CORPO
I rifugiati politici e i segni della tortura
di Anteo Di Napoli e Andrea Taviani
Riferiremo in sintesi di quanto abbiamo appreso come uomini e come medici nel rapporto con le vittime di tortura e di ogni trattamento crudele, disumano e degradante, nell’ambito dell’attività umanitaria di ‘Medici Contro la Tortura’ (MCT), associazione senza scopo di lucro, costituita legalmente nel 1999, che opera a Roma dal 1986, inizialmente in collaborazione con Amnesty International. MCT nel periodo 1999-2007 ha assistito 1.524 vittime (90% uomini e 10% donne), provenienti da Africa (66,3%), Asia (31,5%), Europa Occidentale e Nord America (1,1%), Europa Orientale (0,8%), America Centro-meridionale (0,3%).
Intorno al corpo si struttura ogni rapporto medico-paziente, là dove il paziente colloca in prima istanza la propria condizione di sofferenza e dove si focalizza l’interesse iniziale del medico, avviando un processo che dovrebbe concludersi con la diagnosi. Queste considerazioni acquistano un significato del tutto particolare se il ‘paziente’ è ‘affetto’ da una patologia antropogena che lo individua come vittima di tortura.
Malati per il male ricevuto, percossi sulle piante dei piedi, ustionati col fuoco o con la corrente elettrica, sospesi al soffitto con gli arti legati, spaccati nelle ossa e distrutti nell’anima. Le conseguenze sul corpo sono devastanti anche in caso di ‘tecniche psicologiche’ di tortura, facendo vivere alla vittima esperienze come l’isolamento (incommunicado) per anni, privandola del senso del tempo, in ambienti senza luce o, al contrario, esponendola a una permanente luce accecante. In alcune circostanze vengono sollecitate volutamente nella vittima esperienze di tipo allucinatorio, così da insinuare lo spettro della follia. Anche queste sofferenze nella maggioranza dei casi sono somatizzate sotto forma di insonnia, incubi, allucinazioni, perdita di memoria. In uno studio relativo alla casistica di MCT («Annali di Igiene», 17, 2005), si mostrava che il 64,1% delle vittime aveva subito percosse e traumi da corpi contundenti, il 27,9% violenza psicologica, il 21,9% amputazioni e ferite penetranti, il 20,5% ustioni e scosse elettriche, il 15,4% violenza sessuale, il 13,7% sospensione e altre posizioni innaturali forzate, il 10,5% immersione in liquami e getti d’acqua, il 9,7% condizioni carcerarie inumane, il 6,0% avulsione di denti e/o unghie.
Il corpo è sempre il primo messaggero della sofferenza. È raro, infatti, che la persona vittima di tortura lamenti inizialmente la sua peculiare condizione psicologica. Il disagio viene riferito con una serie di connotazioni su base organica, che solo in parte può essere ricondotta alle sequele delle violenze di cui si è stati vittima.
Anche in termini di conduzione della visita medica l’approccio è peculiare. Può essere estremamente penoso chiedere di spogliarsi, lasciarsi toccare, perché la nudità è una delle più comuni condizioni descritte dalle vittime, con il duplice scopo per il carnefice di umiliare e trasmettere un messaggio inequivocabile: ‘sei nelle mie mani e il tuo destino dipenderà solo da me’. Si immagini cosa significa visitare una vittima di violenza sessuale o, per un dentista, intervenire su persone cui sono stati strappati i denti. Per non parlare degli esami strumentali che possono richiamare le caratteristiche della tortura: sono noti casi di reazione violenta di pazienti che erano stati torturati tramite elettroshock nel corso di esami elettroencefalografici o elettrocardiografici.
È una sfida assistenziale nuova che mette a nudo l’inadeguatezza dell’approccio medico convenzionale e più in generale delle attuali forme di assistenza, modulate per i bisogni di una popolazione di migranti con temporanee difficoltà sociali, e non di persone invalide e molto sofferenti. I nostri pazienti sono stati costretti a fuggire dal proprio Paese senza avere la possibilità di riflettere sul proprio progetto migratorio. Si trovano così in un Paese straniero senza averlo scelto, spesso sopraffatti dal senso di colpa provocato dall’abbandono della propria terra d’origine e dei propri cari. Si tratta di persone sradicate, infettate dall’umiliazione, isolate, colpite da una violenza antropogena che strumentalmente attiva dei traumi psichici e li reitera nel tempo, facendo sprofondare le vittime in veri e propri disturbi di tipo psicotico. Inoltre, le conseguenze della tortura determinano gravi condizionamenti fisici, che possono creare problemi anche nella ricerca di lavoro: chi è stato sospeso e ha problemi alle articolazioni, difficilmente potrà fare lavori pesanti o il piccolo venditore di strada. Le vittime di tortura sono state ferite da una violenza che ha aggredito il loro corpo e minaccia di intaccare il nocciolo della loro identità; sono persone sradicate non solo geograficamente o socialmente, ma in primo luogo vivono uno sradicamento intimo, muto e segreto. La tortura, infatti, non si propone solo di estorcere una confessione o una delazione, ma di annientare la personalità della vittima, mettendo a tacere una voce e una storia. L’esperienza traumatica che ne deriva è tanto più grave poiché incomunicabile, trattandosi di una violenta esclusione dalla comunicazione sociale, inflitta a persone libere e responsabili. La pre-condizione terapeutica, allora, è far emergere il più possibile questo senso di sradicamento sul piano della comunicazione, della narrazione, della condivisione.
Curare una vittima di tortura significa partire dalla cura del corpo, per poi approfondire l’intervento terapeutico fino a spingerlo verso lo scopo finale del percorso riabilitativo: rendere reversibile il danno che il torturatore intendeva produrre, vale a dire piegare o annientare la psiche dell’individuo, attraverso e oltre il suo corpo. Si parte quindi dalla cura di ferite visibili per doversi poi occupare anche di ferite invisibili e nascoste. Infatti, anche quando la vittima di tortura è apparentemente tornata alla vita ‘normale’, se non ci si è occupati anche delle lesioni ‘oltre il corpo’, essa conserverà una sorta di memoria oscura delle violenze subite, che può riemergere all’improvviso e trasformarsi in angoscia. Un corretto percorso riabilitativo deve consentire alla vittima di tortura di comprendere i meccanismi e le conseguenze del male patito, di farsene un’idea e di comunicarli, invece di subire oscuramente la loro soggezione. A quel punto il percorso di riabilitazione, benché lungo e difficile, si sarà messo in moto e potrà portare al ritorno alla vita di individui dalla personalità a volte non comune, da cui la tortura li aveva violentemente allontanati.
In questi anni abbiamo assistito donne e uomini giunti in Italia da ogni parte del mondo. Al primo nucleo di medici si sono affiancati specialisti della riabilitazione fisica e psichica e poi antropologi, psicologi e filosofi che gestiscono un piccolo gruppo di accoglienza, sostegno e narrazione.
Si cerca di rispondere con esigue risorse alle esigenze che le stesse vittime hanno manifestato in questi anni, esigenze che, drammaticamente, non accennano a diminuire. Se teniamo in considerazione il contesto globale, dove purtroppo sono riscontrabili il perdurare di vecchi conflitti, l’attivazione di nuovi e la frequente negazione di libertà e diritti individuali, diventa doveroso porre maggiore attenzione alle politiche e ai servizi di accoglienza di cui dispone il nostro Paese, cercando di potenziarli in termini di qualità e varietà.
A volte, infatti, le vittime smettono di viversi come vittime. La ‘guarigione’, più ancora della resistenza e della sopravvivenza, è la vera sconfitta del torturatore, dei suoi complici e dei suoi mandanti.