COLORE

«Georg. Ma che cosa hai sognato? Era bello o spaventoso? Era forse qualcosa che hai vissuto con me?
Margarethe.
Nulla di tutto ciò. Era semplicissimo. Si trattava di un paesaggio, ma ardeva nei colori. Mai ho visto colori del genere. Anche i pittori non li conoscono.
Georg.
Erano i colori della fantasia, Margarethe.
Margarethe.
I colori della fantasia, è vero. Il paesaggio splendeva in essi. Ogni monte, ogni albero, le foglie: avevano in sé infiniti colori. E anche infiniti paesaggi. Quasi la stessa natura prendesse vita in una molteplicità di incarnazioni.
Georg.
Conosco queste immagini della fantasia. Credo di averle in me stesso quando dipingo. Mescolo i colori e vedo solo colore. Vorrei quasi dire: io sono colore.
Margarethe.
E così era il sogno. Non ero altro che occhi. Tutti gli altri sensi erano dimenticati, scomparsi. Io stessa non c’ero più, né la mia mente […]. E io stessa ero colore in questo paesaggio».
(W. Benjamin, L’arcobaleno, in Metafisica della gioventù, 1982).

Erano queste le parole che occupavano i miei pensieri ogni volta che incontravo Dust, uno dei primi writer conosciuti che mi narrava le strade di Milano attraverso i pezzi più belli, i writer più bravi, gli stili più importanti. A volte, all’improvviso, indicava un muro e diceva: «Quello sono io». Quell’io scritto, dipinto a colori sulle strade o sui treni, era in parte sconosciuto, mi accorgevo che proveniva da una dimensione onirica, un mondo di sogno: il polveroso mondo di sogno di Dust dove tutto era in potenza. Molti writer fanno dei bozzetti dei loro pezzi, lui non ci riusciva, sosteneva che tanto poi non avrebbe scritto quello che aveva abbozzato. Non lo sapeva chi sarebbe uscito fuori da quel suono metallico e graffiante, quel leggero fzzz dell’aerosol in azione che è, insieme, sfida estetica e libertà delle passioni. Per questo motivo staccava dalle bombolette l’etichetta che ne indicava il colore, le mescolava come se il loro compito fosse quello di formare l’opera già prima di essere tirate fuori dal suo zaino, come se il bagaglio cromatico che portava costantemente con sé avesse il potere di creare, da solo, il suo nome. Dust se ne restava a galleggiare insieme alla vernice proprio sotto il tappino della bomboletta e, come Alice nel Paese delle Meraviglie, diceva: «Che mettano pure la testa in questo buco e dicano: ‘Esci fuori tesoro!’. Io guarderò in su e chiederò ‘Chi sono? Prima di tutto voglio sapere chi sono e poi, se mi piace essere quella persona, allora verrò, altrimenti resterò quaggiù fino a quando non sarò qualcuno di mio gusto’».

Il primo sogno dei writer newyorkesi, che scrivevano i loro nomi fantastici – le tags – sui muri e sui vagoni della metropolitana, era proprio quello dell’invenzione di una nuova identità, un’ambizione che un antropologo-writer napoletano, conosciuto qualche anno fa, definì ‘farsi un nome’: una sorta di egobattesimo finalizzato ad uno schietto individualismo onomastico e protagonista, che si costruisce fra linee, lettering, bozzetti e colori negli spazi interstiziali urbani. Un tale vagheggiamento onirico andava molto oltre le dicotomiche catalogazioni, comode e familiari, attraverso cui la stampa newyorkese prima, europea poi, hanno cercato di familiarizzare con questi strani sacerdoti del colore. Le spiegazioni hanno imboccato prima la strada del disagio sociale in cui versavano gli adolescenti black-american, che si opponeva alla loro grande creatività e genialità, poi quella del grigiore del cemento urbano combattuto tenacemente dal colore dei ‘graffiti’, termine dispregiativo capace di sottolineare l’ingenuità e l’arditezza dei segni murali. Certamente dagli anni ’60 ad oggi il writing, ribattezzato graffitismo dalla necessità comprensiva sociale, ha visto la fondazione del proprio mito accogliendo all’interno della sua stessa narrazione artisti come Keith Haring o Jean-Michel Basquiat che poco avevano a che fare con tags, lettering e treni che portavano a spasso nomi improbabili, ma che pure partecipavano all’adrenalinico rito notturno delle bombolette, delle effrazioni nelle stazioni metropolitane e delle fughe rocambolesche da sirene più annoiate che mai.

Ho conosciuto Longe a Bologna, una sera d’autunno, mentre preparava meticolosamente la sua maschera notturna, una vecchia e comoda tuta da operaio così piena di macchie multicolori che il blu originario era relegato solo negli angoli nascosti; ogni macchia era il segno di una notte passata a dipingere, e lui si preparava con attenzione – sempre gli stessi gesti – fino a quando non si sentiva pronto a dismettere il quotidiano per diventare finalmente Longe: i suoi compagni erano i protagonisti sfiancati delle interminabili attese che gli avevano guadagnato il soprannome di ‘il lungo’! Diceva che il writing non sarebbe passato come la moda fino a quando qualcuno avesse continuato ad utilizzare le rotaie come passerelle di un sé rivisitato e corretto. E forse non aveva torto se qualche londinese ruba dai muri di Paddington le opere di Banksy – artista famoso per le sue creazioni di protesta anti-establishment – per rivenderle su eBay a 20.000 sterline, sollevando le proteste dei residenti locali e costringendo le ferrovie a scusarsi per aver coperto le altre opere con una mano di vernice color magnolia. Ma che non era tutto qui, che non si trattava solo di schietto egotismo e reinvenzione identitaria, lo compresi incontrando una writer-artista romana. Dleen era solita staccare qualche frammento di cemento dal nome che aveva appena finito di dipingere, che poi cuciva sui vestiti, o ne faceva spille e mollette, chiamando quei frammenti ‘i miei arcobaleni di tutti i giorni’. Ho reincontrato il significato dei suoi arcobaleni in uno dei racconti più belli che siano mai stati scritti attorno al writing, un racconto in cui si confondono bombe e bombolette a Belgrado, mentre la guerra impazza spingendo i writer verso una narrazione cromatica capace di smuovere il mutamento:

Lui [era] in strada e nessuno doveva provare a toglierglielo, il writing. Doveva fare quel pezzo l’avrebbe fatto. Punto. La situazione stava sfuggendo di mano a tutto il mondo, non sarebbe stato lui a perdere il controllo. Stava finendo di riempire la prima parola, di fisso colori rosso e blu, quelli della bandiera serba ma. Ci credeva ancora nella sua patria? Dopo tutto quello schifo. Fumava, mentre agitava il rosso, mentre montava un altro tappino. ‘Ehi tu, fermo dove sei!!’. Ok.
(MDJ+, Beograd Bboyz. 79 days, 2000).

Solo colori. E un sogno.

multiverso

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