CAOS

Andrea Lucatello intervista Nicla Vassallo

Recentemente lei, assieme a Sabino Maria Frassà, ha lanciato un appello pubblico contro l’ignoranza. Multiverso, interrogandosi come sempre sul presente, ha voluto dedicare questo numero a ‘caos’, immagine-simbolo dei nostri tempi. È un caos che disorienta anche perché a mancare sono proprio i riferimenti di base, il senso che vogliamo dare alle nostre vite. Cosa avete voluto dire con questo grido contro l’ignoranza?

Constatiamo l’ignoranza quotidianamente in molti dei nostri simili e constatiamo altresì che molti si vantano di essere ignoranti, piuttosto che vergognarsene come dovrebbero. L’ignoranza costituisce un serio pericolo per se stessi e per gli altri: per se stessi, in quanto pensieri e comportamenti s’irrigidiscono e le possibilità di scelta divengono assai limitate (come posso optare per quanto non conosco?), alla ricerca della conoscenza si sostituiscono grette ambizioni e irrisorie vanità, ci si trasforma in temibili egoisti nel vano e vago tentativo di conferire un senso alla vita, mentre in tal modo essa perde effettivamente di senso; per gli altri, poiché gli esseri ignoranti non sono in grado di mostrare un vero rispetto, ti utilizzano impiegando tutta la loro mancanza di conoscenza, che è anche mancanza di sensibilità, da vanagloriosi percorrono la loro misera strada (inconsapevoli di questa miseria) e se, per uno strano caso, ti trovi lì ad attraversarla riescono pure a calpestarti.

Il fallimento della politica ha portato, nel caso migliore, al governo dei tecnici, in quello peggiore a una classe dirigente senza spessore e sempre più populista. Il cittadino si trova in balìa delle proprie pulsioni di pancia più che propenso alla riflessione e al ragionamento e di fronte a temi impegnativi come i movimenti migratori, l’alta velocità, gli OGM o le vaccinazioni tende a pensare ad altro e a non impegnarsi più di tanto. In tutto questo la scienza sta perdendo voce e autorevolezza. Cosa servirebbe per una sua nuova legittimazione?

Da una parte c’è stata una comunicazione di tipo scientifico che ha travisato la scienza e una divulgazione scientifica che si è trasformata in conversazioni da bar sport: si sono creati molti ‘idola’, più o meno simili a quelli che Bacone ci consigliava di abbattere. Dall’altra, sulla ricerca e sull’università si è investito sempre meno (questo è stato ed è un grave errore politico), mentre la stessa università o i centri di ricerca spesso non hanno premiato i migliori, così in molti hanno trovato rifugio all’estero. Ma non si tratta unicamente di scienza. Si tratta più in generale di perdita di autorevolezza dell’intellettuale, della persona colta che ragiona, che osserva il mondo con occhio acuto, critico, e quell’occhio acuto e critico è, tra l’altro, utile alla scienza, nel senso che, se scienza è, non ne banalizza lo statuto epistemico, anzi.

Anche la scienza, tuttavia, a volte si espone a fraintendimenti come quando fa la corsa per brevettare conoscenza e scoperte. Che impatto hanno sulla ricerca brevetti e proprietà intellettuale?

Sono nettamente contraria a brevetti e proprietà intellettuale: fanno parte di quell’estremo egoismo epistemico che, se avessimo praticato da sempre, ci avrebbe costretti all’età della pietra. La nostra società occidentale si è costruita sulla trasmissione generosa di scienza e conoscenza: quando questa trasmissione viene a mancare, la società decade.

A partire dalla fine dell’Ottocento, abbiamo assistito a una iperspecializzazione delle discipline scientifiche che ha prodotto una parcellizzazione dei saperi e una sempre minore visione d’insieme. A che punto sono oggi gli incroci tra discipline diverse? Il progetto di una ‘terza cultura’ è ancora attuale? Spesso ci troviamo di fronte a scienziati che si infastidiscono se qualche altro ‘specialista’ si intromette nella sua materia: è una tutela o un limite?

La situazione è ancora ‘peggiore’ o ‘migliore’ rispetto a questa descrizione. Prendete un buon articolo scientifico internazionale: è firmato da molti/e e ognuno di costoro scrive di norma solo un paragrafo di quell’articolo, sapendo poco o nulla del contenuto complessivo. Con questo intendo sottolineare che l’iperspecialismo risiede a un livello più profondo di ciò che comunemente crediamo. Sulla cosiddetta terza cultura investo, anche per esperienza personale: da filosofa iperspecializzata in determinate tematiche provo piacere e ricevo importanti stimoli nel confrontarmi con altre discipline, incluse quelle scientifiche. Eppure la terza cultura risulta ben poco praticata. Troppi scienziati oggi vivono sotto la pressione del publish or perish e non si dedicano ad altro: solo al ‘loro granello di sabbia’; e se con loro tenti di discorrere ad ampio raggio di ‘castelli’, rimangono sbalorditi come bimbi, oppure si nutrono di stereo-tipi – vi sono, certo, delle eccezioni recenti, ad esempio Oliver Sacks. Ma per lo più gli scienziati si auto-limitano al proprio minuscolo settore. Non hanno tempo o sono svogliati per aprirsi a una cultura più vasta? Diciamo che si rivelano ben poco curiosi, divorati dall’ambizione di brillare. Ciò tuttavia non accade solo in campo scientifico. Basti pensare allo sport.

«Ci sarà un buon governo solo quando i filosofi diventeranno re o i re diventeranno filosofi». Questo il pensiero di Platone. Che rapporto c’è, oggi, tra potere e ignoranza e potere e conoscenza?

I filosofi che aveva in mente Platone dovevano perseguire di fatto determinati valori. In fondo, si può dire che egli non abbia mai cessato di far riferimento a Socrate, soprattutto nei rapporti tra potere e ignoranza, da una parte, e potere e conoscenza, dall’altra. Oggi? Vige il potere dell’ignoranza e l’ignoranza va al potere, perché anche nei Paesi democratici, o che tali pretendono di essere, i cittadini non posseggono le conoscenze per votare. La conoscenza al potere? Rarissima. Chi si nutre oggi della consapevolezza socratica di ‘sapere di non sapere’ e pertanto si mostra capace di non inebriarsi del potere in sé, bensì amante della ricerca della conoscenza per governare al meglio? In ogni caso, Massa e potere di Elias Canetti andrebbe letto e riletto.

La libertà di ricerca non sta passando un bel momento. Le faccio due esempi. Il primo ha a che fare con il movimento ‘No Tav’: all’Università Ca’ Foscari di Venezia una tesi di laurea in antropologia è costata alla sua autrice due mesi di reclusione con la condizionale per aver utilizzato nel testo il ‘noi partecipativo’, letto dagli inquirenti come ‘concorso morale’ ai reati contestati. Analoga sorte è toccata all’antropologo dell’Università Federico II di Napoli che ha ricevuto un avviso di garanzia per la sua presenza a una manifestazione, in Puglia, contro il taglio degli ulivi per la devastazione provocata dal batterio Xylella. Il fatto che fosse lì per comprendere le ragioni della protesta non è risultato sufficiente e così gli è stato contestato uno dei capisaldi dell’antropologia stessa, ossia l’osservazione partecipata e della ricerca sul campo. Che considerazioni può fare a riguardo?

Come ho più volte scritto, se da una parte l’etica della scienza non sembra possibile, dall’altra essa pare anche avere poco senso. Rudolf Carnap ha giustamente affermato che in logica non c’è morale. Possiamo estendere quest’affermazione ad altre importanti discipline scientifiche (biologia, chimica, economia, fisica, matematica, medicina, psicoanalisi, psicologia, scienze cognitive, scienze sociali) in quanto, in se stesse, s’innestano sulla ricerca pura e sulla speculazione teorica. Certo, tutte vedono importanti applicazioni di tipo tecnologico sulle quali può ben esercitarsi una riflessione di carattere etico. Sarebbe però un equivoco proiettare sulla scienza la dimensione etica delle applicazioni tecnologiche e quindi è anche doveroso evitare espressioni abusate, come ‘bioetica’ (che conduce erroneamente a pensare che sia lecita un’etica della biologia) per sostituirle con espressioni del tipo ‘etica delle applicazioni biotecnologiche’. Quando intendiamo indagare filosoficamente la scienza, a interessarci non deve essere il suo presunto valore etico, bensì il suo sicuro valore conoscitivo. La scienza non rappresenta altro che la più alta espressione delle naturali aspirazioni umane a conoscere e conoscere è essenziale perché ci conduce a conferire un senso positivo alla nostra esistenza. Non voglio così negare che si possa attribuire alla ricerca scientifica, oltre a una dimensione epistemica, anche una dimensione sociale che l’assoggetta di fatto a interessi politici, economici, morali e religiosi: di nuovo, però, questi non dovrebbero rivolgersi alla scienza in se stessa, bensì essere strettamente confinati alle sue applicazioni tecnologiche. Tra l’altro, si tratta quasi sempre di interessi di parte, purtroppo capaci di ostacolare il pieno sviluppo della dimensione epistemica della scienza o, addirittura, di metterla sotto accusa per ragioni insensate.

Una provocazione finale: se per guidare senza far danni devo superare un esame e ottenere la patente, cosa pensa se per candidarsi a qualche carica pubblica occorresse superare un test di ammissione o se addirittura un altro test servisse per potersi iscrivere alle liste elettorali per l’esercizio del voto?

Non mi pare una provocazione. Piuttosto una cosa retta, da realizzarsi al più presto. Proporrei, anzi, non solo un test, bensì vari test attitudinali e competenziali. A partire da un esame attento dell’equilibrio psicologico al fine di candidarsi ed esercitare il diritto di voto. Altrettanto chiederei in altri casi. Ad esempio, pensiamo a quelle coppie etero che non intendono impiegare alcun anticoncezionale e si riproducono naturalmente, così, quasi a casaccio. Cosa ci garantisce che si dimostreranno buoni genitori? Ecco qualche test sulla buona genitorialità non può fare male. Del resto, alcune ricerche scientifiche attestano che solo nei Paesi scandinavi diventare o essere genitori incrementa la soddisfazione di entrambi i sessi, mentre dove il welfare non funziona – vedi Italia – la genitorialità migliora la vita degli appartenenti al sesso maschile e peggiora la vita delle appartenenti al sesso femminile. Anche a tal proposito richiederei preventivamente una sorta di patentino. Ragionando in tal modo limitiamo la libertà altrui? Karl Popper è convinto dell’esigenza di contenere la libertà individuale solo se necessario, e nei casi menzionati lo ritengo basilare proprio come Popper, ovvero nel senso che il naso del prossimo determina una restrizione all’esercizio illimitato dei nostri pugni.

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