COLORE
Teoria dei colori e progettazione
di Renato Troncon
1. Le ragioni che portarono Johann Wolfgang von Goethe a pubblicare in tre parti distribuite su due volumi, tra 1808 e 1810, la sua famosa Farbenlehre sono ancora oggi attuali e strettamente intrecciate con l’opposizione per noi molto caratteristica tra metodo ed espressione. La teoria dei colori, nel suo intendimento, avrebbe dovuto compiere un gesto radicalmente antimoderno, ovvero prendere le mosse dal colore non come oggetto del quale non sappiamo nulla, ma come oggetto e contenuto del quale già sappiamo qualche cosa. E non come oggetto che agisce indipendentemente da noi, causalmente e obbiettivamente con una propria forza e indipendenza, ma come oggetto che agisce tra noi e il mondo ed è articolazione di uno spazio intermedio che non può essere indicato con un gesto semplicemente ostensivo: il colore non è né qui né lì ma nondimeno ‘è’. La teoria dei colori fu scritta non tanto per illustrare (male secondo i suoi detrattori militanti, come ad esempio ‘l’uomo della pratica’ Harald Küppers, che in questo modo concede alla Farbenlehre goethiana una ancor’oggi intatta e lusinghiera pericolosità) cosa il colore fa e provoca, quanto per comprendere se il colore è ‘adatto’, se il colore è un ambiente che sorregge contestualmente un altro ambiente. È lo stesso problema che (non) viene posto nel design e nella progettazione a proposito, ad esempio, della scelta di una fonte luminosa per una stanza. Nel pensiero unico della progettazione la luce è illuminazione e la sua grammatica risulta da una più o meno ampia varietà di azioni che essa compirebbe. La luce illumina secondo proprie specifiche unità di misura, o secondo un qualsiasi altro standard, e nessuno mai osa dubitare che l’industria sappia ciò che fa. Ma se poi ciò dà anche luogo veramente a un sistema di illuminazione che sia non solo soddisfacente, ma anche intrinsecamente ‘adatto’, ‘adeguato’ e all’‘altezza’, e quindi sia il cardine di un’atmosfera, un dettaglio attivo, questa sarebbe una faccenda altra e che neppure potrebbe essere posta.
2. In questo senso la quasi totalità degli studi sulla Farbenlehre goethiana si occupa molto (e, per la verità, non sempre benissimo) del suo metodo, ma assai meno del suo contenuto e del suo problema: il colore come ‘adattamento’. Anzi, anche l’evidente bisogno di descrivere la morfologia di Goethe come una sorta di fenomenologia, o di storicizzare il suo metodo entro una qualche genealogia, o struttura, risponde a vera e propria cecità se non – per parafrasare Goethe – a ‘indifferenza attiva’ per questo punto. Non voglio ora menzionare le ragioni e le scelte che hanno indotto a questa svista e spiego invece meglio il mio pensiero. Se vi è qualche cosa che Goethe odiava sopra tutto, questi erano i due motori propulsori della vittoriosa riduzione della scienza a tecnologia: idealismo e materialismo. È proprio in conseguenza del loro sconfinamento forzoso e negativo in direzione del colore che Goethe si dedica all’apparentemente ‘stravagante’ attività pluridecennale di redarre una teoria dei colori: Isaac Newton doveva essere non solo sbugiardato, ma anche, soprattutto, fermato.
In realtà Goethe, a differenza dei suoi avversari e anche di qualcuno dei suoi sostenitori, non ha mai pensato che il colore semplicemente esistesse. Se è vero che la Farbenlehre è una ‘costruzione’ del colore e che essa contiene una propria architettura e ingegneria, una sistematica, per Goethe il colore era tuttavia un tipico ‘problema non-problema’, ovvero doveva venire tanto intuito nei suoi nessi specifici, quanto nei suoi nessi universali (simbolici e vaghi): il colore è un infinito concreto, o un concreto infinito, e dunque qualcosa di ‘adatto’. La questione dell’‘adatto’ è centrale in teoria della progettazione e, naturalmente, anche in epistemologia. L’esistenza di qualcosa che è ‘adatto’ mostra chiaramente i limiti dell’una e dell’altra. Torniamo al caso menzionato e relativo alla progettazione (alla scelta) di una fonte luminosa. Ergonomie e procedure possono senz’altro fornirmi una lampada (o altro) per la mia stanza. Né l’una né l’altra potranno però mai dirmi se quella lampada (quella fonte luminosa) è ‘adatta’, adatta cioè ai miei scopi, alla mia professione, alle circostanze, all’arredo della stanza, ecc. Questo potrò dirlo solo io – sostanziando ciò in un atto ‘applicativo’ – e senza garanzie di potermi per sempre attestare sulla relativa risposta. Ogni ‘adattamento’ è per definizione qualcosa di irriducibile, non per chissà quali astruse ragioni, ma semplicemente perché è figlio di una deliberazione, di un soppesamento, di un dialogo con una qualsiasi istanza, e perché quindi vale non semplicemente perché è, ma perché potrebbe non essere: le cose, sostiene lo zen, si rivelano nella loro fuggevolezza.
3. Che conseguenze ha ciò – o potrebbe avere – per la cultura di progetto e per la questione della sua insegnabilità? È evidente che nessun curriculum potrà centrare sulle regole e sulle ricette, e neppure su un canone, se con quest’ultima espressione si intende un insieme semplicemente dato di relazioni, per quanto importanti. Il problema di qualunque curriculum deve essere il problema del cerchio dei colori così come Goethe lo pensò, ovvero di qualcosa che, se è vero che viene costruito, vale però anche come un simbolo, una rappresentazione che permette la contemplazione di infiniti rapporti. E così si conciliano anche caratteri ‘architettonici’ con caratteri ‘espressivi’. Si potrebbe certamente ricordare lo scambio di battute contenuto in Dello spirituale nell’arte di Wassily Kandinsky. Qui un allievo chiede all’altro: «Ma il maestro segue le regole? Naturalmente no». Il fatto è che, come scrivevamo in apertura, la Farbenlehre è stata scritta per insider, per Naturfreunde, per il Naturliebhaber, per l’amico e l’amante della natura, per il confidente e il partecipe, e non per il Fachmann, per lo specialista, per chi è erstarrt in una Lehre, per chi è irrigidito nel suo specialismo (Josef Albers) e sta fuori. È l’idea che il concetto di qualità è duplice: qualità come ‘qualità-per-qualcosa’ da un lato (e di questo ordine è anche la qualità soggettiva, o la stessa qualità semplicemente ‘attesa’, che è ‘qualità-per-me’), e qualità come ‘dedizione’ alla cosa dall’altra (qualità oggettiva, ‘qualità-per-la-cosa’). Insomma, non si potrà mai insegnare l’illuminazione ‘adatta’ di una stanza solo insegnando cause, effetti, funzioni della luce, ecc. e neppure emozioni, fantasticherie, trovate o semplice storia della cultura, mentre si potrà insegnare che illuminare una stanza è sua ‘manutenzione’, è una sorta di ‘sollecitudine’ per essa. Tutto il resto è destinato a fallire o non rappresenta un asse progettuale altrettanto forte. Non lo è la considerazione per la quale il processo della progettazione si dice sia ‘aperto’ o ‘unico’, ecc. Bisogna invece dire, alla maniera di Goethe, che non vi sarà mai una parte che possa prescindere dal tutto (anzi, dal Tutto).
4. Può darsi che questo ordine di considerazioni sembri avere a che fare molto con la ‘filosofia’ della progettazione, e poco con la sua ‘pratica’. Così come può darsi che l’appello a una qualità ‘oggettiva’ sembri sconfinare nel tradizionalistico. Nessuna delle due cose è vera. Se ancora oggi, scendendo da un treno, si rischia di rompersi una gamba perché i marciapiedi ai binari sono progettati troppo bassi, è per una scarsa ‘dedizione’ a ciò che è la mobilità, e dunque anche un treno. Di tradizionalistico, qui, c’è solo l’idea che le cose sono fatte bene quando si agisce per il bene delle cose. È proprio come Goethe scrisse ovunque: «Natur und Kunst sind eins», ovvero sono e debbono poter divenire uno.