CAOS

Luigi Gaudino intervista Nadia Urbinati

Questo numero della rivista «Multiverso» è dedicato al tema del 'caos'. Nella percezione generale, quelli che stiamo vivendo appaiono come tempi caotici e molti non nascondono la nostalgia per il passato: «era meglio quando c’era la lira», «era meglio quando c’erano i partiti della prima Repubblica», «era meglio quando c’erano le frontiere»... Sono davvero tempi così caotici – o più caotici di quelli vissuti dalle generazioni precedenti – oppure viene etichettato come ‘caos’ ciò che non si riesce a comprendere per carenza di strumenti adatti a decifrare la verità?

È una domanda molto complessa che esprime un’esigenza reale e un senso di disagio rispetto a quegli strumenti conoscitivi e pratici di cui abbiamo bisogno per agire, per scegliere, per prendere decisioni. Sembra che essi abbiano perso l’efficacia che pensavamo avessero. Da qui nasce un senso di insoddisfazione e di disagio rispetto al funzionamento della democrazia. Quali sono questi strumenti? Sono quelli politici messi in atto nelle democrazie costituzionali – quei processi di decisione che si avvalgono di un’articolata sfera pubblica delle opinioni, di associazioni della società civile e di partiti politici. In sostanza, i nostri bisogni e le nostre critiche vengono filtrati da organismi come i partiti, i giornali, i media, i quali poi dovrebbero rivolgersi o essere convogliati all’interno delle istituzioni, e queste dovrebbero a loro volta tradurre tali necessità in decisioni, che successivamente diventano oggetto di analisi, di critica e così via… Questo processo ininterrotto, questo fiume regolare, è stato concepito in modo da mantenere la distinzione e intanto consentire la collaborazione fra due sfere: le istituzioni e la società civile. Come i due argini di un fiume, esse incanalavano le nostre insoddisfazioni e valutazioni all’interno di un ordine ragionevole e regolato, stabile e senza grandi intoppi. Questo processo sembra non funzionare più e ciò ci rende pessimisti, timorosi e quindi anche facile oggetto di leader o di visioni che ci propongono scorciatoie oppure soluzioni cataclismatiche, radicali.
Partirei quindi da questa crisi, anche se chiamarla così non è molto corretto, perché la democrazia è comunque un perenne processo di soluzione di problemi e, in questo senso, di ‘crisi’. Parliamo di processi che sembrano arrugginiti piuttosto che di crisi; parliamo di attori che da funzionanti si sono fatti disfunzionanti. Ad esempio, i partiti che non sono più rispondenti come dovrebbero; o parliamo dei media, che sono molto diversi da quelli con i quali è nata la nostra democrazia, nel secondo dopoguerra. I giornali, un tempo oggetto di fiducia anche perché animati da professionisti che avevano e rispettavano un codice deontologico, sono sempre più coinvolti in lotte partigiane; hanno smarrito quella patina di imparzialità, di separatezza dalle visioni politiche in competizione e spesso si fanno parte in causa. Inoltre, grazie alla rivoluzione tecnologica, sono nati nuovi media; quelli che usiamo tutti i giorni, come i social media, molto a buon mercato e vicini a noi, che ci danno l’illusione di essere noi i produttori, non solo i fruitori, delle news. Quindi non abbiamo più punti di riferimento neutrali o distinti che ci orientano tra il certo e l’incerto, il vero e il non completamente vero… In questo clima di larga incertezza avvertiamo il senso del caos.

Gli esiti del referendum costituzionale del dicembre 2016 in Italia; le difficoltà emerse in Belgio o in Spagna nella formazione del governo; l’evidenza della disparità di voti a favore della perdente nell’elezione di Donald Trump: sono tutte prove di una generale difficoltà nell’individuare il punto di equilibrio tra rappresentatività e governabilità. Quali sono le soluzioni che la teoria politica ha elaborato per rispondere a questo problema? Ed è possibile immaginare una legge elettorale perfetta, cioè capace di rispettare entrambe le esigenze in maniera definitiva?

Per quanto riguarda la prima parte della domanda, trovo importante sottolineare che le situazioni paradossali degli ultimi tempi sono diversissime tra loro. Brexit e l’elezione di Trump, il referendum in Italia e la difficoltà a formare maggioranze in Spagna, eccetera, sono casi e fenomeni tra loro differenti, che andrebbero analizzati separatamente. Il caso italiano non è come quello americano o spagnolo. Il referendum del 4 dicembre 2016 ha semplicemente detto di no a un tipo di riforma, non necessariamente a una riforma della Costituzione; e ha detto di no perché c’erano degli elementi davvero inquietanti in quella proposta, come la formazione di grosse e forti maggioranze difficili da controllare, con la possibile creazione di esecutivi troppo liberi dai controlli istituzionali. Questo è diverso dal caso di Trump, che ha origine in un Paese dove c’è un sistema istituzionale ed elettorale molto stabile. Gli Stati Uniti non hanno mai cambiato sistema elettorale in duecentocinquant’anni. Il loro sistema istituzionale e politico non ha mai subito dei mutamenti, non è mai stato oggetto di capovolgimenti di regime, non ha mai conosciuto fascismi, né forme diverse da quelle della Repubblica federale, con forti divisioni del potere e un sistema presidenziale che è quasi regale ma circoscritto ad alcuni settori.
La seconda parte della domanda è riferita alla riforma elettorale. A questo proposito è necessario fare una distinzione: ci sono alcuni Paesi che hanno indicato all’interno della Costituzione il tipo di ordine del sistema elettorale, altri che invece non lo hanno fatto. È chiaro che quelli che non lo hanno ‘costituzionalizzato’, come l’Italia, sono più esposti ai suoi mutamenti e quindi alle maggioranze del momento, che desiderano intervenire sul sistema elettorale per rafforzare, ad esempio, il proprio potere, o per calibrare o mutare il tipo di coalizione. Certo è che nelle forme rappresentative i modelli elettorali sono il cardine fondamentale su cui si sostiene il governo, il quale si regge sul consenso popolare espresso mediante il voto per dei candidati, ovvero per un’assemblea che deve poi legiferare. Così da un lato devono essere garantiti il rapporto e il dosaggio fra la rappresentanza delle idee, e quindi dei partiti, dall’altro però deve essere salvaguardata anche la possibilità di formare maggioranze. La tensione è tra questi due principi: da una parte essere rappresentati idealmente nella maniera più rispondente alla realtà attraverso un sistema attento alle diverse voci della società e, dall’altra, il bisogno e la necessità che la maggioranza governi, perché la ‘democrazia’ è il governo della maggioranza.
È questa la sfida di una buona e stabile democrazia, che non sempre viene realizzata.

Il caos sembra riguardare il concetto stesso di democrazia. Nel dibattito caotico dei talk show, ma anche nei giornali e in sedi in cui si dovrebbe volare più alto, sembra che il progresso democratico si esaurisca esclusivamente con l’applicazione del principio di maggioranza. Così − dalla Turchia di Erdogan, alla Russia di Putin, all’America di Trump − si assiste al divorzio tra democrazia e libertà dei diritti civili. Anche in Italia il dibattito sulle scelte di fine vita, sui diritti delle coppie omosessuali, sulle richieste delle minoranze religiose viene frenato, spendendo l’argomento del ‘questo interessa solo una minoranza’. È forse il caso di ripartire dai fondamentali, che hanno fornito nel dopoguerra le basi delle democrazie liberali?

Questa è una domanda molto bella ed è un tema davvero del nostro tempo, che desta tanta preoccupazione. Nei Paesi europei e nell’area di influenza americana occidentale, dal 1945 al 1948 le democrazie hanno accolto il principio dell’emendamento (per scongiurare quello che i totalitarismi avevano generato), ovvero la correzione del sistema maggioritario con meccanismi di controllo e di limitazione del potere al fine di proteggere i diritti individuali e politici.
Le democrazie costituzionali hanno in effetti due sistemi di controllo e di limitazione del potere: uno a priori, che si impegna a non intervenire sui diritti per limitarli; e uno a posteriori, che attribuisce a una corte di giudici il potere di cassare, ossia di cambiare, le decisioni della maggioranza. A questi due meccanismi si devono naturalmente aggiungere i fondamentali diritti individuali di parola, espressione e organizzazione o associazione, che consentono alla società civile di essere ricca, articolata, capace di sviluppare idee.
Tutto questo si chiama democrazia costituzionale: non è fatta di due tronconi, democrazia e liberalismo, ma di un unico organismo. Quello che avviene oggi, purtroppo, è questo fenomeno: scardinare democrazia e liberalismo e tornare alla democrazia pura, ovvero al semplice governo della maggioranza. Governare per vie di voto maggioritario e, quindi, considerare gli stessi diritti come delle prerogative che la maggioranza assegna alla minoranza, è un radicale e pericolosissimo rovesciamento della concezione di democrazia costituzionale; pericolosissimo perché significa che i diritti non vengono accettati prima, ma vengono riconosciuti come graziose sospensioni del potere di interferire che il sovrano democratico concede. Sospensioni che il sovrano può, naturalmente, decidere di cambiare, di togliere, sulle quali può stabilire o meno di intervenire. Questo è un fenomeno gravissimo che ci porta nuovamente lo spettro delle democrazie totali, totalizzanti, e quindi della democrazia non come sistema politico che accetta l’idea del dissenso. In questo caso, invece, il governo è il ‘potere’ della maggioranza e non semplicemente il ‘metodo’ di soluzione del conflitto attraverso decisioni prese a maggioranza. Ci troviamo di fronte a un problema gravissimo: i diritti non sono delle minoranze, sono di tutti, perché chi oggi si identifica con la maggioranza potrebbe da domani cambiare idea o diventare minoranza. Quello che oggi mi può sembrare soltanto il diritto di una piccola parte non è altro che il diritto grazie al quale anche io posso permettermi di cambiare opinione e di essere, domani, quello che oggi ritengo di non potere o di non voler essere. È un’apertura alla possibilità che quindi riguarda non solo una minoranza, ma tutti gli esseri umani.

Cambiando almeno in parte argomento, affrontiamo il tema dell’obiezione di coscienza, di cui si parla molto in questi tempi. Da clausola invocata in situazioni eccezionali da soggetti disposti a pagare un prezzo per difendere determinate convinzioni – il mio riferimento va ovviamente al rifiuto del servizio militare – il diritto all’obiezione di coscienza appare sempre più spesso chiamato in causa da chi, con questo mezzo, si oppone al riconoscimento dei diritti altrui. Non si tratta solo del settore particolarmente delicato dell’interruzione di gravidanza, ma anche del farmacista che pretende di non vendere anticoncezionali, del genitore che si oppone alla vaccinazione dei figli (incurante dei rischi che le malattie trasmissibili rappresentano per l’intera comunità), del sindaco che si rifiuta di celebrare le unioni civili omosessuali. È fondata l’idea che qui sia in gioco, con meccanismo ribaltato, la dialettica tra una maggioranza − che riconosce con la legge un diritto − e una minoranza che, per rivendicare questioni di coscienza, intende impedirne l’operatività?

Come sappiamo, la legge 194 è stata l’esito di un compromesso. In quanto tale, ne mostra la positività e la problematicità. Ovviamente tutte le leggi sono frutto di compromessi, ma quando il compromesso riguarda valori e credenze fondamentali non è mai un compromesso senza contestazioni o che tiene nel tempo; è aperto alle mutazioni di sentimenti, di pareri, di opinioni. Per venire incontro a chi non condivide una legislazione che regola l’interruzione di gravidanza (qui si tratta di interventi pubblici e di sanità pubblica), e quindi per risolvere il problema della coscienza rispetto alla funzione (medica in questo caso), la legge ha consentito l’eccezione. I medici possono – nel caso operino in un ospedale pubblico che può chiedere loro di fare il proprio turno, come gli altri medici, per l’espletamento dell’interruzione di gravidanza – per ragioni di coscienza, cioè per ragioni religiose (questa è la libertà religiosa), non coprire questo servizio. Ora, come ho detto, il compromesso funziona perfettamente fino a quando opera all’interno di una situazione per cui chi obietta è una minoranza. Perché è ovvio che l’obiezione di coscienza è consentita per fare in modo che chi è in minoranza, chi si oppone alla legge, possa usufruire di questa libertà. In questo caso noi ci troviamo di fronte, invece, a una clausola di protezione della minoranza che diventa una strategia per impedire alla legge, passata a maggioranza, di fare il suo corso. Quindi è una minoranza che si organizza in modo tale da boicottare il funzionamento ordinario di quella legge.
Questo è un problema serissimo. Quando ci sono casi di emergenza, ovvero non ci sono medici non obiettori in alcuni ospedali, l’autorità pubblica ha la prerogativa, ha il potere di intervenire e imporre che la funzione dell’interruzione di gravidanza, secondo la legge, sia espletata e garantita. Il compromesso originario non è la soluzione ultima, è una soluzione prudente. Quando ci sono casi di emergenza quel compromesso ovviamente salta, quindi il compromesso tra la legge (maggioranza) e gli obiettori di coscienza per ragioni religiose (minoranza) funziona fino a quando rimane nei rapporti minorante-maggiorante, ovvero quando gli obiettori sono davvero una minoranza. Quando non è più così è chiaro che le ragioni del compromesso decadono e torniamo a far valere il potere dell’amministrazione pubblica, che deve garantire prima di tutto che la legge funzioni, perché quella è la legge dello Stato e deve dunque avere una garanzia di funzionalità. Questa, ripeto, è una situazione precaria e funziona fino a che le parti che fanno vivere il compromesso sono nella medesima relazione in cui erano quando è stata scritta la legge. Oggi mi pare che siamo andati ben oltre. C’è anche un problema serio, a questo punto, perché i medici obiettori dovrebbero poter dimostrare che la loro obiezione è per ragioni religiose. Ma come può lo Stato verificare quanto sincero sia il sentimento religioso di chi pratica l’obiezione? Questa sarebbe un’intrusione fortissima nella libertà individuale, ovvero nella libertà religiosa, e comunque mai davvero possibile.
Il tema dell’obiezione di coscienza è dunque un tema d’emergenza, ma non può essere un principio perché solleverebbe dei problemi ancora più grandi, relativi ai diritti fondamentali. Se quindi è stato operato e scelto quel compromesso, significa che la 194 è nata e si è, con il tempo, stabilizzata come una legge sempre aperta alla contestazione, quindi sempre oggetto di obiezione a quella base fondamentale che era appunto il compromesso fatto. Questo dimostra che noi dovremo sempre dover ribadire e difendere quella legge, che non è mai stata stabilita una volta per tutte, anche se scritta in quel modo tanti anni fa, e che oggi è oggetto di contestazione fortissima.

Spostiamoci un po’ verso le tematiche dell’informazione. Quella che doveva essere la 'democratizzazione' dell’informazione grazie allo sviluppo delle tecnologie, che hanno reso facile ed economico l’accesso alle notizie e la loro produzione, si è trasformata nella madre della post verità. È forse questo il segnale del fallimento dell’idea che un libero 'marketplace of ideas' assicuri di per sé la selezione virtuosa di posizioni, proposte e soluzioni?

In questo senso personalmente sono meno pessimista; il catastrofismo dei teorici della post verità − e quindi del bisogno di intervenire, di controllare, addirittura di portare limitazioni con tribunali o giurie a cui attribuire il compito di verificare cosa sia vero, cosa sia falso − è pericolosissimo. L’opinione aperta produce sempre mezze verità, non verità e quasi verità. In altri termini, l’opinione non è fatta di matematica verità o matematico errore, è una miscela dell’uno e dell’altro; è aperta e al suo interno tutti noi un po’ ci andiamo a ‘beccare’. Quindi ripetiamo quasi sempre le stesse cose, ci affidiamo ad alcune convinzioni che anche altri hanno: sono verità? Non lo sono? È molto complesso giudicare l’opinione con il metodo della verità. Quindi direi di stare veramente attenti. L’apertura e la ricchezza di mezzi di informazione, anzi di comunicazione, che abbiamo, cioè dei media, di internet, dei vari social network e così via, sono un grandissimo strumento. Lo sono per tutti noi, sia per coloro che vivono in paesi distopici che per coloro che vivono in paesi liberi. Avere un’idea della controinformazione dell’informazione è fondamentale. Ci sono valori, o meglio positività, da valutare sempre. È chiaro che è possibile che all’interno di questo sistema, molto aperto, si mettano in atto delle malevolenze o delle strategie per manipolare un’opinione. Teniamo però presente che queste sono state sempre messe in atto, non nascono adesso. Le non verità hanno fatto la storia, in qualche modo. Quindi questo avviene anche oggi. Naturalmente tutto ciò può portare a situazioni incresciose ma, almeno a mio parere, è sempre complicato – e anche impossibile – stabilire una relazione di causa-effetto fra una non verità diffusa e una decisione politica. Quando si dice, per esempio, che gli americani sono stati condizionati nel loro voto dall’intervento di Putin e della Russia (che probabilmente hanno fatto il loro sporco gioco appoggiando la candidatura di Donald Trump contro quella di Hillary Clinton) possiamo noi provare che dato quell’intervento, quello sia stato il voto? Possiamo provare che da tale influenza sia seguito quel voto come conseguenza diretta? Dubito che sia possibile. Non si può quindi affermare con certezza che la non verità sia stata la causa di quel voto.
Questo significa che non è possibile giustificare alcun intervento di controllo sull’operatività di questi mezzi. È chiaro che gli Stati devono controllare che altri Stati non si intromettano nelle questioni interne, ma questo fa parte delle funzioni della sicurezza nazionale rispetto agli altri, ai nemici, agli altri Paesi. Ci sono già sistemi molto sofisticati per verificare questo. La mia impressione, invece, è che dietro la foga ambigua (anche questa strumentale) della non verità si voglia in qualche modo aprire la strada al controllo di questi media popolari, o comunque aperti a tutti. Questo è gravissimo, perché chi ha il potere di controllarci ha il massimo potere: rientreremmo quindi davvero in una situazione da Grande fratello, o comunque in una situazione nella quale nessuno può dirsi davvero libero di esprimere le proprie opinioni. Chi controlla non ha sopra di sé alcun controllore, quindi si creerebbe un potere fuori da ogni controllo, cioè assoluto. Nessuno può essere contento di ciò, quindi starei molto attenta a usare con facilità questa idea di post verità. In ogni caso, ogni post verità ha una vita breve. Già quando dico ‘post verità’, la post verità è finita. È un discorso che ha a che fare con la temporalità dell’analisi, dei controlli, con la credibilità… Nessuna bugia resiste tanto tempo. E anche se per qualcuno resiste abbastanza da influenzare delle decisioni, secondo me non è possibile provare che a quella bugia corrisponde quella decisione. A mio parere, in questa informazione così articolata, così ricca di mezzi e di persone, di volontà e di idee, siamo noi i grandi controllori delle varie non verità che vediamo circolare. Quindi siamo noi i veri e propri verificatori di questa che viene presentata come verità e invece non lo è.

Sempre parlando di informazione, vorrei chiudere con un’altra riflessione. Una delle ricadute della disponibilità di una massa di informazioni disorganizzate è la ricerca della semplificazione, che porta all’accettazione fideistica di quelle notizie, interpretazioni – soprattutto quando si tratta di attribuzione di responsabilità ad altri – che soddisfano senza sforzo ulteriore i pregiudizi già covati. Che speranze possiamo nutrire su una rinascita del pensiero critico, della cultura del dubbio, che non si esprima nell’universale ‘tutto ciò che ti dicono è falso’?

Questo è un problema molto serio perché siamo in una fase per così dire manichea, per cui da un lato c’è la verità e dall’altro lato la non verità; da un lato ci sono i difensori dell’interesse nazionale, dall’altro i loro sabotatori. In questo clima sembra che non ci rimanga altro che rimetterci nelle mani di alcuni semplificatori del vero (e del falso) che ci dicano esattamente da che parte andare. Questo è l’incubo, la distopia, di una società razionalistica al massimo, che toglie, come si intuisce, l’erba sotto i piedi alla possibilità stessa del pensiero critico. Se infatti demandiamo ad una casta di sapienti la decisione su quel che noi opiniamo, non abbiamo altra scelta che accettare il responso degli esperti.

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