COLORE
Blu livido
di Sergia Adamo
Non tanto un colore quanto una traccia; una traccia che chiede di essere decifrata o si nega a ogni lettura: il blu livido, la cui oscurità sfuma verso il viola e vira verso il rosso sangue con striature di giallo o di verde o di nero persino di grigio scuro, resta il prodotto dei corpi sottoposti alla violenza e sottratti alla parola, resta il modo in cui quei corpi parlano della violenza, ne manifestano la traccia e sembrano voler affermare la loro materialità irriducibile, il punto di arrivo di una fisicità che non si può negare.
Se penso al blu livido mi vengono in mente immagini in forma di parole che dipingono corpi di donne. Ma sono corpi che nella loro rappresentazione non affermano alcuna irriducibilità, alcun punto fisso di arrivo, anzi; conducono piuttosto attraverso quelle sfumature, risituano la violenza, la rivelano anche là dove essa sembra condannata e rifiutata, impongono di mettere in discussione ogni definizione di materialità.
Penso al corpo di Sethe che ha un albero sulla schiena. È un albero fatto di cicatrici che ancora parlano di quello che Sethe ha vissuto quando era schiava, prima di attraversare il fiume Ohio e trovare la libertà in Kentucky: la storia che la scrittrice afroamericana Toni Morrison ha raccontato nel suo capolavoro, Beloved. Ci penso perché le cicatrici di Sethe non dicono tutto. Non dicono quello che lei ha fatto per reagire al suo passato, non possono dire che ha ucciso la sua piccola figlia pur di sottrarla alla schiavitù, al destino che era stato il suo. E poi le motivazioni e le valutazioni davanti a tutto questo non possono che rimanere sospese. Le sfumature livide di quelle cicatrici non sono indizi che portano nella direzione univoca di una ricostruzione indubitabile di quel passato, il giudizio su di esso non può che essere una violenza che riproduce altra violenza.
Oppure penso al corpo di una donna barbara che, nel romanzo del sudafricano bianco J.M. Coetzee Aspettando i barbari, è stata accolta nella casa del magistrato di un avamposto alla frontiera di un impero senza definizione di tempo e di spazio (e quanto vicino o lontano dal Sudafrica dell’Apartheid?). Una donna i cui piedi sono stati spezzati, e i cui occhi sono stati bruciati dalla vicinanza di un ferro arroventato nella dimensione del segreto della tortura. Ma i toni lividi, che sulla pelle di questa donna sfumano verso il grigio, non parlano d’altro che della loro indecifrabilità e della violenza che il magistrato riproduce nel volerli leggere, nel volerli ridurre alle sue attese di intelleggibilità.
E ancora al corpo di Douloti, nel racconto omonimo di Mahasweta Devi, la storia di una adivasi di una tribù aborigena dell’India, una prostituta che, all’ultimo stadio della sifilide e lasciata senza cure, rifiutata da tutti gli ospedali, non può che lasciarsi morire mentre la sua pelle si colora dei toni scuri dell’agonia. Sono toni indefiniti e ambigui che contrastano con i colori netti della bandiera della nazione indiana che, proprio nel momento in cui Douloti muore, celebra l’anniversario della propria indipendenza. Ed è in questo contrasto che si annida l’irresolubilità di una domanda di giustizia che rimane aperta, una nazione nata per negare la violenza dell’oppressione coloniale che riproduce altre violenze e altre oppressioni: il cadavere tumefatto e livido di Douloti, rifiutato ovunque, ricopre interamente la mappa dell’India che un maestro aveva tracciato nel cortile della scuola per onorare degnamente la grande celebrazione.
E penso anche al corpo livido di una madre che si lascia guardare dal figlio mentre si percuote per riprodurre la violenza che suo marito perpetrava su di lei, in I lavoratori della morte, romanzo recente della scrittrice cilena Diamela Eltit. E a quello di Nettie, nel ben più noto Colore viola di Alice Walker, le cui macchie livide, prodotto della violenza di un patrigno che la stuprava e di un marito che la usa per soddisfare tutti i suoi bisogni, non vengono mai descritte in quanto tali, ma si possono intuire per contrasto, per allusione, in relazione ai colori vivaci che Nettie sogna di indossare.
Forse, sì, tutti questi colori lividi sono più nella mia memoria di lettrice che scritti a chiare lettere, esplicitamente nominati sulle pagine e univocamente attribuiti a quei corpi, sono forse il frutto della mia lettura, il mio modo di colorare gli spazi bianchi creati dalle parole della finzione. Il blu livido è il colore che ha tutti i toni e tutte le sfumature al suo interno, anche se forse si dà meno come sfumature e toni (e il tono è il criterio comune per la definizione dei colori nella cultura occidentale) e più come consistenza e come testura della materialità di quei corpi di donne (come è in tante culture africane, ad esempio, dove il colore si definisce in base alla consistenza e alla testura materiale). Questa molteplicità racconta l’impossibilità di ridurre la violenza a un significato univoco: ciò che sembra voler dire una e una cosa sola, violenza e dolore, e materialità irriducibile dei corpi che non hanno altro modo di reagire a quella violenza, racchiude e riapre tante diverse possibilità di lettura. Tante diverse possibilità di essere donne.
Ma, in primo luogo, impone di non tacere la principale difficoltà che si presenta non solo a chi scrive ma anche a chi legge le sfumature e i toni di una scena di violenza: la necessità di fare i conti con il proprio desiderio di usare la retorica di queste scritture per affermare la distanza, sia da parte di chi scrive, sia da parte di chi legge, dalle violazioni che costituiscono l’oggetto della scrittura e della lettura. Un modo per chiamarsi retoricamente fuori, per contemplare a distanza, per affermare un’innocenza che abita il territorio del disconoscimento delle implicazioni di ogni presa di posizione critica e che sfiora la complicità con l’inevitabilità della violenza stessa. Violenza che è anche nel voler universalizzare, nel voler parlare della ‘donna’, invece che di tante donne.
Lo suggerisce Coetzee nel costruire lo sguardo del suo protagonista, il magistrato che da subito vuole vedere i piedi della donna barbara che sono stati rotti durante le torture, anzi, vuole vedere proprio quello che le torture hanno fatto ai suoi piedi, e ammanta di reticenza la descrizione di quello che vede, rimandando chi legge a ricordare i lividi violacei sui corpi di altri due torturati e lasciando proprio la menzione del colore alla retorica del non detto. Ma quando quel viola e quel blu livido si trasferiscono sul corpo femminile innescano un gioco complesso di voyeurismo e piacere non scontato. Un gioco che non può e non vuole risolversi in una penetrazione in quel corpo, ma aspira ad affermare l’innocenza di chi guarda, il suo non coinvolgimento, il suo bisogno inesauribile di osservare per decifrare, di stabilire l’intimità di una scena segreta (come è anche quella della tortura) per ‘oggettificare’ una donna in un corpo violato e stabilire una distanza dalle proprie responsabilità. «In un certo senso mi comporto come un amante», riflette il magistrato, «la spoglio, le faccio il bagno, la accarezzo, dormo accanto a lei, ma potrei ugualmente legarla a una sedia e picchiarla, non sarebbe meno intimo. […] Non c’è niente che mi leghi alle torture, persone che aspettano come scarafaggi dentro seminterrati bui. Come posso pensare che un letto non sia altro che un letto, che il corpo di una donna non sia altro che un luogo di gioia? Devo affermare la mia distanza dal colonnello Joll, non soffrirò per i suoi crimini» (J.M. Coetzee, Aspettando i barbari, 2000, qui e altrove le traduzioni sono mie).
E lo dice, in altro modo, anche Diamela Eltit quando fa sorprendere la madre, una delle due voci narranti del suo I lavoratori della morte, dal figlio, mentre infligge violenza sul suo corpo. Tutto questo ha per il figlio il colore dell’inaspettato, della posizione di colui che guarda dal di fuori. Ma quel colore, precisamente il blu livido, non è solo nel corpo, ma dice anche la complicità dello sguardo: «Compresi in modo precoce l’inaspettato, lo compresi quando mi trovai davanti un corpo livido che castigava se stesso si colpiva con la forza che serviva per rivivere dopo che si fosse prodotto ormai il collasso delle sue emozioni. Mia madre si colpiva davanti al grande specchio della sua camera e io accovacciato dietro la sua porta, capii che era un castigo meritato quello che si infliggeva, un castigo che giorno dopo giorno le era necessario per affrontare quello che doveva essere il suo soffocante giorno dopo giorno. Vidi mia madre che si umiliava quando si attaccava con i suoi palmi arrossati sul volto e rimasi, permasi invisibile per lei dietro il vano della porta per tenere fedelmente conto di ognuno di quei colpi. Fu allora che mia madre mi aprì la visione del fortuito, mi spinse verso il centro stesso dell’impatto di una donna sommersa in un rituale esacerbato del quale io non avevo notizie e nel quale, invece, anche io stavo partecipando».
Ma poi c’è anche la possibilità che lo spettro dell’iride della violenza possa essere cambiato di segno, che la sua pluralità riveli ambiguità che vanno risituate e che questo cambiamento accolga proprio e paradossalmente i tratti dell’inaspettato. L’iridescenza plurale e l’indefinitezza del livido, nella stessa Eltit, hanno come contrappeso tutto lo spettro cromatico possibile, come origine mai posseduta e irrimpiazzabile, la figura di un caleidoscopio in cui la madre si rifugia: «Gli uomini sono così. Come sono gli uomini? Chi lo ha decretato con tanta assoluta sicurezza? Da dove hanno tirato fuori questa cosa? Quando mi prestarono il caleidoscopio vidi il paradiso al suo interno. Avevo otto anni. Sì, il mondo anteriore sopravvive nei caleidoscopi, nel loro interno, intrecciato ai vetri colorati. Ah, i colori più attraenti, magici, divini. Rimasi preda del caleidoscopio. Tuttora. Sì, sono tuttora innamorata di questa combinazione ipnotica di colori e riflessi e bellezza e felicità inquieta e perturbatrice e solitaria che è – ora lo so – assolutamente irrimpiazzabile. Ed è perché mi sono lasciata portare proprio fino al fondo, denso, del caleidoscopio che mi è sempre sembrato brutale, assolutamente irreale e imperfetto e canagliesco il modo in cui la mia vita è andata a finire in tanta ingiustizia» (D. Eltit, I lavoratori della morte, 1998).
Per un personaggio di Beloved, Baby Suggs, un’altra madre problematica, l’esplosione dei colori rappresenta la forza opposta alla contrapposizione violenta bianco/nero, al conflitto della razza: in punto di morte Baby Suggs chiede, proprio per questo, che le siano portati tutti i colori, chiede di vederli, di poterli vivere. Mentre per Nettie, nel romanzo di Alice Walker, è proprio il ‘colore viola’ quello che riassume in sé la possibilità di dire la violenza, ma allo stesso tempo anche di non lasciarla prevalere. Nettie vuole vestirsi di viola, vuole far sì che il colore inespresso delle violenze che il suo corpo riporta diventi la sua forza, il suo modo di dire la sua singolarità e la singolarità di ogni storia di violazione. Così il viola è il suo colore quando viene accompagnata, per la prima volta in vita sua, a scegliere per sé un vestito che il marito pagherà (mentre poche pagine prima il viola dei lividi era rimasto inespresso e sottinteso): «Qualcosa di viola, forse con un po’ di rosso dentro. Ma guardiamo guardiamo e non c’è niente di viola. Tanto rosso, ma, No, mi dice, lui non paga per il rosso. Un colore troppo felice. C’è una scelta di marrone, noce o blu. Dico blu. Non mi ricordo di essere stata mai la prima in un vestito. Adesso avere uno fatto apposta per me. Cerco di dire a Kate che cosa vuol dire. Mi sento caldo in faccia e balbetto». Dal viola al blu, dunque. Colori dei lividi, ma anche, il viola, quel colore che, come ha scritto Alice Walker, «è sempre una sorpresa ma è dappertutto in natura». Una sorpresa, l’inaspettato, il poter volgere le tracce della violenza in una presa di parola, nel superamento di un balbettio, nel mostrare quanto la materialità del corpo sia anche, in qualche modo, una costruzione che fa violenza, e fa violenza proprio alle donne.
Nettie sceglierà di parlare mettendosi a cucire pantaloni coloratissimi, con tutti i toni dell’iride, nessuno uguale all’altro, ognuno cucito per una persona diversa e singolare, sceglierà di indossare e far indossare tutte le gradazioni delle sfumature del viola e anche di più. Inaspettatamente. Imprevedibilmente. Per non farsi ridurre e non far ridurre il suo corpo a tracce di una violenza da decifrare, all’oggetto di una violenza, alla materialità di un corpo di donna e delle sue materiali reazioni.
I colori dei corpi di quelle donne, insomma, e quei colori lividi che affiorano segnando la pelle e poi sbiadiscono lentamente, per quanto possano e debbano essere pensati come il materializzarsi di una reazione fisica, eccedono i confini dei corpi stessi, eccedono le violenze degli sguardi che li fissano in categorie per decifrarli, si spingono, come ha scritto Judith Butler, fino a generare significati che nessuno/a può prevedere a priori.