COLORE
Il marketing ama i colori
di Giovanni Scibilia
Il marketing ama i colori. In primo luogo per la loro intrinseca natura cosmetica, nota sin dagli antichi Egizi, che ne fa degli strumenti chiave nel fondamentale make-up delle merci. Il colore è il belletto di prodotti e marchi, come e più del packaging o dello stesso logo, non avendo altre funzioni primarie apparenti oltre l’ornare, rendendoli così più piacevoli e accattivanti. Un ombretto, un rossetto, un fondotinta. Se è possibile pensare a un supermercato senza marche (discount), non riusciamo a immaginare un ‘super’ di prodotti incolore, sbiancati. Lo prova, indirettamente, lo scandalo dei coloranti cancerogeni degli anni ’70 – frutto, in realtà, di una diceria –, autentica azione di guerrilla anti-mercantile attraverso un attacco al colore. Quanto, infatti, potrebbe essere credibile e invogliante un’aranciata sbiadita?
Ma non è solo una questione estetica. I colori, o meglio il sistema dei colori come sistema di differenze, servono a marche e prodotti anche per identificarsi e distinguersi meglio, aspetti fondamentali dell’attività di posizionamento. Le chance di essere intercettati e riconosciuti dall’occhio sempre più distratto del consumatore crescono nella misura in cui, ad esempio, si assume un colore inedito per il proprio settore merceologico. Nell’espositore assiepato di patatine, pop corn e simili, tra colori fluo e argentature, i prodotti San Carlo spiccano oggi immediatamente per assoluta sobrietà cromatica: il sacchetto è bianco, mostra solo l’immagine del prodotto scontornata e il brand name. Quasi virginali, ‘pure’ patatine, è praticamente impossibile non notarle. Al contrario, Unicredit ha scelto recentemente come key colour per la sua nuova immagine l’arancione, probabilmente per allontanarsi dal classico grigiore bancario, freddo e distanziante; così facendo, però, è diventata un fastidioso clone del celeberrimo ‘conto arancio’ ING, per di più privo del surreale quanto evocativo rimando alla zucca di Cenerentola. Anche se poi la scelta cromatica non è mai totalmente libera, ma condizionata da regole di genere che si sono consolidate nel tempo: il mondo della cioccolata è certamente più ‘rosso’ che verde o viola, quello dei ‘detersivi’ più azzurro e bianco che arancio e giallo.
È la natura psicografica (o fisiologica, avrebbe detto Goethe) del colore che affascina in primo luogo il marketing, il suo legarsi a doppio filo alla percezione emozionale del soggetto. Ma se il colore è capace di suscitare emozioni, e quindi orientare le scelte, è perché avrebbe, di suo, una natura ‘simbolica’, capace di riverberare sul prodotto che lo adotta. È una vecchia storia quella che collega colori e stati d’animo, vocazioni, destini, ben rappresentata, ad esempio, nell’aneddotica su gemme e pietre preziose. Storia, naturalmente, tutta ‘culturale’ e territoriale, come dimostra il classico esempio del significato luttuoso del ‘nero’ in Occidente e del ‘bianco’ in Giappone. Problema non irrilevante per i mega-brand globali che non possono cambiare i propri codici cromatici nelle varie nazioni in cui vengono distribuiti. Il ‘rosso Coca Cola’, ad esempio, può essere associato alla ‘felicità’ in Cina ma anche a ‘rabbia e pericolo’ nel solito, esoticissimo, Giappone o, addirittura, alla ‘morte’ in Egitto. Il colore-simbolo funge da interfaccia, quindi, tra il prodotto e il consumatore, evocando sensazioni ed emozioni e, al contempo, contribuendo all’immagine della marca. Quanto ha lavorato il ‘blu Barilla’ alla costruzione dell’idea di marca affidabile, seria, professionale? Distintività e prestigio: su questi due aspetti aveva giocato, non a caso, la campagna pubblicitaria intitolata appunto ‘Blu’ (prevedibile soundtrack: Volare) negli anni ’90, in uno dei momenti più bui nella storia delle marche. Il blu del packaging diventava in quegli spot addirittura il key benefit del prodotto Barilla: non una pasta buona, ovvero che tiene il sugo e, soprattutto, che non scuoce (a differenza della pasta del discount) ma la pasta ‘blu’, ‘quella’ e non un’altra, con tutta la sua illustre tradizione e la sua rispettabilità da ‘doppio petto’. Non funzionò: troppo astratto e sofisticato rispetto al realismo consumerista del decennio. Barilla decise di passare a un pragmatico confronto procteriano tra un piatto di spaghetti ammassati e sfatti e uno di spaghetti guizzanti e al dente (Barilla ovviamente), trasposizione quasi letterale del celeberrimo ‘questo detersivo lava più bianco’.
Negli ultimi anni il colore è entrato in modo protagonistico nel dibattito sul marketing emozionale ed esperienziale. Frutto di un mercato maturo, sempre più sofisticato e annoiato, la marketing experience punta sul recupero emozionale del consumatore, attraverso vere e proprie aggressioni polisensoriali: suoni, profumi, textures e, naturalmente, colori. Che Sephora agganci la cromoterapia per promuovere i propri prodotti non sorprende, mentre lascia più stupiti (e perplessi) la campagna Alice delle nuove vellutate Findus, presentate come cibo-colore. Una donna vestita di rosso viene condotta da un coniglio-cartoon dal grigio cunicolo di una grigia metropolitana nel mondo colorato e cartonato delle creme Findus, prodotte da lisergici e postgenetici fiori: quella arancio (zucca e carota), quella verde (porro e finocchi)… La promessa dello speaker non riguarda il sapore delle zuppe, né la qualità degli ingredienti ma il colore stesso: il beneficio viene dalla scelta del colore, non dall’alimento, quasi non si mangiasse che con gli occhi nel grigio mondo della vita metropolitana.
Nella sua naiveté, il filmato di Alice riporta agli aspetti più profondi del colore, tratti che anche la pubblicità come il marketing non solo non possono dimenticare, ma su cui, anzi, insistono e giocano sempre più. Come raccontava Julia Kristeva in un ispiratissimo saggio su Giotto, l’esperienza cromatica è, al contempo, esperienza di minaccia dell’io e tentativo di una sua ricostituzione, un luogo narcisistico e autoerotico per eccellenza (l’Alice Findus è singolarmente sola, coniglio a parte!). Differentemente dalla forma (dal disegno e dalla composizione), il colore non impone una legge simbolica inviolabile ma gioca in modo libero sulla propria gamma. Le culture, lo spazio e il tempo strutturano cioè, come si è accennato, dei codici cromatici, delle corrispondenze, dei rimandi che le pratiche, anche di marketing, violano e trasgrediscono costantemente al momento dell’applicazione. Il colore diventa, in questo senso, un punto di fuga rispetto alle norme della narrazione, della prospettiva e della rappresentazione stessa – minaccia per i fondamenti della nostra cultura, come mostra bene David Batchelor parlando della ‘cromofobia’ dell’Occidente. Lavoro pulsionale del colore che certe comunicazioni recenti mostrano con chiarezza sorprendente. Sony Bravia, ad esempio, rappresenta un mondo, grigio e triste, devastato e reinventato dall’avvento del colore digitale: i colori dilagano su edifici, piazze, strade, giardini, creando continue anomalie percettive e deformazioni. La grande festa cromatica finisce con l’assomigliare stranamente a una guerra a suon di spruzzi ed esplosioni: conflitto e violenza del godimento. Anche HP rappresenta il colore come invasione atomistica indiscriminata di palline multicolori, una vera e propria piena fisica che gioca tra forme e informe, evocando il ritmo altro del regime pulsionale.
Sono queste le nuove frontiere del marketing dei colori, sempre più allusivo e intangibile rispetto ai prodotti, sempre più incuneato nei meandri psichici del soggetto-consumatore, fino a pornograficamente sfiorare – senza alcun pudore, senza alcuna mediazione – il suo fondo pulsionale più nascosto, la sua natura perversa e polimorfa.