CAOS

Vittima della propria disattenzione, l’uomo dimentica quanto la sua presenza sia importante nei percorsi di soggettivazione della donna. Si tratta di qualcosa di più serio di un semplice tratto caratteriale o di una predisposizione di genere, una simile ritrosia cela una sorta di tabù del contatto. […] Si tratta di un bisogno difensivo che insorge già nell’infanzia con l’orrore conseguente alla scoperta del sesso femminile, ma che può dispiegarsi in età adulta in forme che vanno dal distacco affettivo fino all’esercizio della violenza.

È una vicinanza a tratti difficile, problematica, quella che l’uomo avverte. La donna lo divide, lo distoglie da sé, dai suoi riferimenti di genere, sembra in sostanza essere lì per sottrargli qualcosa. E non ha nemmeno da proporgli nulla di alternativo, un rimedio, un integratore, il conforto di un’altra divisa alternativa a quella fallica. C’è poi da dire che la forma di singolarità che egli intravede nella posizione femminile ben poco ha a che fare con l’individualismo a cui lui istintivamente si vota e che gli riesce di coltivare anche nella dimensione del gruppo. E a proposito di gruppo, non esiste forse un luogo comune, piuttosto diffuso, che indica nella donna la causa prima della fine delle amicizie e alleanze che reggevano un insieme maschile? Come se il femminile rappresentasse lo scossone che guasta l’ordine delle cose, l’incarnazione, freudianamente, dell’al di là del Principio di piacere.

Certo, ci si può, anzi ci si deve ridere sopra, è la commedia dei sessi, come diceva Lacan. Senza considerare, poi, che evidentemente la donna è non solo danno, ma anche dono, è quella curiosa invenzione, successiva alla creazione dell’uomo, foriera di inestimabili risorse. Tuttavia, in un’epoca come la nostra, che è l’epoca del riconoscimento dei diritti, dove l’idea della parità per certi versi accorcia, sul piano identitario, le distanze tra i sessi, l’orrore del contatto tende a farsi più feroce, si mostra con una frequenza preoccupante assumendo forme di inaudita violenza, dalla vessazione domestica all’aggressione fisica del partner femminile. […]

L’imperdonabile umanità dell’altro

Le anomalie dell’amore, il gradiente di imprevedibilità che ogni autentica relazione umana porta in dote, fanno a pugni con un attaccamento che non arriva invece ad ammettere l’autonomia, la condizione di separatezza dell’altro da sé. Da questo punto di vista, cosa dovremmo riconoscere, nell’uomo incline alla violenza nei confronti delle donne, se non, innanzitutto, l’incapacità del bambino di un tempo di accordare alla prima figura femminile incontrata, la madre, il diritto, la libertà, la pienezza della sua dimensione umana?

L’esplosione di aggressività del maschio è in questi casi la risposta al senso di disperazione che fa seguito alla rivelazione della qualità umana dell’altro, la libertà da un lato, la condizione di mancanza dall’altro. La sua umanità rappresenta quindi un trauma inelaborabile, così che, come a suo tempo il bambino nei confronti dell’imago materna, anche l’adulto si sente inconsciamente tradito dall’affiorare nella partner di un desiderio e di un godimento indipendenti o non necessariamente condizionati dai propri.

Esiste qualcosa di primitivo, di naturale, nelle relazioni in cui vige la ‘regola’ della violenza. È come se ci trovassimo in un tempo antecedente al contratto sociale, all’avvento della Parola, di quel patto che rappresenta, tra le altre cose, anche la salvaguardia del dialogo tra i sessi, il fatto che possano, sappiano, vogliano parlarsi e non cessino di farlo. È chiaro che tutto ciò – l’idea di alleanza, di reciproco sostegno, di negoziazione delle relazioni – rema in direzione contraria al delirio di onnipotenza, propria o dell’altro, cui, bisogna dire, nessuno inconsciamente sfugge. Il bisogno stesso di vedere confermato il dominio sulla propria partner – poter disporre di lei, farla vivere in un clima di terrore – va letto, prima ancora che un’affermazione del proprio potere, come la rivincita rancorosa di chi non può tollerare la caduta dell’onnipotenza dell’altro, di chi non arriva a perdonare l’altro per la sua umanità. In altre parole, assistiamo a un transfert di onnipotenza che porta il soggetto ad assumere in sé l’autorità che un tempo attribuiva alla madre, senza della quale si sente perduto. La ricerca di garanzie e il bisogno di trovare fuori di sé una forma di onnipotenza che tuteli il soggetto dall’assunzione della propria mancanza non risparmiano nemmeno la figura paterna. In questo caso, non c’è che da rispolverare il fantasma del Padre mitico, la legge del quale è tutt’uno col suo godimento (cfr. S. Freud, Totem e tabù, in Opere, vol. VII, Boringhieri, Torino 1977), per constatare come nell’identificazione con questa figura animalesca aleggi la rivalsa maschile sulla donna: esisterebbe dunque un godimento alternativo e più potente di quello femminile che aveva a suo tempo, al tempo della rivelazione della castrazione materna, gettato il soggetto nello sgomento. È in nome di questo godimento fuori legge che l’uomo può pensare di ripristinare tra le mura domestiche un ordine mitico dove la protervia maschile mette a tacere i diritti, l’idea di parità, lo stesso impianto democratico dei legami. (Vale però la pena di sottolineare come, diversamente dal godimento mitico vagheggiato dall’uomo, quello femminile non è fuori legge né alternativo ad essa; e come la legge contempli e si nutra dell’eccezione).

Anche in questo caso l’invidia gioca la sua parte. Ricordiamoci, infatti, che solo rivedendo radicalmente la sua impostazione di base l’uomo potrebbe accedere a una forma di singolarità così radicale com’è quella femminile. Non gli è difficile percepire che, nonostante l’appartenenza all’insieme fallico gli garantisca un destino sufficientemente sicuro sul piano identitario, allo stesso tempo questa inscrizione in un universale lo distanzia da sé, cosa che si riflette, come si sa, nella scarsa intimità che manifesta col suo corpo. Ora, se non trova modo di pacificarsi con la realtà dei fatti o di accedere lui stesso a una posizione femminile (riconoscendo l’esistenza, anche in sé, di una forma di singolarità che non chiede di essere certificata, che passa per il non-tutto, non tutto fallico), allora andrà a punire nella donna quel coraggio e quella determinazione che a lui invece mancano.

È evidente che l’uomo continua a fraintendere, a non capire. Legge la libertà dell’altro, della propria partner, coi propri parametri, coi propri paraocchi, sarebbe più opportuno dire. Non riesce infatti a scorgervi che il retaggio di un’oscura, arcaica volontà di potenza del femminile (ovviamente una caratteristica attribuita a suo tempo alla madre). Laddove, come sappiamo, ciò che gioca la sua parte è, al contrario, la condizione di mancanza e di eccezione della posizione della donna. La cosa interessante, per quanto concerne l’idea inconscia che un uomo può più in generale farsi della donna, è che, se mettiamo insieme il fantasma della potenza materna con le conseguenze che ha avuto invece su di lui la scoperta del sesso femminile, otteniamo allora l’immagine di un essere caratterizzato da una paradossale ibridazione di totalità e mancanza. Nasce probabilmente da qui una fantasia inconscia tipicamente maschile quale quella della cosiddetta vagina dentata, come se la stolidità di fondo della mentalità dell’uomo fosse incapace di accettare, se non in chiave orrorifica, una forma di differenza non riparabile in termini immaginari.

Riassumendo, l’odio per le donne, che è espressione della paura provata nei loro confronti, scaturisce dall’inconfessabile consapevolezza dell’invidia che non si può non provare per chi sa cavarsela meglio di noi con la vita. In un certo qual modo, un uomo, per arrivare a punire la sua partner, non avrebbe bisogno di sospettare che lei lo tradisca con qualcun altro, perché lei, effettivamente, se la intende con la vita.

* Queste pagine sono tratte dal volume La costola perduta. Le risorse del femminile e la costruzione dell’umano, Vita e Pensiero, Milano 2017, pp. 123-124 e 134-136 (per gentile concessione).

multiverso

15