CAOS

Nel 1962 Italo Calvino, nel saggio La sfida al labirinto, assegnava alla letteratura il compito epistemologico e morale di fornire una mappatura «la più particolareggiata possibile» della complessità del reale, del labirinto appunto, e con essa, se non la chiave, l’indicazione almeno delle strategie per uscirne, senza nascondersi che la via d’uscita altro non sarebbe che il passaggio da un labirinto all’altro. Nel 1967 fu la volta di Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio), in cui, da un lato, Calvino ragionava sull’ars combinatoria, da Raimondo Lullo all’Oulipo (l’Ouvroir de Littérature Potentielle fondato da Raymond Queneau e da alcuni matematici suoi amici) e sulla possibilità che un ‘automa letterario’ possa prendere il posto dell’autore umano, «personaggio anacronistico, portatore di messaggi, direttore di coscienze, dicitore di conferenze alle società culturali»; dall’altro ribadiva la funzione di orientamento della letteratura, riprendendo la metafora del labirinto «facsimile del mondo e della società». Trasferitosi a Parigi due anni dopo, Calvino frequentò l’Oulipo fino a entrare a farne parte nel 1972. Decisivo per la sua poetica fu il sodalizio con Raymond Queneau e Georges Perec: nel 1985, nella sesta delle sue Lezioni americane, propose la molteplicità, e dunque ancora la combinatoria, come valore letterario da coltivare nel nostro millennio, e tra i maestri Jorge Luis Borges, Perec (La vie mode d’emploi è secondo Calvino «l’ultimo vero avvenimento nella storia del romanzo») e il Queneau ‘enciclopedista’, e concluse la sua «apologia del romanzo come grande rete» osservando che «ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili». Né mancò di ribadire l’assioma oulipiano, da lui stesso adottato nei suoi romanzi maggiori, per cui «la struttura è libertà». Labirinto, mappa, facsimile, enciclopedia, rete, struttura, combinatoria, libertà sono concetti perfettamente trasferibili al web, che si presenta come un labirinto del terzo tipo, in cui ogni punto è, o può essere, connesso ad ogni altro, senza entrata né uscita, senza inizio né fine, o, per usare la metafora di Gilles Deleuze e Félix Guattari, come un rizoma, senza strutture né gerarchie interne. Gerarchiche e strutturate erano invece le enciclopedie antiche, medievali e moderne: secondo criteri assiologici, classificatori o convenzionali. Le sette arti liberali articolano le Nozze di Mercurio e della filologia di Marziano Capella; lo Speculum mundi di Vincenzo di Beauvais si suddivide in quattro ‘specchi’ (naturale, dottrinale, storico e morale); l’Encyclopédie illuminista è descrivibile come un labirinto del secondo tipo (a biforcazioni): all’ordine alfabetico delle voci, adottato per praticità, sottostà una classificazione ad albero che procede per diramazioni a partire da una tripartizione delle conoscenze umane (storia, filosofia, poesia); la classificazione decimale di Melvil Dewey procede per scomposizioni successive, ecc. Nulla di tutto questo nel labirinto del world wide web, e sulla sua natura caotica immancabilmente si scontrano gli apocalittici e gli integrati. Tra questi ultimi, cito almeno Pierre Lévy: secondo questo grande esperto di cyberspazio e cybercultura, la rete «respinge un controllo gerarchico – dunque opaco – globale e a priori, cosa che sarebbe una possibile definizione del sistema della censura o di una gestione totalitaria dell’informazione e della comunicazione» e «il caos, la confusione, il carattere diluviale dell’informazione […] non impediscono alle persone e ai collettivi di orientarsi e di crearsi da soli gerarchie, selezioni, strutture. Sono definitivamente sparite le selezioni, le gerarchie o le strutture con la pretesa di essere valide per tutti e in ogni tempo, vale a dire l’universale totalizzante». Senza pormi tra gli apocalittici, osservo che, se non si può che concordare con Lévy nel respingere gerarchie e strutture in quanto strumento di controllo e di censura, da un punto di vista della fruibilità della grande enciclopedia ipermediale il caos, se non di impedimento, certamente è causa di disorientamento, di smarrimento dei ‘naviganti’ privi di un portolano: il caos non è mappabile. Penso dunque a un cyberspazio ordinato, semantizzato, gerarchico, e ne trovo un possibile modello nel Teatro della memoria di Giulio Camillo Delminio, il friulano che nel Cinquecento concepì e realizzò in concreto un edificio che, sul modello di quelli ideali della tradizione mnemotecnica, si presentava come archivio e repertorio dello scibile universale, organizzato in loci contrassegnati da imagines agentes, disposti sulle sette gradinate di un anfiteatro ligneo, suddivise verticalmente in sette settori: quarantanove ‘siti’, diremmo oggi (ma a loro volta settemplici, almeno sino alla terza potenza: 343). Gradi e settori creavano un sistema di coordinate corrispondenti a una classificazione in cui si combinavano, con tipico sincretismo rinascimentale, simbologie astrologiche, cabalistiche, mitologiche. Nel complesso, il Teatro della memoria era un Theatrum mundi: la sua struttura gnoseologica corrispondeva alla struttura cosmologica di un universo concepito neoplatonicamente come emanazione: dall’alto verso il basso, si passava dal semplice al complesso, dal generale al particolare (in un certo senso realizzando quanto richiesto da Gottfried Wilhelm von Leibniz: la conoscenza umana deve emulare la visio Dei). Non darò qui ulteriori dettagli: sono ben noti gli studi di Frances Yates e Lina Bolzoni; ritengo soltanto di aggiungere, rispetto alla loro ricostruzione (un teatro di impianto vitruviano-palladiano), che quello di Giulio Camillo era un anfiteatro, a pianta centrale dunque, di struttura simile alle ruote combinatorie di Raimondo Lullo e Giordano Bruno, e che era non solo un grande database, ma anche un congegno combinatorio: una macchina ipertestuale, noetica e poetica.

A titolo di curiosità, segnalo che venticinque anni fa, senza alcun riferimento al Teatro di Giulio Camillo, Michael Benedikt, architetto e urbanista, propose di organizzare un archivio di diapositive secondo un ordinamento neoplatonico dichiarandosi convinto che esso, «tanto è naturale», si affermerà anche nel cyberspazio. Benedikt osserva che «qualunque ricerca che non coincida con la struttura della gerarchia è scomoda».
Da parte mia, credo che la realtà virtuale consenta oggi di realizzare un analogo del Teatro di Giulio Camillo organizzando il cyberspazio secondo criteri architettonici o urbanistici che consentano di muoversi entro le strutture di dati, come immaginato da William Gibson in Johnny Mnemonic. In ogni caso, mi pare auspicabile un antidoto a un caos che sembra non avere alcuna tendenza ad autoorganizzarsi (se non localmente: Lorenzo De Carli individua in ciò il formarsi di un ‘multiverso’). Non vorrei che il catalogo della nostra biblioteca di Babele finisse per somigliare a quello dell’enciclopedia cinese (altra invenzione di Borges) che così classifica gli animali: a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini di latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) eccetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche. Catalogo che, se lì per lì ci fa sorridere, ci induce poi a chiederci quale (e perché e dove e quando) sia (o sia stata) una classificazione plausibile. Se lo è chiesto Michel Foucault, in chiave di epistemologia archeologica, nell’imponente saggio Le parole e le cose; ci ha giocato, ma molto seriamente, Georges Perec nell’agile Pensare/classificare.

multiverso

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