicinarci alla verità.
Varys. Ho fatto quello che ho fatto per il reame.
Baelish. Il reame? Tu sai cos’è il reame? Sono le mille lame dei nemici di Aegon, una storia che noi accettiamo di raccontarci ancora e ancora; finché dimenticheremo che è una fandonia.
Varys. Ma che ci resterà il giorno in cui abbandoneremo questa fandonia? Il caos: un pozzo profondo che aspetta di inghiottirci tutti!
Baelish. Il caos non è un pozzo, il caos è una scala. Tanti che provano a salirla falliscono e non ci provano più, la caduta li spezza. Ad altri viene offerta la possibilità di salire, ma rifiutano, rimangono attaccati a regni o agli dei o all’amore: illusioni. Solo la scala è reale. E non resta che salire.
Dialogo tratto dalla serie televisiva ‘Il trono di Spade’, HBO, stagione 3, episodio 6, ‘La scalata’.