CORPO

La metafora del corpo percorre nei sensi e nelle direzioni più diverse l’estetica classica tedesca tra Sette e Ottocento. È una metafora tanto avvolgente da riguardarci ancora. Vedremo, in breve, come e perché. È anche una metafora ricca di sfumature, che si può coniugare in due opposte direzioni: per un verso essa riguarda il corpo umano quale oggetto della rappresentazione artistica, per un altro essa riguarda invece il corpo vero e proprio dell’opera, la sua consistenza materiale e sensibile.

Cominciamo dal primo aspetto, che in realtà s’interseca con il secondo.
Per una lunga stagione che si avvia con l’Illuminismo tedesco, matura con Kant e trova la sua definizione ultima con Hegel, il corpo umano costituisce il motivo supremo della rappresentazione artistica. Esso viene inteso, a partire da quel fondamentale rappresentante dell’Illuminismo tedesco che è Johann Gottfried Herder e, in particolare, dalle sue Idee per la filosofia della storia dell’umanità, sulla base della sua postura, grazie cioè alla statura eretta concepita come l’esempio supremo della vocazione spirituale dell’uomo. L’uomo, in altri termini, è l’essere dotato di prospettiva, è l’essere che eleva lo sguardo da terra, che si emancipa dal bisogno immediato, dai motivi più istintivi legati agli odori e ai richiami che sono loro connessi. L’occhio, il senso più elevato, diviene in questo contesto anche quello prevalente. Il corpo umano assume in breve, grazie alla trasformazione nella postura, un’attitudine spirituale. Esso diviene così un corpo più che fisico, mentre l’essere umano si scopre come una creatura anfibia e, dunque, irrimediabilmente ambigua. È un animale attraversato da una vocazione spirituale, dunque da un insuperabile squilibrio. Grazie a questo passo si apre una lunga tradizione nell’antropologia filosofica, che giunge sino alla cultura tedesca del Novecento, ad autori come Arnold Gehlen per il quale la nobiltà dell’uomo si rivela proprio in quanto Mangelnder Wesen, proprio in quanto essere difettoso, costretto a compensare sul piano delle prestazioni spirituali i difetti della sua natura.

Winckelmann, nella Storia dell’arte dell’antichità, aveva anticipato l’idealizzazione ‘morale’ del corpo umano proponendolo come modello estetico. Non si trattava tuttavia di un modello reperibile nella realtà. Winckelmann è quasi sorpreso della cosa. Lo dichiara apertamente dicendo che i corpi degli atleti impegnati nei ludi antichi, modelli di ogni bellezza, oggi non si trovano più. Si trattava di apparizioni che potevano avvenire solo sotto il cielo greco. Erano dunque al tempo stesso reali e ideali. Tanto che Winckelmann afferma poi che il canone che si viene di qui derivando è per l’appunto una misura ideale, una sorta di sublime equilibrata ibridazione di membra derivanti da individui diversi.

Tuttavia il corpo, perlomeno in quanto ideale, entrerà ben presto in crisi con il concludersi, grazie a Hegel, della stagione classica dell’estetica tedesca. Sarà proprio Hegel a rilevare, non senza una nota di malinconia, questo declino nelle pagine dell’Estetica. Il famoso pronostico della cosiddetta ‘morte dell’arte’ è precisamente un pronostico concernente la decadenza dell’arte in un mondo che non dota più i propri ideali di una consistenza fisica, sensibile, ma li esprime in termini astratti concettuali. Non è più il corpo del dio a esprimere l’essenza dell’umano e la sua destinazione morale. Afferma Hegel a questo proposito: «L’arte non vale più per noi come il modo più alto in cui la verità si dà esistenza. Nell’insieme il pensiero presto si è opposto all’arte come rappresentazione sensibilizzatrice del divino».

L’arte è dunque destinata a un lento ma inevitabile tramonto, poiché ha perduto il suo oggetto privilegiato e così non trova più nel mondo un luogo nel quale esprimere il proprio primato; essa viene sostituita da una significazione ben più astratta che dà voce a un volto rinnovato dell’ideale. Con l’avvento del mondo cristiano l’incarnazione diviene un momento transeunte, sia pur centrale, nella vicenda divina, che è ormai rivolta a esprimersi – secondo quanto Hegel rammenta – ricorrendo a dei codici ben più astratti di quelli nei quali prendeva forma il dio greco. La devozione del fedele si rivolge ora a una rappresentazione intima di Dio, del quale la figura esteriore, la statua, è solo un tramite. Ma a sua volta questa verità più elevata del divino viene superata – a detta di Hegel – da quella del concetto nel quale lo Spirito trova la più adeguata espressione. L’arte quindi non può che lottare contro se stessa e la propria più intima natura, forzandosi ad assumere le pallide vesti dell’astrazione e dimettendo per contro le usate fattezze della Natura.

Su questa base – com’è ben noto – si è avviato nel Novecento un lunghissimo capitolo della riflessione estetica che è andato sotto l’etichetta di dibattito sulla ‘morte dell’arte’. Ma non è di questo dibattito che si vuole parlare qui, se non molto lateralmente. Non si tratta di chiedersi un’altra volta se l’arte, in particolare l’arte figurativa, dia o meno oggi ragione a Hegel, anche se indubbiamente in molte occasioni sembrerebbe che le cose vadano proprio secondo la sua diagnosi. Basta pensare alle installazioni di Joseph Kosuth, in cui la parola sostituisce ironicamente l’immagine. In casi come questi sembrerebbe essere proprio l’arte a inseguire la filosofia o, quantomeno, l’immagine a mettersi sulle tracce dell’espressione concettuale. Per altro verso, come ha largamente testimoniato l’arte delle dittature – si pensi in particolare al nazionalsocialismo – la ripresa del corpo umano nell’arte contemporanea, l’ideale di un nuovo paganesimo che assuma le spoglie del classico è quanto mai inquietante. Nonostante tutta la loro perizia tecnica, artisti come Arno Breker restano per noi solo l’esempio angoscioso di dove si possa giungere, a quali limiti del tragico e del ridicolo si possa pervenire quando l’arte diviene uno strumento apologetico di un progetto politico totalitario. Tuttavia l’arte, e in particolare quella figurativa, ha continuato modernamente a parlare del corpo anche in altro modo, che non ha nulla a che fare con la memoria di una classicità perduta. Dal tardo Ottocento in poi, dal Rodin dei Borghesi di Calais che ha rivestito i propri eroi rendendoli icone della virtù civile invece che di quella atletica, per venire sino all’arte contemporanea, il corpo continua nonostante tutto a essere soggetto dell’opera. Ma è un altro corpo, che non lascia trasparire l’ideale cui aspirano i teorici del Neoclassicismo. È piuttosto un corpo opaco e misterioso, appesantito dalla storia e dalla sofferenza, un corpo che attraversa la soglia dell’ignoto. È un corpo che esprime più di quanto non manifesti o dica. A chi mi riferisco? In modo metonimico – come forse si sarà già intuito – a Francis Bacon. Al lento, faticoso incedere dello Study from the Human Body oggi custodito a Melbourne dalla National Gallery of Victoria.

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