CAOS

A guardar meglio

Sia chiaro, chi scrive è il più classico dei calzolai che va in giro con le scarpe rotte; costretto per mestiere, e non per vocazione, a mettere ordine nelle altrui faccende, come forma di reazione continuo a riservare a me stesso una buona dose di disordine personale. In altre parole non sono un fanatico dell’ordine; ma nemmeno del caos, ci mancherebbe. Comunque, «in balia della memoria e delle sue oscillazioni», per dirla alla Borges, ecco tre questioni tra loro in qualche modo affini.

1.

Prendetevi il tempo di guardare bene un quadro di Jackson Pollock. Inizialmente il suo dripping vi sembrerà aver generato una ‘perfetta rappresentazione del caos’: un ossimoro? Forse sì, forse no. Infatti, dopo un po’ che lo si guarda, si inizia sorprendentemente a capire che quel caos ha qualcosa di bello, di armonico, di equilibrato. Se non l’avete ancora fatto, vedrete, comincerà a incuriosirvi, poi a piacervi. Proseguendo l’osservazione, magari allentando il flusso dei pensieri associativi, sarà anche possibile quasi ‘entrarci dentro’. E forse, tempo dopo, lontani dal museo o da qualsiasi luogo in cui abbiate incontrato uno di quei dipinti, tranquillamente seduti a casa, in un caffè o in treno, leggerete un bell’articolo (su un’attendibilissima rivista scientifica) e scoprirete che in alcune zone di quelle confuse ‘macchie di colore’ infinitamente sovrapposte, in stato di abbandono rispetto alla volontà cosciente del loro autore, vi sono state registrate, con sofisticati sistemi di analisi, forme di perfetti frattali. È a quel punto che le cose diventano interessanti. E questo potrebbe essere già il primo di una serie infiniti indizi che possono condurre a pensare con semplicità, ma seriamente, che è proprio vero quello che si sente dire in giro: «Il caos è solo ordine non ancora decifrato».

2.

Chi, come me, di mestiere dice di fare il grafico, tende a visualizzare subito l’architettura delle lettere che rappresentano il suono di una parola. E qui è impossibile resistere a compiere la piccola inversione di due lettere che ci porta da ‘caos’ a ‘caso’. Associazione, lo ammetto, di natura meccanica e di poco valore, ma così possiamo passare velocemente a Voltaire, di cui riportiamo queste sue preziose e pertinenti parole: «Ciò che chiamiamo caso non è, e non può essere altro, che la causa ignota di un effetto noto». Lo avrete già notato, questa affermazione ha molte similitudini con quella che riguarda il caos nel paragrafo precedente. Certo, due soli indizi non fanno una prova. A ognuno, allora, l’onere di proseguire nella ricerca.

3.

Da un punto di vista più poetico, invece, vi propongo di sintonizzarvi su Pasolini, che nel testo della sua poesia Al principe ci fa trovare queste sorprendenti parole: «Per essere poeti bisogna avere molto tempo: ore e ore di solitudine sono il solo modo perché si formi qualcosa, che è forza, abbandono, vizio, libertà, per dare stile al caos». ‘Dare stile al caos’, che bell’idea! Potrebbe andar bene anche per costruirci sopra una vita intera. Infatti la ricerca de Il senso dell’ordine (con immancabile riferimento a Ernst Gombrich) è cosa che va considerata come percorso naturale; intraprenderlo è la migliore cosa che ci possa capitare. Così come si può cercare un po’ di silenzio nel rumore o, come dice la canzone, «l’alba dentro l’imbrunire», ci si può impegnare a cercare l’ordine nel caos. Vaste programme, ma intrigante.
Dimenticavo, un’altra parola molto importante, presente in quel verso della poesia di Pier Paolo Pasolini, è abbandono. Mi chiedo se non sia la stessa cosa alla quale si dedica Pollock mentre ‘sgocciola’. Sì, credo si possa persino giungere a una sorta di ‘disciplina dell’abbandono’. Rigorosa, necessaria. E questo è un altro, solo apparente, ossimoro. Interessante strada quella che propone di tenere in equilibrio ‘ragione e abbandono’ (q.b., come nelle ricette). Quest’ultimo, l’abbandono (che qualcuno lo chiama anche ‘contemplazione’) finirà per sorprendervi. Ha ragioni da vendere. Perché quando ci si riesce arriva la sorpresa: il caos svanisce e si intravede un ordine nascosto semplicemente fantastico. E da lì si può pure anche cavar fuori qualcosa da utilizzare in seguito in forma più razionale. I musicisti, su questo, ne sanno molto. Sanno da che razza di groviglio prima o poi escono armonie e melodie limpidissime. Tutto questo per dire che il caos va semplicemente accettato e poi studiato, non rifiutato.

Reduce to the max

Ora, vista la premessa, vi chiederete a pieno diritto che c’entra tutto ciò con le cose che si possono dire o scrivere sulle relazioni del graphic design con la natura e la forma instabili del caos? Molto, moltissimo; perché un grafico che fa bene il suo mestiere accetta, conto terzi, il complicato impegno di mettere in ordine le cose al fine di trovare poi un modo per raccontarle. Come suggerisce John Maeda nella più conclusiva delle Le leggi della semplicità, serve impegnarsi a cercare di «sottrarre l’ovvio e aggiungere il significativo». Cosa che, detta così, sembra persino un po’ sciocchina, ma che poi, in pratica, si rivela ben altro. L’obiettivo dichiarato di questo mestiere resta sempre e comunque proprio questo: ‘dare stile al caos’. Piaccia o no ai colleghi più creativi e agli storici della comunicazione che amano intrecciare complicate liaison con l’arte, ci sono solo due tipi di graphic design – uno che racconta storie, lo fa al fine di attrarre, interessare, persino sedurre, e un altro che invece ha come compito semplicemente quello di informare. Beh, ‘semplicemente’ neanche tanto. Qui serve un esempio convincente. Caso A: se volete comprare un libro o avvicinarvi alla musica di un autore di cui non sapete ancora nulla, molto probabilmente vi rivolgerete inizialmente all’immagine che lo rappresenta (copertina dell’oggetto o altro di simile in versione digitale) aspettandovi un po’ di sollecitazione a una qualche forma di interesse (‘emozione’ per me è una parola grossa che va conservata per ben altro). Questo può arrivare da una descrizione visiva, da un accenno alla storia che contiene o anche soltanto da qualcosa generato dallo stile di riferimento utilizzato.
Nel caso B, invece, poniamo dobbiate andare a trovare un parente appena ricoverato al pronto soccorso e spedito nel reparto di competenza, vorrete solo sapere, e nel modo più veloce possibile, dov’è la stanza 12 al quinto piano del padiglione 8. Di trame, storie e stile in quel momento non vi può interessare di meno. In entrambi i casi, anche se diversissimi tra loro, per poter procedere e combinare qualcosa di buono al grafico serve una strategia progettuale, e questa funziona solo se ci si rende conto che in ogni occasione, a volte di più a volte di meno, serve ‘dipanare la matassa’ e infine, come si diceva, ‘dare stile al caos’. Che ci siano grovigli di informazioni alfanumeriche da riordinare e selezionare oppure sia da produrre o scegliere l’immagine più significativa o impressiva, si tratta pur sempre di selezionare, gerarchizzare, riordinare. Massimo Vignelli nel suo prezioso volumetto The Vignelli Canon, nelle pagine dedicate agli elementi fondamentali della progettazione, quando parla di Prammatica (gli altri due strumenti di progettazione trattati sono Semantica e Sintattica) dichiara senza mezzi termini: «Qualunque cosa si faccia, se poi non è capita è fatica sprecata, per tutti». Come dargli torto. E questo, ampliando un po’ il punto di vista di Vignelli stesso, credo possa valere anche ben oltre i principi del Modernismo che lo hanno ispirato e di quello che ne è la sua recente ‘ripresa’, definita da Steven Heller: «The new simplicity in modern graphic design». Ciò vale quindi per la pagina più rigorosa di Josef Müller-Brockmann e per quella più destrutturata e contemporanea di uno come Stefan Sagmeister, due grafici molto diversi ma, a modo loro, entrambi maestri. Si può usare qualsiasi linguaggio, ma l’informazione deve arrivare, deve essere percepibile, a volte persino in forma nitidissima. È in questo che il design è profondamente diverso dall’arte, nonostante gli infiniti punti di contatto. Il design ha infatti un committente a cui interessa comunicare qualcosa di abbastanza preciso. Certo, seppur rarissimamente, può capitare di fare un bel giro a 360 gradi e di essere chiamati a rappresentare anche il caos stesso (certa musica e qualche scrittore lo amano molto), ma in tal caso le regole non cambierebbero; si tratterebbe comunque di caos ‘da organizzare’. E mettere in ordine, a volte, è più difficile che creare di sana pianta. Dipende da come siamo fatti, da come siamo cresciuti. Di certo chi non è abituato a scrivere lo potrà fare solo con grande difficoltà; ma forse la stessa persona potrebbe riuscire a sintetizzare bene qualcosa di esistente. Prendete ad esempio una biografia. Mica facile accorciarla! Qualcuno ci riesce e qualcuno no. Non conosco una mappa precisa. Accorciare una biografia è una cosa che serve spesso fare. Pensateci bene perché è un po’ come provare a mettere ordine nella vita di una persona che magari non si conosce affatto. Neanche a dirlo, in aggiunta a questo non si è nemmeno mai sicuri che la cosa da comunicare in modo corretto sia inizialmente chiara a chi vi ha chiesto di darvi da fare. Altro vaste programme! Anzi, vastissimo.

From chaos to order and back

Ad ogni modo, come tutte le cose di questo mondo, anche la ricerca dell’evocata chiarezza, pur rientrando appieno nelle regole comprese nel ‘manuale del bravo grafico’, prima o poi finisce per fare i conti con la scomodissima faccenda della ‘ripetizione dei cicli’. Oddio, qui ora ci vorrebbe un filosofo (forse Hume?). Ma procediamo senza, perché è già chiaro che tutte le cose soggette a sviluppo, se non ci si dà da fare seriamente, dopo un po’ ritornano dov’erano partite: in questo caso, al caos. Ed è proprio di questo ‘ultimo giro di giostra’ che volevo parlare, fin dall’inizio. Pare che il caos nella comunicazione visiva – non quello ben organizzato al quale mi riferivo qualche riga fa –, grazie a una compiacente disponibilità da parte di nuovi adepti della dea della confusione, si sia miracolosamente rigenerato fino alla riqualificazione della sua opinabile ‘bellezza’. Aiuto! ormai si ‘sdogana’ qualsiasi cosa.
Non so se questo dipenda soltanto dall’effetto della bulimia di messaggi digitali visivi e sonori che da tempo, in crescente esponenziale aumento, saturano etere, atomi e quant’altro esista attraversandoci flesh and blood. Sospetto, invece, che anche stavolta il popolare ‘Ufficio complicazione cose semplici’ ci abbia messo del suo. Provo a spiegarmi, specialmente per i non addetti ai lavori: ci siamo ormai abituati a una forma di comunicazione visiva che si chiama infodesign, in lingua madre ‘design dell’informazione’. A un certo punto, un distinto e preparato signore di nome Otto Neurath, nella Vienna degli anni ’20, si prese la briga di provare a inventare un linguaggio universale fatto di pittogrammi e segni che, non adoperando lettere o cifre, permetteva di visualizzare dati complessi in modo comprensibile a tutti, senza la limitazione delle lingue. La cosa funzionò, eccome, e di lì a poco il suo metodo di rappresentazione generò uno standard presto adottato ovunque. Tale linguaggio più tardi divenne noto come Isotype (International System of Typographic Picture Education). Per decenni, e qui arrivo finalmente al dunque, con questi principi di trasmissione e chiarificazione delle informazioni (l’obiettivo era soprattutto quello di permettere letture veloci di dati complessi) siamo andati avanti benissimo. Ma dopo un’evoluzione positiva durata parecchio tempo, ora, per mano di inguaribili appassionati della complicazione, siamo riusciti, almeno a me pare, a generarne l’esatto contrario. Forse per la solita storia dei corsi e ricorsi o chissà che, ormai moltissime di quelle tavole ‘chiarificatrici’ sono diventate meno leggibili di qualsiasi altra cosa. Meno comprensibili delle stesse complicatissime informazioni originali che chiedevano di essere chiarite. Ora, a meno che l’obiettivo non sia divenuto proprio quello di generare una nuovissima moderna tipologia di caos, non mi pare che ciò abbia un gran senso. In pratica è successo proprio questo: gradevoli, bellissime e leggibilissime tavole, come nemmeno Herr Neurath si poteva immaginare ai suoi tempi, si sono lentamente trasformate nell’esatto contrario, fino alla illeggibilità più assoluta a favore di una complessa bellezza estetica di cui sinceramente in molti casi si potrebbe anche fare a meno. Ma anche qui ci vogliono una o più prove a carico. Quella che promuove tutto da semplice indizio a prova conclamata è ormai la certa quanto assurda presenza, in tali tavole, di una suppletiva legenda (o qualcosa di ancora più elaborato) che serve a chiarire come decifrare la troppo complessa formula di rappresentazione dei dati utilizzata. Risultato: vere e proprie opere d’arte a valore di leggibilità inferiore allo zero.
From Chaos to Order and Back era l’azzeccato titolo di un drammatico librone fotografico dedicato alla comunicazione, pubblicato qualche anno fa. Gli autori in quel caso stavano dimostrando altro, ma il titolo lo potremmo senz’altro riadottare subito. Anche se, per me, queste indagini sull’umana tendenza a complicare sempre tutto conducono invece a riflessioni sempre meno ingarbugliate. Insomma, comincio a maturare qualche opinione. Forse farei meglio a produrmi da solo una bella tavola di infodesign per provare a chiarirmi definitivamente le idee. Ma, a guardare meglio no, non la farò.

multiverso

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