COLORE

La ricerca di nuovi mezzi espressivi che, nel primo decennio del Novecento, coinvolse gli artisti dell’Espressionismo tedesco aveva fatto emergere la necessità di rinnovare l’attività artistica non solo per ciò che concerne la forma ma anche per quanto riguarda il colore. Negli anni che avevano preceduto la nascita del gruppo Der Blaue Reiter, Franz Marc è particolarmente impegnato ad indagare le nuove potenzialità espressive del colore soprattutto per il ruolo che esso è chiamato a svolgere: refrattario a ogni riferimento naturalistico, il colore doveva godere di una propria e autonoma forza espressiva.
L’interesse di Franz Marc è, prima di tutto, l’attività artistica a partire da una riflessione sul colore come luogo del farsi dell’opera. In questa prospettiva egli comincia ad indagare le leggi del colore. Prova a capire la struttura del colore, con l’idea di trovare un sistema per disciplinare il modo secondo cui sono disposte e collegate le parti che lo compongono:

Mi deve riuscire di ‘organizzare’ gradualmente i colori; farli diventare uno strumento al servizio dell’espressione artistica, non tenendo conto, in alcun modo, della ‘verosimiglianza’ o del colore locale. Che non si possa procedere ‘a caso’ è indubbio poiché si perderebbe l’effetto. Al contrario, è necessario soffermarsi sulla regola che regge ogni effetto, formale ma anche cromatico.
(A. Macke – F. Marc, Il nostro sogno. Lettere 1910-1914, a cura di M. Passaro, 2006).

Marc preferisce, dunque, l’approccio visivo. Così, la sua teoria dei colori elaborata in dialogo con August Macke è, prima di tutto, un’analisi dell’attività dell’occhio. In questa prospettiva egli sembra accogliere la lezione goethiana secondo cui nell’occhio si mostra una tensione in continuo movimento. In questa attività, aveva già scritto Johann Wolfgang von Goethe, si verifica un tendere verso l’interezza attraverso una continua opposizione che separa e polarizza ma, al tempo stesso, congiunge in un gioco di richiami e rovesciamenti. Un’idea che spinge Marc a usare il prisma. Questo oggetto, attraverso il quale si vede lo spettro dei colori, gli permette infatti di studiare il processo del richiamo, dell’opposizione e dell’interrelazione reciproca tra i colori. Ciò che interessa a Marc è chiaro: ciascun colore del cerchio richiama tutti gli altri. Ogni singolo fenomeno porta con sé l’intero di cui è parte. Ma l’artista, com’è ovvio, tenta di trovare un equilibrio tra la percezione dei sensi, e quindi fra i colori fisiologici, e la pratica pittorica convinto che «lavorare solo con la teoria non porta alla creazione dell’opera». Tuttavia riconosce che la riflessione teorica porta un valido contributo all’elaborazione della «plasticità spaziale, dell’evidenza del moto e della potenzialità del colore». Il prisma, quindi, gli serve per valutare «l’effetto di purezza dei colori nel loro stare l’uno accanto all’altro» (Macke – Marc, Il nostro sogno… cit.).

Ma ciò che mette immediatamente in discussione è proprio il principio della vicinanza tra i colori, quello che Goethe, nella Farbenlehre, aveva definito il ‘contrasto simultaneo’: i colori, secondo Goethe, rendono visibile la loro attrazione o il loro allontanamento reciproco (schiarendosi o scurendosi a seconda della forza cromatica degli uni verso gli altri) in virtù della loro contiguità. La preoccupazione maggiore di Marc, invece, è quella di elaborare un sistema in grado di costruire un nuovo equilibrio compositivo attraverso la messa in tensione (equilibrio dinamico) dei singoli elementi pittorici che rendono visibile il loro reciproco attrarsi sottraendosi al principio della contiguità.

Marc sembra aprire uno spazio in cui è possibile il darsi contemporaneo di più temi assolutamente autonomi. Una polifonia pittorica. E il riferimento alla musica non è certo un caso. Il pittore, infatti, è interessato alle ricerche di Arnold Schönberg, che proprio in quegli anni era impegnato a trovare un nuovo ordine costruttivo musicale che portasse alla dissoluzione delle armonie consolidate dalla tradizione. Si trattava, com’è noto, di una ricerca tesa a rinunciare alla tonalità di base e alle isole tonali che, almeno dal Seicento in poi, costituivano i punti di riferimento delle consonanze e delle dissonanze. Erano queste a dover essere disciplinate e risolute poiché si riteneva che non potessero stare a sé (cfr. E. Fubini, L’Estetica musicale dal Settecento ad oggi, 1987). Le combinazioni sonore, secondo la teoria di Schönberg, venivano, invece, usate liberamente costituendo ognuna un centro armonico, generatore di accordi. Ascoltando il concerto di Schönberg a Monaco il 2 gennaio 1911 (cfr. A. Schönberg, Manuale di armonia, a cura di L. Rognoni, 1963), Marc aveva già notato l’inizio di quella ricerca sulla dissoluzione della tonalità che avrebbe portato il musicista, nel ’21, alla definizione del sistema dodecafonico. Stimolato dalle riflessioni che una simile ricerca sottoponeva all’arte, Marc prova a capire il funzionamento del principio schönberghiano a partire da una riflessione sulla tradizionale disposizione dei colori. Così scrive a Macke:

Schönberg muove dal presupposto che i concetti di dissonanza e di consonanza non esistono affatto. La cosiddetta dissonanza è soltanto una consonanza di note non collegate fra di loro. Un’idea, questa, sempre presente nella mia mente mentre dipingo e che provo ad applicare così: non è assolutamente necessario accostare i colori complementari, come vorrebbe dimostrare il Prisma. Essi, infatti, si possono allontanare ponendo fra loro una distanza qualsiasi. Le dissonanze che si vengono, così, a creare verranno annullate dall’insieme della grande composizione e produrranno consonanze (armonie) nella misura in cui sono complementari in tutta la loro estensione e forza.
(Macke – Marc, Il nostro sogno… cit.).

Ed è qui che emerge l’aspetto sistematico della teoria di Marc: ciascun colore complementare richiama contemporaneamente tutti gli altri partendo da ‘ogni’ punto della superficie pittorica. Un impegno che egli è pronto a sostenere nell’ambito della propria esperienza artistica.

Nel testo pittorico l’artista si misura con gli elementi specifici del linguaggio figurativo, con i valori di volume e di spazio, ottenuti manipolando il colore nella sua sostanza materica. Sono proprio queste qualità, infatti, a orientare e organizzare le tensioni, le forze e le resistenze. In questo spazio la materia è espansa e piatta o gradualmente in rilievo poiché la corposità del colore può aumentare sempre più. Solo in questo modo, variando la composizione della materia coloristica, varia l’effetto stesso del colore e alcuni toni sono costretti a sparire o a trasformarsi. Ed è proprio alla corporeità e al volume del colore che Marc affida la spazialità architettonica, ottenuta con l’intervallarsi regolare dei valori di colore e forma che si colgono nel loro moto di avanzamento e di arretramento. E questo movimento dei valori ritmici assoluti, questo dinamismo, che ha come fine ultimo di unire gli elementi della composizione, è solo l’occhio a coglierlo. Marc sa bene che essi dipendono dal meccanismo causale di azione e reazione che regola il suo comportamento. Soltanto seguendo questo percorso, guidato dall’occhio, si riuscirà a cogliere, secondo l’artista, la perfetta e rigorosa relazione tra elementi formali e timbri cromatici.
Marc affida la struttura compositiva a pochi colori essenziali – rosso, blu, giallo – che, incontrandosi, urtandosi, frantumandosi o richiamandosi, trovano infinite combinazioni, con il bianco e con il nero. Ma è proprio l’investigazione sulle qualità formative della massa pittorica che porta Marc a scoprire che i colori complementari manifestano reciproche simpatie o antipatie indipendentemente dalla loro vicinanza. Scrive ancora a Macke:

Non è neanche necessario che l’azzurro e l’arancione si urtino; soprattutto se c’è una separazione ottenuta con il bianco neutro; è possibile perfino che due punti assolutamente lontani nel quadro richiamino tutti i colori complementari, a patto che rendano visibile la loro simpatia per mezzo di una forma o di una superficie affine che l’occhio sia in grado di percepire.
(Macke – Marc, Il nostro sogno… cit).

In questi anni Marc fa uso della pittura a tempera. La mescolanza dei colori con il rosso d’uovo gli consentiva di ottenere un impasto povero di legante a olio ma adatto a ottenere un tipo di stesura pittorica che, asciugando rapidamente, consentiva la resa della volumetria, i rilievi e le cavità, con aggiunte su aggiunte o per graduato accostamento. Un tipo di indagine volto a confrontarsi con il senso materico, con il valore degli accostamenti, con la tattilità del materiale pittorico.

C’è un’opera del 1911 dipinta con la tecnica della tempera. Si tratta del Rote Stier (Toro rosso). La scena è scarna. La tentazione di Marc è quella di lavorare su pochi passaggi visivi. Le forme sono essenziali, semplificate al massimo. Non esistono notazioni di paesaggio. Il fondo si appiattisce e dentro si ritagliano le forme, affidate prevalentemente all’opposizione dei colori puri e allo stesso nero e bianco che separano e avvolgono costruendo, al tempo stesso, altre forme. Muovendo dall’ampia massa del corpo dell’animale, si seguono i movimenti di una pennellata larga che, con graduali sovrapposizioni o sottrazioni cromatiche, ordina in un insieme armonico il reciproco infiltrarsi, insinuarsi, addentrarsi delle forme e segna, al tempo stesso, il massimo di profondità e di spazio. L’andamento della pennellata non è spontaneo. Anzi, tradisce il lento e meditato processo di lavorazione: Marc studiava attentamente la composizione negli schizzi preparatori, i quali riportano, infatti, le annotazioni sulla disposizione dei colori e delle forme, disposizione che rimaneva inalterata nella stesura definitiva dell’opera.

Ciò che si mostra alla vista è il richiamarsi reciproco dei colori complementari. Osserviamo attentamente il Rote Stier: il rosso intenso, puro, corposo della figura dell’animale al centro dell’opera produce, a livello fisiologico, il verde e il verde-azzurro, i colori complementari del rosso. Per rafforzare, incrementare l’effetto, Marc distribuisce su tutta la superficie macchie di colore verde. L’osservazione del verde provoca, così, un potenziamento del rosso in un crescente dinamico. Lo stesso processo è affidato agli altri due colori puri: l’azzurro e il giallo. Messi in contrasto con i loro complementari, l’occhio, spontaneamente, li sceglie e li collega. Aggiungendoli ai toni arancio e violetto, già esistenti nella composizione, l’artista ottiene un effetto di massimo contrasto: i colori acquistano forza cromatica rafforzando a vicenda la loro luminosità. Marc sembra dimostrare, dunque, il suo principio: non è necessario ordinare i colori secondo una connessione logica. Simultaneamente presenti in più punti della composizione, senza una posizione determinata, i colori creano un effetto di contrasto, luminosità e complementarietà rispetto al movimento: movimento consegnato ai valori di volume, di peso, di massa.

Marc difende il momento oggettivo del colore e quindi la sua separazione dall’osservatore. Questa posizione sembra collocarlo a una certa distanza da Kandinsky, secondo il quale il colore possiede una forza psichica che fa emozionare l’anima. Per Kandinsky, in questa metafisica dei colori la visione del giallo «rende ansiosi, emozionati, eccitati e rivela la violenza del colore, che agisce prepotentemente su di noi». L’effetto psichico del verde, invece, sembra propizio per le «anime stanche», mentre il rosso dà «sensazioni di forza, di energia, tensione, determinazione, gioia, trionfo» (W. Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, a cura di E. Pontiggia, 1989). Le qualità del colore non corrispondono affatto per Marc a disposizioni dell’anima. Egli non si interessa agli effetti, non vuole cadere nella psicologia. Un punto, questo, che lo allontana anche da Goethe, il quale aveva infatti scomposto il colore in maniera tradizionale: lo stimolo dapprima colpisce l’occhio, poi si precipita nella sensazione. Marc tenta, invece, di rendere visibile l’essenza, il mistero dei colori. Vuole dare conto dell’attività del colore, del suo carattere, della sua naturale disposizione, costituzione, maniera di essere.

La sua è un’indagine che prova a rendere e ad organizzare tutta la ricchezza e la complessità del colore concentrandosi principalmente sui valori luministici della composizione. Un’indagine che consegna alla sola vista la capacità di cogliere la forza dei colori, il loro ritmo e la loro melodia. D’altra parte già Plotino aveva affrontato il tema della visione come espressione di uno sguardo in grado di cogliere le melodie e i ritmi della parola, della musica e del colore. Soprattutto del colore. «L’oggetto primario della vista – scrive il filosofo neoplatonico – è il colore» e del colore l’occhio coglie la bellezza poiché essa «si trova soprattutto nella vista» (Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin, 1996).

multiverso

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