COLORE
Non pensare in bianco e nero
di Pier Aldo Rovatti
Prendo lo spunto da un luogo molto noto del pensiero contemporaneo: l’attenzione filosofica di Maurice Merleau-Ponty per la pittura, che attraversa da parte a parte i suoi scritti, dal saggio su Cezanne fino all’ultimo testo su L’occhio e lo spirito. In realtà molti pensatori contemporanei hanno guardato alle arti visive, ma Merleau-Ponty è stato l’unico a sottolineare in modo decisivo il fatto che la pittura pensa e che questo ‘pensiero’ tocca in profondità la filosofia e ne è un correttivo indispensabile. L’‘essere’ di Merleau-Ponty è di colore giallo? Non so. In ogni caso, il filosofo, nella sua opera postuma intitolata Il visibile e l’invisibile (tradotta presso Bompiani), lamenta che la filosofia pensi (da sempre) «in bianco e nero» e che ciò costituisca un suo intrinseco difetto, il suo limite: un pensiero che agisce per opposizioni semplici e drastiche, dove il positivo si contrappone nettamente al negativo, eliminando le differenze e soprattutto la profondità o – come lui la chiama – la ‘verticalità’ del reale.
L’entrata in gioco dei colori, per quanto è possibile, restituisce a tutte le parole chiave della filosofia, compresa la grande parola ‘essere’, la dimensionalità perduta o svalutata da un’idea incolore di verità. Entrano così sulla scena del pensiero la plasticità, le sfumature, la complessità delle differenze. Il contorno non è più rigido se le sfumature e le dimensioni si moltiplicano. Il colore – dice Merleau-Ponty – produce relazioni e pluralità, sovverte la metafisica dello ‘spirito’ ma sovverte anche la metafisica dell’‘occhio’ che guarda da dentro a fuori secondo un vettore unico e fisso.
Nel linguaggio filosofico di Merleau-Ponty, la visione si sostituisce al vedere o – si potrebbe dire – libera il vedere dal suo incatenamento unidirezionale. Le conseguenze di questo gesto o progetto sono filosoficamente molto rilevanti, al punto che ancora oggi non abbiamo finito di valutarne la portata. Con l’entrata del colore va in frantumi un’intera tradizione fissata a un’idea incolore di soggetto, che è poi ‘la nostra comune idea di soggetto’.
Proprio alla fine della sua vita, più di cinquant’anni fa, Merleau-Ponty si è dunque sforzato di lanciare un messaggio alla filosofia (dovunque essa abiti): cari filosofi, o trasformate il vostro linguaggio piatto e strumentale oppure farete bancarotta. E intendeva precisamente dire: o abbandonate la letteralità e l’oggettualità senza spessore delle vostre parole, o sarete schiacciati sotto il peso del bianco e nero dei vostri pensieri. Cioè era convinto che l’unica via d’uscita dal linguaggio strumentale fosse cercare di restituire il ‘colore’ alle parole.
Questo messaggio è stato ascoltato? Sì, ma solo in parte. La questione della scrittura filosofica viene ancora oggi considerata marginale e rari sono gli studi che fanno davvero entrare in risonanza scrittura e pensiero di un autore. La rarità di queste osservazioni dipende dal fatto che si crede che esse siano inutili. In fondo si continua a ritenere che la scrittura non abbia bisogno di colori perché è semplicemente un medium del pensiero (incolore esso stesso), e che, anche se è capace di restituire o tradurre la tonalità di un certo pensiero, sarebbe tuttavia meglio non entrasse in scena e svolgesse sommessamente la sua funzione vicaria con una grigia trasparenza.
Questa resistenza al colore, che si verifica facilmente nella nostra tendenziale sordità al messaggio di Merleau-Ponty, è in realtà un blocco pesante nell’esperienza contemporanea. Ciò che ci trattiene e ci blocca ha a che fare con il governo stesso dei soggetti e con la sottile ma potente ideologia che normalizza sempre più microfisicamente il tessuto sociale. Ne risente con evidenza l’idea stessa di sapere cui crediamo di restare attaccati, ma che riproduce, ogni giorno, la nostra particolare cecità. Vogliamo contorni netti, non sfumature. Non un caleidoscopio, bensì un terso schermo cartesiano. I colori possono restare nei dipinti, o magari nella musica, ma devono essere espunti dai nostri giochi linguistici, ormai standardizzati nelle abitudini di pensiero di una forma di vita bloccata (e che pochi ritengono degna di uno sguardo critico).
Leggiamo una pagina di Proust dove tutte le parole sono cromatiche e sfumate, ma poi non stabiliamo nessun ponte tra quella pagina e una qualche sequenza della nostra vita quotidiana. Quella pagina ha una tonalità, anzi ‘è una tonalità’ (come tante altre pagine di altrettanti grandi letterati). Il nostro segmento quotidiano non ha alcuna tonalità? Sì, anch’esso ne ha una, e la pagina è come un paio di occhiali che l’autore ci presta per vederla. Ma, infine, noi non vogliamo vedere nulla perché il segmento si complicherebbe e noi ci sentiremmo spiazzati, spostati fuori dalla routine in cui veniamo riconosciuti e normalmente ci riconosciamo. La tonalità di un gesto o di una frase, o semplicemente di un tratto minuto dell’espressione del volto di chi abbiamo davanti, o anche solo di una punta emotiva che avvertiamo mentre percorre il nostro corpo in un momento qualunque: tutto questo è lettera muta per il gigantesco apparato di registrazione in cui viviamo, derisoriamente munito di una tecnologia di sensori di ogni tipo. Ma quel che è peggio è lettera muta anche per noi, nonostante qualche intermittenza del nostro debole cuore. Come forse direbbe Jean Baudrillard, la nostra società incolore mangia i colori stessi proprio mentre li esalta.
Infatti il messaggio di Merleau-Ponty è tanto più difficile da ascoltare quanto più il mondo delle nostre pratiche è stato invaso dai colori stessi, che ormai vivono vistosamente dappertutto come una mostruosa superfetazione del bianco e nero, dell’incolore e del grigio, al punto che un vecchio film o un vecchio spezzone televisivo ci sembrano, in confronto, ‘molto più colorati’.