COLORE

La tradizione artistica italiana è unica e impressionante, eppure, nonostante tanta ricchezza, in Italia non esiste una diffusa cultura scientifica del colore. Esiste però una sensibilità al colore molto particolare, quasi a lasciar supporre che gli italiani siano affetti da comune anomalia visiva. Nel paese della luce, pare che il colore debba essere negato: credo che l’italiano sia l’unico popolo al mondo a scegliere automobili dal colore acromatico. Soffermiamoci ad osservare un parcheggio. Dal bianco al nero tutti i colori sono presenti, ma tutti privi di tinta. Quando un’auto ha tinta, il colore è sempre desaturato, a bassissima croma. E così vale per gli abiti, per gli edifici… Il colore è prerogativa dell’infanzia, dello sport e della pubblicità. Oggi nessun italiano adulto vestirebbe abiti con i colori squillanti e l’effetto cangiante delle vesti dei profeti della Cappella Sistina. Sia ben chiaro che ciò non significa mancanza di buon gusto e di eleganza. Forse, proprio grazie a questa negazione del colore, emergono altri aspetti, come la patina del tempo sui muri. Le ombre e le luci si ammorbidiscono degradando le une nelle altre. Sensazioni impossibili quando piani di colore emergono, prevaricano e appiattiscono le figure. Il confronto con l’oltralpe è impressionante.

Forse per tutto questo l’Italia non ha contribuito alla scienza del colore. Gli apporti italiani al colore sono prescientifici. La cultura italiana del colore è quella di Leonardo da Vinci. Forse Leonardo avrebbe potuto dare un contributo a questa scienza. Forse Galileo avrebbe potuto. Ma sarebbero stati troppo in anticipo nel tempo. La storia, quella della scienza vera, incominciò con Isaac Newton nella seconda metà del Seicento e non senza difficoltà, perché anche per lui i tempi non erano maturi. Newton da vivo ebbe l’opposizione di Robert Hooke e Christian Huygens ma, come tutti i grandi, mise le sue carte in un cassetto e con pazienza attese. È vero che solo il tempo è capace di dare alle figure quel rilievo di autorevolezza che per miopia sfugge ai contemporanei. Morto Hooke, Newton riaprì il cassetto e un anno dopo, nel 1704, pubblicò il suo libro Optiks, or A treatise of the Reflections, Refractions, Inflections & Colours of Light. Il volume, ritenuto erroneamente opera minore, forse sbagliata, conteneva le fondamenta della teoria del colore che oggi noi usiamo. La comunità scientifica non era ancora pronta per comprendere fino in fondo la nuova teoria. La radiometria non esisteva per dare sostegno quantitativo. La base matematica era nuova e doveva aspettare ancora 150 anni per formalizzarsi e assumere regole computazionali. E così, anche da morto, Newton continuò ad avere strenui oppositori. Tutto il Settecento, ed anche oltre, fu antinewtoniano. Il romanticismo e pure il grande Johann Wolfgang von Goethe lo furono. Solo altri grandi gli resero giustizia: Thomas Young, Hermann von Grassmann, Hermann von Helmholtz e James Clerk Maxwell. Ma anche per questi la vita non fu facile. Ricordiamo solo che il matematico von Grassmann dovette ripubblicare la nuova teoria degli spazi vettoriali lineari in forma più accettabile dalla comunità scientifica. Newton fu compreso solo quando Maxwell provò sperimentalmente la fondatezza delle sue intuizioni geniali. Geniale fu anche questa prova per la semplicità del dispositivo usato, un giocattolo. Un disco a settori diversamente colorati, messo in rotazione così velocemente da proporre all’osservatore i colori dei settori fusi in uno nuovo, permise di provare quantitativamente la legge del centro di gravità di Newton, legge che non solo definiva la sintesi additiva delle luci, ma anche che conteneva il fenomeno del ‘metamerismo’. Esso si affermò come concetto fondante della teoria del colore, nota come teoria della ‘tricromia impalpabile’, perché impalpabili sono le luci colorate. La teoria assunse anche una formalizzazione matematica alta, ancor oggi accessibile solo a chi ha fatto scuole superiori con indirizzo scientifico.

Tutti questi grandi sono d’oltralpe. Newton e Young sono inglesi e Maxwell è scozzese. La nuova teoria è nata proprio nel mondo anglosassone, che tradizionalmente prepone l’empiria alla teoria. E l’Italia, nonostante si ritenga che abbia una tradizione matematica importante, è stata assente. Come detto sopra, l’Italia è stata presente in tempi prescientifici. Giorgio Vasari, Cennino Cennini, Leonardo da Vinci diedero le regole empiriche del trattare la materia, i pigmenti e i colori sulle tavole e sugli intonaci, ma come tali appartengono ad un’altra storia, questa sì italiana, la storia dell’Arte. Questa concretezza materica del colore non solo portò a ritenere che il colore dei corpi fosse una loro proprietà esclusiva, ma portò anche a organizzare i colori in sistemi di ‘tricromia materiale’, che tendevano a negare la tricromia impalpabile delle luci della teoria di Newton, Young, von Grassmann, von Helmholtz e Maxwell. Ma anche in questo secolare scontro tra tricromia materiale e tricromia impalpabile l’Italia fu assente. Tutto il Settecento, ancora estraneo all’antinewtonismo romantico, fu per la tricromia materiale e non si sottrasse allo scontro con Newton. Tuttavia, la conoscenza pratica sopperì alla conoscenza matematica e gli artigiani della tipografia, spesso sostenitori della tricromia materiale, tutti mitteleuropei, arrivarono a stampare immagini stupefacenti in tri- e quadri-cromia. Le tecniche tipografiche che oggi usiamo sono nate allora con risultati importanti. Non si può ignorare il libro Coloritto: or the Harmony of Coloring in Painting Reduced to Mechanical Practice (1725) dello stampatore germanico Jakob Christoffel Le Blon. Con lui prese vita la sintesi sottrattiva dei colori materiali, che fu posta sovente in opposizione alla sintesi additiva delle luci colorate di Newton. Ancora oggi a molti non risulta chiara la loro differenza, come risulta difficile credere che il colore non sia una proprietà esclusiva dei corpi. Le stampe in quadricromia più affascinanti del Settecento sono però di Jacques Fabian Gautier d’Agoty, che nel 1752 produsse una serie di tavole di Anatomie generale des viscères en situation, de grandeur et couleur naturelle, avec l’angeologie, et la nevrologie de chaque partie du corps humain. La piena comprensione teorica di queste tecniche tipografiche avvenne molto più tardi, negli anni ’30, con le equazioni di Demichel e di Neugebauer, basate sulle teoria della tricromia impalpabile.

La scienza del colore è ricca di controversie. Dopo gli scontri tra tricromia impalpabile e tricromia materiale e tra Newton e Goethe, arriva la più importante delle controversie, quella sollevata dal fisiologo Ewald Hering contro la teoria tricromatica di Young-von Helmholtz-von Grassmann-Maxwell. Era l’anno 1878. Ma il risultato di quest’ultimo confronto fu ad armi pari. Gli studi di Hering, basati su osservazioni psico-fisiologiche, indicavano l’esistenza di coppie di sensazioni cromatiche in ‘opponenza’ reciproca e portavano a distinguere le tinte in ‘uniche’ e ‘binarie’. Uniche sono le tinte identificate ordinatamente con i nomi ‘rosso’, ‘verde’, ‘giallo’ e ‘blu’, mentre binarie sono quelle che nascono dalla miscelazione di due tinte uniche contigue, per esempio la tinta arancia nasce dalla miscela di rosso e giallo. La miscelazione delle tinte non contigue, distinte nelle due coppie rosso-verde e giallo-blu, porta alla loro cancellazione fino a raggiungere il colore acromatico. Hering definì ‘opponenti’ queste coppie di tinte, e così pure definì i colori ‘nero’ e ‘bianco’. Tale ordinamento doveva associarsi a meccanismi della fisiologia della visione e sembrava discordare con la teoria del ‘tristimolo’ di Young-von Helmholtz-von Grassmann-Maxwell. Ciò dava corpo alla controversia. Il grande Ervin Schrödinger tentò una soluzione, ma non fu significativa. Solo una più profonda conoscenza della fisiologia del sistema visivo, avvenuta in oltre cinquant’anni di studi, portò ad associare la rappresentazione di Young-von Helmholtz-von Grassmann-Maxwell al primo stadio del processo visivo, quello della ‘trasduzione’, e quella di Hering al secondo stadio.

Come già detto, la legge del centro di gravità di Newton è associata al ‘metamerismo’, parola quasi sconosciuta ai non addetti, pur essendo il fenomeno fondante della colorimetria, per il quale radiazioni luminose, fisicamente diverse perché caratterizzate da distribuzioni spettrali di potenza diverse, possono indurre uguali sensazioni di colore. Grazie ad esso la riproduzione del colore (fotografia, televisione, tipografia…) è relativamente semplice, perché per riprodurre il colore associato ad una luce non è necessario riprodurre la stessa luce, ma basta produrre una luce metamerica. Ma il metamerismo è anche una maledizione per chi si occupa di vernici, di inchiostri, di materiali colorati… Oggetti di uguale tinta sotto una certa lampadina possono apparire diversi sotto un’altra, a dispetto dello studiatissimo fenomeno della ‘color constancy’. Questa è la ragione per la quale, se si acquistano oggetti d’abbigliamento, non ci si deve fidare della luce interna del negozio, ma si deve fare una verifica pure alla luce del sole. Se nella pratica il metamerismo è anche una maledizione, vuol dire che il colore è molto importante. È l’elemento primo nella comunicazione, e il giusto colore, oltre ad avere valore estetico, è sinonimo di qualità, sia per le cose naturali sia per gli oggetti artificiali. Ed è a questo punto che, dovendo quantificarlo e riprodurlo, si richiede una conoscenza del colore, non artistica, ma scientifica e tecnica. I testi della tradizione italiana ci portano lontano nel tempo e sono prevalentemente rivolti all’arte. La scuola è assente. La ricerca colorimetrica pure. Ma la richiesta per una cultura del colore è crescente. Cerchiamo di essere ottimisti. La scienza del colore non è conchiusa e forse l’Italia può ancora sperare di avere un ruolo.

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