CAOS
Pasolini e il caos
di Angela Felice
Il 6 agosto 1968 Pasolini iniziò la collaborazione al settimanale «Tempo», all’epoca diretto da Nicola Cattedra. La testata era allora un diffuso periodico di massa, privo di un preciso orientamento politico-ideologico – oggi diremmo generalista –, e tuttavia disponibile ad affidare uno spazio fisso, contrattualmente definito, a uno scrittore-intellettuale come Pasolini, dichiaratamente marxista e di fama scandalosa, salvo giustificarne la ‘firma’ con la continuità della linea editoriale dell’apertura ad autori prestigiosi. Nel passato, infatti, di quella redazione avevano fatto parte, tra gli altri, Massimo Bontempelli, Salvatore Quasimodo e Curzio Malaparte, ai cui nomi quell’irregolare opinion maker fu accostato con disinvoltura nel lancio della nuova rubrica.
Per Pasolini si trattò indubbiamente di una scelta provocatoria, contraddittoria e a suo modo travagliata. Lui stesso, nell’intervento iniziale, si premurò di motivarla come azione di cinismo tattico abile a sfruttare dall’interno un organo borghese d’informazione, che a sua volta,
e altrettanto cinicamente, si assicurava e usava un ‘nome’ autoriale e un ‘personaggio’ di peso per scopi di stretto mercato.
Era in campo, insomma, un reciproco gioco concordato tra le parti, per fini diversi nell’uso di uno stesso mezzo. Fini che Pasolini, sempre nel suo primo articolo, riportò alla necessità del recupero dell’impegno civile, ora in lotta aperta contro il «male» rappresentato dalla borghesia, ormai pervasiva nel Paese come sistema unico di Potere, condizione psicologica più che sociale, vera e propria «malattia». E con tutta evidenza quella necessità era presentata così impellente e perentoria da spingere l’autore ad abbandonare la propensione ‘buddhista’ al distacco dalle cose, a optare per un’energica presa di posizione polemica anche in questioni di «lotta spicciola» ma con il sottinteso di una lotta più grande, ad assecondare – scrisse – il suo «conformismo comunista», per quanto ora «ambiguo, composito, enigmatico».
In realtà, rispetto al passato prossimo di Pasolini, si trattava di uno strappo e di una svolta, specie nei confronti del movimento operaio organizzato e del PCI in particolare. Non va dimenticato che non molto tempo prima, tra il 4 giugno 1960 e il 30 settembre 1965, egli aveva collaborato a «Vie Nuove», organo ufficiale del partito, tenendo con la rubrica Dialoghi una costante interlocuzione con i militanti comunisti della base, soprattutto giovani, e scegliendo di incarnare la figura pedagogica dell’intellettuale ‘organico’, nella cornice ideologica dell’egemonia gramsciana. Quel ruolo si era via via incrinato e appannato e la rubrica, che tra l’altro venne anche interrotta tra il 1962 e il 1964, si chiuse nel 1965 con reciproca freddezza tra il partito e Pasolini, scrittore in crisi che non caso, dopo la raccolta Poesia in forma di rosa del 1964, si era autoinibito nel silenzio letterario e aveva dirottato i suoi interessi espressivi nell’impegno cinematografico o nella saggistica di ambito prevalentemente linguistico.
E ancora, quanto a insofferenza, non va dimenticato il clamore sollevato nel 1968 dai «brutti versi» della poesia Il PCI ai giovani!!: una «poesia-bomba», si scrisse nel calore del momento, scaturita di getto davanti agli scontri di Valle Giulia del 1 marzo, programmata per l’uscita sul numero di marzo-giugno di «Nuovi Argomenti» e invece proditoriamente anticipata a brani, e sotto l’impertinente titolo Vi odio, cari studenti, su «L’Espresso» del 16 giugno. Le roventi polemiche che ne seguirono contribuirono non poco all’impopolarità del Pasolini ideologo, che non solo fu fatto oggetto di feroci attacchi da parte del Movimento della contestazione giovanile, ma venne anche stigmatizzato con sprezzante acrimonia da gran parte della società ufficiale intellettuale e politica, per lo più orientata a bollarlo come compagno di strada deviato, decadente e inaffidabile. E anzi da allora, e in parte tuttora nella vulgata giornalistica più corriva o più strumentale, egli restò inchiodato al ruolo di chi odia gli studenti e solidarizza con i poliziotti e le forze dell’ordine.
Non pare pertanto azzardato collocare nel quadro del tumulto sessantottesco le ragioni profonde e decisive che spinsero Pasolini a riaggiornare il suo animo battagliero sulle colonne del «Tempo », anche nella presunzione che un organo borghese di stampa, non vincolante per la stretta osservanza dell’ortodossia marxista, potesse garantire spazi più liberi di manovra e l’espressione spregiudicata di una «qualche forma di verità», se non più della verità in sé. Pasolini, del resto, non faceva che continuare così un programma di scrittura eterodossa e irregolare, in presa diretta sui fatti, che lui stesso aveva in parte anticipato su «Vie Nuove», quando in un intervento del 22 novembre 1962 si era dichiarato intenzionato non più a «insegnare» ma appunto a «discutere». A fare da detonatore fu dunque lo scossone del ’68, anno di lotta studentesca che poi fu detto mirabilis o horribilis a seconda di divergenti punti di vista e di giudizio storico, ma che certo, nel calor bianco del momento, portò traumaticamente a galla i nodi irrisolti e le contraddizioni dell’Italia del boom, segnando nel profondo anche la coscienza dei contemporanei adulti. Lo stesso Pasolini smorzò e in parte rettificò la sua iniziale perplessità verso il Movimento e per esempio, in un articolo quasi consuntivo del 18 ottobre 1969, ammise (auto)criticamente che la novità portata dagli studenti contestatori, ossia «i nuovi aspetti del potere e la sostanziale e drammatica attualità della lotta di classe», continuava a operare dentro di lui e la sua generazione di «uomini maturi» e anzi avrebbe continuato a farlo «per tutto il resto della [loro] vita». Il ’68 fu l’anno del caos per l’Italia, lacerata tra le spinte antiautoritarie dei giovani in piazza, l’ostilità sbigottita o censoria dei padri, le istanze repressive delle istituzioni e l’attendismo ambiguo dei partiti di sinistra, spiazzati dalla mobilitazione spontanea e dal basso di una inedita generazione disobbediente, rivoltosa e non più disposta a farsi dettare la linea di condotta dalla prassi del partito, ancorché leninista a parole.
E Il Caos fu appunto il titolo che Pasolini scelse a sigla della sua rubrica sul «Tempo», adottando una parola-mantra (con i suoi vari sinonimi di «confusione», «disordine» o «magma») capace di fissare e sintetizzare lo stato di emergenza e i punti di crisi mobilitati dalla sovversione giovanile in lotta contro il Potere o anche, sul piano internazionale, contro la ‘tigre di carta’ dell’imperialismo, sulla scorta di nuovi miti estranei al marxismo ortodosso, cioè maoisti, guevaristi o terzomondisti.
‘Caos’, in Pasolini, appare lemma bifronte e infatti mise in campo un doppio ordine di significati a contrasto. Da un lato, fu spia lessicale in negativo della distopia endemica del Bel Paese moderno, un’Italia che, guardata il 25 gennaio 1969 da fuori, in quel caso dalla specola dell’Africa, assumeva per Pasolini le fattezze dantesche di una «briga infernale moltiplicata per milioni di volte». Nell’ultimo articolo della rubrica, il 24 gennaio 1970, egli anzi rincarò la dose e bloccò il Paese allo stato metastorico e quasi ontologico di un «permanente disordine». Da un altro lato, però, la parola ‘caos’ si apriva anche alla semantica della positività. Rinviava cioè all’opportunità di approfittare dello stato di crisi del Paese allo sbando per un’azione, teorica, culturale e pragmatica, tesa al rovesciamento rivoluzionario delle storture o quanto meno, come programma minimo, all’individuazione di vie alternative, di spiragli praticabili di correzione. In questo ambito andava collocato anche il nuovo impegno dell’intellettuale, prospettato da Pasolini, non senza il coraggioso ripensamento personale, non più come maestro-guida secondo la versione tradizionale dell’autonomia separata o secondo quella marxista dell’organicità a una linea ortodossa, ma come il libero battitore della provocazione scandalosa. Egli pareva dunque sfidato a riposizionarsi rispetto a una situazione sociale, inedita e ora esplosiva, che metteva in crisi e delegittimava anche la sua funzione, ne smascherava il privilegio di casta, la subordinava, o perfino tendeva a eliminarla, sull’altare della superiore istanza del pragmatismo rivoluzionario e ideologico. Nella versione pasoliniana, l’intellettuale era così chiamato a rilanciare il proprio ruolo ed era interpellato dal nuovo contesto a seminare lui pure il caos, se era vero, incalzò l’autore a più riprese, che «dall’ordine non nasce l’ordine» di una reale democrazia. Egli pareva dunque investito del compito di forzare ed esasperare le frizioni problematiche della società in crisi, e di proporre analisi, diagnosi e controproposte, con piena libertà di opinione e gettando il proprio «corpo nella lotta» con le armi verbali della requisitoria, come scrisse il 20 dicembre 1969 con slogan mutuato già nel 1966 dalla protesta nera delle Black Panthers statunitensi. L’affondo nel caos italiano, innescato dal ’68, e l’aggiornamento del compito dello scrittore sono dunque i due filoni portanti, necessariamente a specchio e incrocio reciproci, in cui Pasolini incanalò sul «Tempo» i suoi interventi, con una coerenza tematica che supera l’impressione della loro apparenza rapsodica, dispersa su fatti contingenti, anche di cronaca personale, o della scarsa linearità di una riflessione d’autore spregiudicata, spesso sentimentale e non esente da contraddizioni interne. In prima istanza, dunque, nel mirino fu la società italiana moderna, ora interpretata e rigettata con furiosa animosità polemica alla luce del trionfante neocapitalismo borghese, che anche per Pasolini, influenzato da Herbert Marcuse, stava completando l’operazione di ridurre il mondo a una sola dimensione. Di quel pericolo egli aveva già presagito l’allarmante avvisaglia nei primi anni ’60, ma ora ne constatava e pativa la ramificazione e l’insediamento, come per un sistema ormai inattaccabile di dominio economico-sociale capace di inglobare ogni dissidenza o perfino di generarla da sé per meglio integrarla e divorarla. Al servizio di questo nuovo «universo orrendo» del capitale e del potere totalitari agivano strumenti di micidiale potenza persuasiva di massa, quali l’odiata televisione o i formidabili dispositivi di una tecnologia sempre più raffinata, al punto da riuscire a far camminare l’uomo sulla Luna. Ad essi pareva a Pasolini che fosse delegato il compito di inoculare la nuova religione del Benessere, di cancellare per sempre le realtà, le geografie e le tradizioni particolari di un mondo popolare perduto e di mettere definitivamente al bando anche l’umanità, asservita a un destino di meccanizzazione reificante e di predominio della macchina sulla vita.
A fronte di questa apocalisse, per Pasolini ben poco incisive potevano configurarsi le alternative politiche fornite dal passato e dal presente. Era tramontato il modello sociale sovietico, di cui sul «Tempo» egli non esitò a conclamare a più riprese il «fallimento», comprovato dallo stravolgimento di un’esperienza storica, inizialmente di emancipazione, in sclerosi di Stato burocratico, gerarchico e repressivo. Era equivoco anche il ruolo del PCI con il suo doppiogiochismo, scisso e paralizzato tra revisionismo della dottrina, compromissioni tattiche con il potere e velleitario ammiccamento alla rivoluzione dell’avvenire. Non da meno, pur nella dichiarata simpatia umana per Pietro Nenni, risultavano spuntate le soluzioni riformiste e socialdemocratiche, perché limitate a interventi di vernice e non strutturali nei confronti di un mondo ormai avviato all’irrealtà e all’omologazione. La stessa Chiesa, tradizionale instrumentum regni di cui secondo Pasolini il nuovo Potere poteva bellamente fare a meno, esitava sulla via dello «scisma», caldeggiata per il recupero del sovversivo scandalo del Vangelo e la conversione in reale «assemblea».
Restava il Movimento degli studenti che, in un brano della lettera aperta a Giovanni Leone del 21 settembre 1968, parve configurarsi come occasione concreta di volontà democratica dal basso, degna di essere equiparata alla Resistenza, alle cui speranze Pasolini non smise mai di far risalire tanto il suo imprinting decisivo, quanto ora, alla luce dei valori traditi, il suo disorientamento di «comunista dissidente e solo, e spesso in pessima compagnia». Eppure, anche sul fronte battagliero della protesta giovanile, egli non lesinò le prese di distanza e i distinguo. Nelle sue frange estreme e operaiste, il Movimento gli parve optare per l’idolatria guevarista del fideismo pragmatico e organizzativo, sprezzante verso il necessario momento della elaborazione teorica, intellettuale e culturale. Era annidato lì il cuore del principale capo di imputazione rivolto alla contestazione, ancora più rilevante dell’accusa del suo essere non una rivoluzione ma un ribellismo antiborghese interno al sistema borghese, ossia una «lotta del figlio contro il figlio» in cui, per il Pasolini del Caos, si poteva incasellare la sostanza di «ogni lotta per il potere». Soprattutto colpevoli, invece, erano i giovani contestatori quando, in nome di un settario radicalismo da «fascismo di sinistra», rinnegavano con sacrilegio o non sentivano per ignoranza il valore ‘politico’ della tradizione culturale e umanistica, o della cultura del libro tout court, e così finivano per non assumere politicamente nemmeno «il problema del passato». Posizione, quest’ultima, che, a contraggenio di molti articoli impregnati di struggimento nostalgico per i mondi perduti dell’umanità, fu lo stesso Pasolini a rilanciare, nell’impellenza dell’invasione disordinata della bruttezza moderna dentro le armoniose forme urbane del passato, come ad Arezzo e a Cesarea in Cappadocia. «Voglio […] impormi – sottolineò il 22 marzo 1969 – di non avere più questo sentimento di sacrilegio, che implica nostalgie ormai disperate, impotenti e quindi aride». La «luce» parve insomma brillare «solo nella cultura», il cui senso ultimo significava la «razionale rinunzia a tutte le false consolazioni». In questi termini Pasolini rispose il 31 maggio 1969 a un «ragazzo del popolo» ed evidentemente in quel binario egli collocava la funzione del moderno intellettuale-scrittore in crisi e nel caos di sé, di cui nel contempo egli sentiva di incarnare ed esemplificare il paradigma sulle pagine del «Tempo». Era il secondo fronte della riflessione dell’autore che, in chiave critica e impietosamente anche autocritica, si chiamava in causa e si sforzava di indagare la condizione concreta dell’artista-intellettuale, e particolarmente del letterato e del poeta, inserito nella Dopostoria del capitale, e diviso tra la rinuncia, il disincanto o il volontarismo pragmatico. Tassello per tassello, a più riprese e con evidente insistenza, Pasolini finì così per costruire e proporre una sorta di modello possibile, puntellato dalla dinamica verifica sul campo di ciò che l’intellettuale non poteva o non voleva essere più e di ciò che invece sarebbe dovuto essere. Non più obsoleto pedagogo-legislatore per la guida delle coscienze e tanto meno «buffone» al servizio evasivo e consolatorio della borghesia e del moderno ingranaggio produttivo che anche Pasolini, con linguaggio francofortese, chiamava «industria culturale», l’intellettuale era invece prospettato nella sostanza come sentinella della coscienza critica per un indefinito uditorio di massa. Un’azione, la sua, di tensione contestativa nei confronti dell’irrealtà neocapitalistica, che poi Pasolini si premurava di tenere nettamente distinta dalle sperimentazioni linguistiche e neoavanguardistiche del ‘nemico’ Gruppo 63, con cui egli era ai ferri corti da tempo e che, per lui, si era risolto in accademismo astratto, velleitario e puramente letterario. Tenuto lontano anche dalla tentazione, allora di moda sessantottesca, della rinuncia al proprio specifico, magari sacrificato a favore dell’azione politico-proletaria diretta e in risposta all’appello marcusiano al Gran Rifiuto o allo slogan rilanciato da Sartre del ‘suicidio’ dell’intellettuale, lo scrittore per Pasolini doveva semmai affidarsi alla separatezza del proprio ruolo e sguardo, la cui libertà e purezza critica fossero convalidate proprio dall’inappartenenza a ogni dogma: «senza patti con nessuno», scrisse ancora nel programmatico articolo di apertura della collaborazione al settimanale. Era una soluzione evidentemente impervia, faticosa, anche pagata nel rovello personale della coscienza, se questa rivendicata autonomia del ruolo intellettuale implicava anche un’«estraneità» da vivere «come tradimento» o, secondo l’usato sfoggio pasoliniano del contrasto ossimorico, la «debolezza» dell’apparente «forza» della «solitudine». Datato per i suoi coetanei, superato e anacronistico per i giovani, anche assillato dalla sindrome, talora esibita con compiacimento, della vittima linciata e perseguitata, nonché incupito dai segnali della vecchiaia anagrafica, Pasolini non esitava tuttavia a riabilitare il ruolo tradizionale dello scrittore ai bordi della strada.
Rispetto al prodotto filmico implicato a priori con l’industria per la sua confezione, rilanciava anzi e distingueva l’artigianato solitario e autosufficiente della scrittura letteraria impegnata nel corpo a corpo con la realtà: una scrittura partorita per necessità autoriale e con indifferenza alla committenza, al potenziale destinatario e all’‘uso’ di mercato, e che solo poi, nel momento successivo della fruizione, avrebbe potuto mettere radici e dare frutti, si trattasse pure – scrisse – per un solo lettore. Questa costellazione di tasselli definitori si assestava e trovava la sua sintesi intorno al leitmotiv della ‘diversità’, parola-chiave decisiva e più volte richiamata per indicare che la conclamata separatezza dello scrittore era da intendersi libera dal sospetto possibile dell’arroganza e del privilegio d’autore. Ne segnalava anzi il depotenziamento d’autorità, equiparando la figura dell’intellettuale a quelle marginali di negri, ebrei, reietti e dannati della terra, in ciò rielaborando un parallelo tra ‘diversi’ già praticato da Marcel Proust. Per un’argomentazione di questo tenore, poteva certo agire in Pasolini la consolidata intrusione del vittimismo narcisistico della «bestia braccata», ma è un fatto che in questo orizzonte di considerazioni si collocava anche uno dei riflessi più vistosi del vento antiautoritario del ’68.
E infatti, nelle varie intermittenze della riflessione proposta nella sua rubrica, egli non cessò dal rimarcare la refrattarietà ad ogni discorso di «autorità paterna» e di potere, e l’impegno ad autocensurare l’invadenza del proprio io d’autore, dichiarandone spesso l’impotenza, la parzialità, la marginalità. Di fatto, il parametro della ‘diversità’ si elevava in Pasolini a bisturi fertile e a strumento produttivo del giudizio. Da un lato garantiva lo sguardo di una non consumata alterità abile a osservare e perforare il caos del suo tempo e a gettarvi i semi critici del perturbamento; dall’altro, si traduceva anche in argomento per dichiarazioni di poetica personale e per l’analisi e l’interpretazione penetrante delle opere culturali. È infatti dalla specola di una inappartenenza ‘altra’ che Pasolini giunse a motivare e decretare la fine del ‘romanzesco’, destinato fatalmente a estinguersi in un mondo che aveva cancellato l’«altrove», anche il viaggio verso l’«altrove» e perciò la narrazione che dalle origini del ‘genere’ aveva tratto da quel motivo le sue ragioni e i suoi temi.
E ancora è dall’ottica di una ‘diversità’ irriducibile che Pasolini poteva esaltare la funzione contestativa della poesia, che per lui persisteva a rimanere esperienza mai «in serie», non consumabile e non mercificabile, e che perciò, per la carica di ambiguità e di disagio che ne aveva da sempre connotato lo statuto e il valore linguistico, poteva aprire brecce significative nelle certezze tecnocratiche del neocapitalismo. Del resto, in tema di resistenza ‘diversa’ al sistema di un mercato che tutto fagocita, Pasolini sciolse a più riprese elogi aideologici all’inconsumabilità dell’irrazionale, insondabile sfera ritenuta superiore anche rispetto al potere demistificante della ragione, che nella sostanza – scrisse l’11 gennaio 1969 – «serve solo a criticare e a mettere in dubbio se stessa», senza ulteriori destabilizzazioni. Anche di questi compiti perturbanti Pasolini investì l’intellettuale moderno: un cultore di irrazionalità non addomesticabili, in grado di ascoltare e portare alla luce, per esempio, quei residui di «sopravvivenze» di un ‘altro’ (nel tempo, nello spazio, nel cuore di tenebra individuale) che, scrisse con riferimento all’ordinata Torino della Fiat, potessero «riportare alla confusione e all’incertezza» e smantellare la presunta perfezione della civiltà tecnocratica e industriale. All’irrazionale lo stesso Pasolini finì per dare sempre maggiore spazio nel proseguimento della sua rubrica, e in particolare nel corso del 1969, che tra l’altro, per il cinema, lo vide coinvolto nella fascinazione per la materia magica di Medea. Ma soprattutto lievitavano in lui altri umori paralleli, inclini al pessimismo: un crescente senso di impotenza nei confronti del «fatale male italiano», evidentemente immedicabile, e l’amara constatazione dell’esaurirsi dello stesso Movimento studentesco, che in questo senso non aveva fatto eccezione al destino, scrisse il 19 luglio 1969, di tutte le «guerre di liberazione finite in delusione e restaurazione». La pagina ‘giornalistica’ di Pasolini, avallata fin dalle dichiarazioni preliminari dalla sola garanzia di veridicità di un osservatore ‘privato’ e adogmatico, conobbe così nel 1969 una forte torsione personalizzata e si aprì a ricorrenti espressioni di temi sentimentali, esistenziali e arazionali: racconti di sogni e, talora, di incubi; dichiarazioni d’amore per il gruppetto di pochi affetti privati (la madre, gli amici, i ragazzi delle borgate) a cui a conti fatti, per questo Pasolini ripiegato su di sé, si restringe l’intera società; squarci visionari di paesaggio trasognato, in elzeviri splendidi come prose d’arte; elogi dei «diritti» al puro esistere vitale, con i suoi «atti graziosi» e disinteressati, come quello di mangiare insieme all’amico Ninetto delle «mele meravigliose» in un frutteto abbandonato e di trovarsi immerso nell’epifania della gioia perfetta. Pasolini, ormai sulla via del congedo dall’impegno per Il Caos, alzò un’ultima volta il tiro aggressivo della contesa militante, scrivendo nel gennaio 1970 una polemica lettera aperta al presidente Giuseppe Saragat e accusandolo di equivoca ambiguità per aver messo sullo stesso piano, dopo la strage di piazza Fontana, l’estremismo fascista e l’estremismo marxista. L’articolo non fu pubblicato e segnò anche la fine della rubrica, mentre intanto Pasolini, all’interno di un articolo rimasto anch’esso nel cassetto, continuava a scrivere che «parte dell’Italia» gli pareva «caduta nel caos più completo». Del resto da tempo egli lanciava ormai la sua requisitoria al futuro, più che a un presente non più scalfibile, incanalando la disillusione nella prospettiva dell’utopia: una conquista della vecchiaia, scrisse il 9 agosto 1969, al pari dell’umorismo e, come quello, segnata dal distacco ascetico dalle «operazioni umane». E concludeva: «o essere utopisti o sparire». Il 22 febbraio 1969, impegnato a delineare il senso del suo lavoro per la carta stampata di «Tempo», l’aveva rintracciato nell’azione di colui che affida «un messaggio nella bottiglia». Un messaggio, dunque, destinato a viaggiare a casaccio nel mare del caos e ad essere raccolto in un imprevedibile e imperscrutabile avvenire. Forse allora la lotta avrebbe conosciuto la vittoria. Ma, «quando saremo vittoriosi, non lo sapremo» (7 dicembre 1968).