COLORE

Non c’è posizione di maggior potere di quella di essere ‘semplicemente’ umani/e. Rivendicare il potere significa rivendicare la possibilità di parlare a nome di tutta l’umanità. Le persone che sono definite in base alla razza non lo possono fare, possono solo parlare a nome della loro razza. Ma quelle che non sono definite in base alla razza lo possono fare perché non rappresentano, appunto, gli interessi di una razza. Riuscire a vedere la componente razziale nella definizione dei/lle bianchi/e significa sfrattare questi/e ultimi/e, sfrattare noi stessi/e, da una posizione di potere, con tutte le iniquità, l’oppressione, i privilegi e le sofferenze connessi, significa sfrattarli/le, sfrattare noi stessi/e, minando l’autorità con cui essi/e parlano e agiscono, con cui noi parliamo e agiamo, nel mondo e del mondo.

Questa percezione dei bianchi come persone che non hanno connotazioni di razza è particolarmente evidente nell’assenza di riferimenti all’essere bianchi che caratterizza i discorsi e la scrittura dei bianchi in Occidente. Noi (bianchi) parliamo, ad esempio, del fatto che i nostri amici, vicini, colleghi, clienti e datori di lavoro sono neri o cinesi, e lo facciamo nel modo più aperto e amichevole, ma non menzioniamo mai il fatto che i bianchi che conosciamo sono ‘bianchi’. Un comico vecchio stile non può che cominciare una barzelletta così: «C’è un tipo che cammina per la strada e incontra un nero…», senza pensare mai a definire la razza del ‘tipo’ come fa con quella del ‘nero’. Le presentazioni dei film che passano in TV, in cui bisogna dire tante cose in poco spazio, sprecano parole con cose come: «Una commedia in cui un poliziotto e il suo collega di colore indagano su una rapina», «Lo Skinhead Johnny e il suo amante asiatico Omar mettono su una lavanderia», «Un film di un promettente regista nativo americano»… e così via. Siccome tutti i bianchi in Occidente lo fanno continuamente, potrebbe essere offensivo citare esempi altrui, perciò mi limito ad uno tratto dai miei stessi lavori. In un articolo sugli stereotipi gay e lesbici (R. Dyer, Seen to Be Believed: Some Problems in the Representation of Gay People as Typical, in The Matter of Images. Essays on Representation, 1993) discuto il fatto che dei cosiddetti queen o dyke ci possono essere più varianti. Nelle illustrazioni che accompagnano questa mia ipotesi, comparo un ‘queen modaiolo’ tratto dal film Irene con un ‘queen di colore’ tratto dal film Car Wash: la prima immagine, quella di un bianco, non ha connotazioni razziali, mentre la variante rappresentata nell’altra immagine è completamente ridotta alla sua razza. Inoltre, questa è l’unica immagine di un non bianco cui faccio riferimento nell’articolo, in cui comunque non ho sottolineato il fatto che tutte le altre immagini prese in considerazione rappresentano bianchi. Qui, come negli altri esempi bianchi che ho fatto in questa pagina, il queen modaiolo, dal punto di vista razziale, è considerato come semplicemente umano.

Un tale assunto – e cioè che le persone bianche siano semplicemente persone, cosa che non è poi troppo diversa dal dire che i bianchi sono persone, mentre le persone di altri colori sono qualcosa d’altro – è endemico nella cultura bianca. Le critiche più forti rispetto a tutto ciò sono state rivolte a coloro che si potrebbero considerare come in assoluto i meno razzisti o i meno strenui sostenitori della supremazia bianca. bell hooks, ad esempio, ha notato come si stupiscono e si arrabbiano i liberals quando si concentra l’attenzione sul loro essere bianchi, quando vengono visti come bianchi da persone non bianche:

Spesso la loro rabbia erompe perché pensano che tutti i modi di guardare che enfatizzano la differenza sovvertano la fede liberale in una soggettività universale (siamo tutti persone umane e niente altro) che secondo loro farebbe scomparire il razzismo. Hanno un profondo investimento emozionale nell’‘uguaglianza’, anche quando le loro azioni riflettono il primato dell’essere bianchi come segno che comunica chi sono e che cosa pensano.
(bell hooks, Black Looks. Race and Representation, 1992).

Non diversamente, Hazel Carby discute l’uso di testi di autori di colore in classi formate da bianchi, sotto il segno del multiculturalismo, secondo modalità che spazzano via la possibilità di concentrare l’attenzione sulla «complessità della risposta nella costruzione di sé dello studente e lettore (bianco) in relazione alla percezione dell’‘altro’ (nero)». Dovremmo riconoscere, sostiene Carby, che «ognuno in questo ordine sociale è stato costruito nella nostra immaginazione politica come soggetto razzialmente connotato» e che perciò dovremmo considerare l’essere bianchi alla stregua dell’essere neri per poter «rendere visibile ciò che è reso invisibile quando viene visto come lo stato normativo di esistenza: il punto (bianco) nello spazio da cui tendiamo a identificare la differenza» (H. Carby, The Multicultural Wars, in Black Popular Culture, a cura di G. Dent, 1992).

L’invisibilità dell’essere bianchi come posizione razziale nel discorso bianco (che non significa necessariamente dominante) è tutt’uno con la sua ubiquità. In effetti per la maggior parte del tempo le persone bianche non parlano d’altro che di persone bianche, è solo che lo facciamo in termini di ‘persone’ in generale. Ogni indagine – condotta attraverso libri, musei, giornali, pubblicità, film, televisione, software – mostra ripetutamente che nelle rappresentazioni occidentali i bianchi sono sproporzionatamente predominanti, hanno i ruoli centrali e più elaborati, e soprattutto sono fissati come norma, standard, esperienza comune. I bianchi sono dappertutto nelle rappresentazioni. Ma proprio per questo e proprio per il loro porsi come norma a loro non sembra di essere rappresentati ‘come’ bianchi, ma come persone di diverso genere, classe, sesso e abilità. In altre parole, al livello della rappresentazione razziale, i bianchi non sono di una certa razza, sono semplicemente la razza umana.

Ci viene detto spesso che ora viviamo in un mondo di identità multiple, di ibridità, di perdita di un centro e di frammentazione. Le vecchie illusorie identità unitarie di classe, di genere, di razza, di sessualità vengono meno; una persona può essere nera e gay e di classe media e donna; si può essere bi-, poli- o non-sessuali, di razza mista, di genere indeterminato e di chissà che classe. Ma non abbiamo ancora raggiunto una situazione in cui le persone bianche e il progetto culturale bianco non siano più in ascesa. I media, la politica, l’istruzione sono ancora nelle mani dei bianchi, parlano ancora a loro nome, anche se dichiarano (e spesso aspirano sinceramente a farlo) di parlare a nome dell’umanità. In controluce rispetto al fiorire di una miriade di voci postmoderne bisogna anche vedere la tendenza contrapposta, che va verso l’omogeneizzazione della cultura mondiale, nel perdurare del dominio statunitense nella disseminazione delle notizie, nei programmi televisivi più popolari e nei film hollywoodiani. Il multiculturalismo postmoderno può davvero aver aperto uno spazio per le voci dell’altro, mettendo in crisi l’autorità dell’Occidente bianco (C. Owens, The Discourse of Others: Feminists and Postmodernism, in The Anti-Aesthetic. Essays on Postmodern Culture, a cura di H. Fostel, 1983), ma può allo stesso tempo funzionare come uno spettacolo parallelo per le persone bianche che continuano a deliziarsi nel guardare tutte le differenze che le circondano. Il film La moglie del soldato (1992) mi sembra un buon esempio di ciò. Il film esplora con fascinazione e generosità la natura ibrida e fluida dell’identità: il genere, la razza, l’appartenenza nazionale, la sessualità. Anche se tutto questo si risolve poi, seppur ridicolizzandolo, attorno a un uomo bianco eterosessuale e reinscrive la sua posizione nel punto di intersezione tra eterosessualità, mascolinità e razza bianca come quella dell’unico gruppo che non ha bisogno di essere ibrido e fluido. Possiamo davvero essere sulla via di una genuina ibridità, di una molteplicità senza alcuna egemonia (bianca) e può essere davvero che sia lì che vogliamo arrivare, ma non ci siamo ancora e non ci arriveremo fino a che non vedremo il potere connesso all’essere bianchi, la sua particolarità e la sua limitatezza, li metteremo al loro posto e daremo fine al loro dominio.

Questo significa studiare l’essere bianchi in quanto tale. A volte si presta attenzione all’‘etnicità bianca’ (cfr. ad esempio R.D. Alba, Ethnic Identity: the Transformation of White America, 1990), ma questo identifica sempre un’identità fondata su origini culturali, quali quelle inglesi, italiane o polacche, cattoliche o ebraiche, o ancora polacco-americane, irlandesi-americane, cattolico-americane, ecc. Comunque queste sono varianti dell’etnicità bianca (anche se alcune sono più bianche di altre) e la loro analisi tende a distogliere l’attenzione da quella dell’essere bianchi in quanto tale. John Ibson, nel discutere i risultati di una ricerca sull’etnicità bianca negli Stati Uniti, conclude che essere, per dire, polacchi, cattolici o irlandesi, potrebbe non essere poi così importante per gli americani bianchi come alcuni vorrebbero (Virgin Land or Virgin Mary? Studying the Ethnicity of White Americans, in «America Quarterly», 1981). Ma l’essere bianchi senz’altro lo è.

[Traduzione di Sergia Adamo]

Questo testo è tratto da R. Dyer, White. Essays on Race and Culture, Routledge, London 1997, pp. 2-4.

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