COLORE

Intervista di Liliana Albertazzi a François Jullien

Albertazzi. Nel suo Elogio dell’insapore lei parla d’una rappresentazione dei paesaggi monotona, monocorde. Si tratta in particolare del trattamento del colore?

Jullien. La questione dell’insapore attraversa tutto il pensiero cinese, l’aspetto sbiadito della pittura lo rende visibile. Ogni sapore è illusorio e al contempo seducente, e induce il passante a ‘fermarsi’ senza soddisfarlo. Rappresenta soltanto un’eccitazione immediata e momentanea che, simile ai suoni sgranati di uno strumento, si esaurisce appena consumata: in opposizione a queste stimolazioni superficiali, eccoci invitati a risalire alla sorgente ‘inesauribile’ di ciò che costantemente si dispiega senza mai lasciarsi ridurre a una manifestazione concreta, senza mai lasciarsi completamente catturare dai sensi perché trascende qualunque attualizzazione particolare e permane ricco di virtualità. Ogni attualizzazione è al tempo stesso limitazione, dato che esclude qualunque altro divenire: non sarà mai altro che questo sapore o colore dato, relegato nella sua particolarità insuperabile e delimitato da essa. Al contrario, quando nessun sapore o nessun colore è accentuato, il valore di ‘saporazione’, di sfumatura è tanto più intenso. La saggezza cinese sta nel percepire gli opposti – nell’‘assaporare il non sapore’, nell’‘agire senza agire’ –, i quali, ben lungi dall’essere bloccati definitivamente in un’individualità esclusiva, non cessano di condizionarsi l’un l’altro e di comunicare tra loro.

Nella pittura di un paesaggio l’inchiostro è stato abbondantemente diluito e la gamma dei colori è ristretta, generalmente pallida. Il pallido svolge il ruolo di transizione fra il ‘c’è’ e il ‘non c’è’, fra il vuoto e il pieno. Ripeto, ci sono due funzioni: quella di non eccitare e quella di transizione fra l’essere e il non essere (troppo occidentali). Questo si constata in tutti i registri estetici, ad esempio nelle sculture, e in particolare in quelle di Yunkang dove l’espressione dei contorni è grigia e desolata, e non si può nemmeno dire che si sia sbiadita nel corso dei secoli. Fugacità dell’impressione, ma anche permanenza, limpidezza e dimensione spirituale fino a una desolazione neutra: altrettanti segni complementari del segno insapore che lo elevano a opera d’arte.

Albertazzi. L’insapore, le espressioni e le tinte neutre sarebbero dunque una qualità estetica che si incontra in tutte le arti?

Jullien. Sì, ma occorre precisare che il riconoscimento di un insapore propriamente letterario non viene acquisito subito. È solo progressivamente che l’insapore diverrà un criterio di valore poetico. Nel VI secolo si scopre il taoismo filosofico e l’attrazione per la limpidezza del vuoto, che verrà successivamente giudicata come insipida. Sotto i Tang (VIII secolo) si vede il termine ‘insapore’ penetrare il discorso critico con un connotato positivo, benché in un primo momento serva a caratterizzare uno stile fra gli altri, senza che si notino preferenze. Finalmente, sotto i Song (XI secolo), si cerca una poesia più aspra e, attraverso l’insipidità e la piattezza di una scrittura poetica più severa, meno attraente, si scopre progressivamente il sapore del neutro, che rivela, si sa, le virtù fondamentali di ‘equilibrio’ e di ‘centralità’ che caratterizzano il grande avvicendamento regolare della natura, il processo silenzioso del reale. L’insapore non è soltanto una via di perfezionamento interiore, è anche la ‘ragione delle cose’.

Albertazzi. Sappiamo che in Estremo Oriente i colori sono importanti per designare le cose, ad esempio i fiumi. C’è una relazione fra questi temi?

Jullien. Dal momento che la definizione delle cose non è una iodazione della loro essenza in prospettiva ontologica, il riferimento al colore coglie la realtà stessa perché è capace di renderla in modo più sfumato. Inoltre, la Cina non ha sviluppato molto il simbolismo ‘nozionale’, che parte dall’essenza delle cose, così per questo tipo di simbolismo sono stati utilizzati i colori (il bianco per il lutto e così via).

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