CAOS

Molti miti, anche quelli fondativi della nostra razionale tradizione culturale, oppongono il cosmo creato e ordinato al caos. Serve un demiurgo che intervenga con parola potente sulle acque, sulla terra informe e sulle tenebre che ricoprono l’abisso. Parola potente e gesti che separano e distinguono. L’ordine esce dal caos e deve essere garantito dal rischio di precipitarvi nuovamente; ogni incrinatura va prontamente riparata. Ordine e caos obbediscono al principio di non contraddizione; sono entità nemiche che reciprocamente si escludono. Lo afferma la Genesi, in apertura; ma è tradizione sacerdotale, frutto di geometri o tessitori del sacro che immaginano una divinità che disegna il mondo come loro lo vorrebbero: il bene e i buoni da una parte, il male e i malvagi dall’altro. Altre tradizioni sono meno drastiche e per rappresentare la vita intricata degli uomini ricorrono a strutture simboliche diverse, preferendo il principio di contraddizione. Gli etnologi hanno osservato e descritto riti d’iniziazione nei quali hanno un ruolo centrale la foresta – come nelle fiabe: la foresta nelle cui viscere Pollicino e i fratelli sono «portati a perdersi» – oppure il labirinto. Il simbolo «è usato per creare un disturbo temporaneo alla coscienza che confonda l’iniziato, facendogli simbolicamente perdere la strada, ovvero l’orientamento razionale e lineare». Il labirinto, infatti, «possiede una natura essenzialmente duale e paradossale, al contempo circolare e lineare, semplice e complessa, radicata nella storia e transitoria. Un sentiero lungo e difficile, contenuto in uno spazio raccolto, si ripiega su se stesso, conducendo per una via circolare a un centro misterioso e invisibile. Trovandosi all’interno, tutto appare limitato e confuso, mentre guardandolo dall’alto si notano l’ordine e la valenza artistica del disegno. Così il labirinto assomma in sé confusione e chiarezza, molteplicità e unità, prigione e liberazione, caos e ordine». Come l’esperienza di vita; come le pratiche terapeutiche che per il ritrovamento di sé chiedono la sofferenza del ritorno temporaneo nell’abisso. Che cosa c’è di più ordinato e regolato di un rituale? Eppure i riti di passaggio non temono la contraddizione; se ne alimentano. Nel tempo intermedio e liminale che il rito finge saltano le regole consuete. Dovendo accompagnare il movimento che segna la vita, lo spazio e il tempo degli uomini da un ‘prima’ che occorre abbandonare a un inesorabile ‘dopo’, il rito infila in mezzo l’esperienza del caos, del disordine, dei padroni del mondo di sotto che valicano il confine e irrompono nella comunità. Le pratiche di iniziazione e i riti mascherati dell’inverno, da Halloween al Carnevale, si alimentano dell’etica del mondo alla rovescia, dell’inversione dei ruoli, della trasgressione. Senza il passaggio non c’è ritorno della fertilità, non può esserci esperienza creativa del nuovo.

Abbiamo trasformato, a nostro danno, l’iniziazione e il Carnevale in un gioco di società. È inevitabile che poi vinca Quaresima, la vecchia del «tutto già visto», che porta sulle spalle la gerla del conformismo.

Le citazioni sono tratte da Labirinto, in Il libro dei simboli. Riflessioni sulle immagini archetipiche, Taschen, Köln 2011, p. 714. Le considerazioni sono a margine di P.R. Doob, The Idea of the Labyrinth from Classical Antiquity through the Middle Ages, Cornell University Press, Ithaca (New York) 1990 e G. Kezich, Carnevale re d’Europa. Viaggio antropologico nelle mascherate d’inverno, Priuli & Verlucca, Scarmagno (Torino) 2015. [Gian Paolo Gri]

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