CORPO

La questione delle cosiddette ‘mutilazioni genitali femminili’ (MGF) è balzata agli onori della cronaca nel nostro Paese solo in anni recenti, per motivi storici – abbiamo un passato coloniale diverso da altri Paesi europei – ma soprattutto per un ritardo culturale, oserei dire strutturale, nell’affrontare temi che riguardano la diversità e, nel caso specifico, le trasformazioni sociali legate all’immigrazione.

In questo senso la questione è stata interpretata in chiave di ‘drammatizzazione’ delle conseguenze di quei movimenti migratori contemporanei che vengono letti sempre come fattori di potenziali conflitti. Il ‘caso’ risale al 2004, con l’annuncio della presunta ‘soluzione’ del problema attraverso una proposta di ‘infibulazione soft’, alquanto provocatoria e presto derubricata (cfr. M. Fusaschi, Verso un multiculturalismo all’italiana, in La società di tutti, a cura di F. Pompeo, 2007), e con l’emanazione di una norma (Legge 9.01.2006, n. 7) per certi versi poco discussa, e invece molto discutibile, circa la prevenzione e il divieto delle pratiche in questione.

L’approccio nostrano fu all’epoca, e resta oggi, spesso sensazionalistico, riduzionista e liquidatorio con le solite denunce della ‘barbarie’, cui fanno seguito proposte di interventi umanitari e/o letture ‘medicalizzate’. Contributi questi, comunque non sufficienti al superamento di esperienze culturalmente articolate che vanno primariamente conosciute e indagate nella loro complessità e poi, innegabilmente, condannate. Da anni conduco la mia ricerca su questi temi proponendo un cambiamento di prospettiva in chiave antropologica, il cui primo traguardo consiste proprio nello stabilire le condizioni di un dialogo con le donne interessate e con la loro soggettività. Partendo da canali comunicativi ‘privilegiati’, ho capito che primariamente è necessario spostare il tema sul terreno della ‘modificazione’, in luogo della ‘mutilazione’, al fine di tessere con le attrici sociali uno spazio ‘neutro’, relativamente libero da pregiudizi, dentro cui elaborare un percorso di mediazione interculturale (M. Fusaschi, I segni sul corpo. Per un’antropologia delle modificazioni dei genitali femminili, 2003).

Un sano relativismo culturale metodologico permette di riconoscere il dato che modificare i corpi in maniera temporanea o permanente è un fatto universale: la corporeità è socialmente determinata e corrisponde a modelli – e, perché no, ad antimodelli – che le società, e sempre di più i singoli, elaborano. Ogni uomo o donna nel suo universo socio-culturale si serve del proprio corpo, lo ‘lavora’ e/o lo fa ‘lavorare’ conferendogli una forma. La modifica corporea crea così le condizioni per mezzo delle quali il corpo stesso diventa socialmente comunicabile.

Per il sapere antropologico le pratiche di modificazione del corpo sono diverse e non agevolmente inquadrabili se non per categorie legate al grado di permanenza, di reversibilità o irreversibilità, nonché in riferimento al contesto nel quale esse vengono messe in atto. Così le modificazioni tradizionali a carico dei genitali femminili comprendono una gamma di interventi, non terapeutici, che producono un’alterazione degli organi medesimi e che sono attuati per motivazioni molto diverse fra loro. Tali alterazioni sono praticate per lo più nell’Africa subsahariana, ma, a differenza di quello che si pensa, come illustrato di recente (M. Fusaschi, Corporalmente corretto. Note di antropologia, 2008), in Occidente sono diffuse alcune modificazioni sui genitali a carattere definitivo (maschili e femminili) altrettanto lesive dell’integrità psico-fisica dei soggetti, sebbene frutto della loro volontà, sulle quali resta ancora molto da indagare.

Gli interventi tradizionali, fra cui la clitoridectomia e l’infibulazione, sono interpretati nell’analisi antropologica come veri e propri riti o atti di istituzione la cui finalità è quella di sancire non l’adultità, ma il genere e l’appartenenza a un determinato gruppo. La realizzazione delle MGF non ha lo scopo di ledere intenzionalmente l’organo femminile (come la normativa italiana vuol far intendere), bensì quello di attribuire il genere appropriato, anche se ciò passa attraverso atti brutali e, in sé, inaccettabili. L’incorporazione progressiva della ferita simbolica è il mezzo per ottenere questo fine e per poter accedere a prerogative sociali rilevanti: matrimonio e maternità. La modifica definitiva realizza una grammatica attraverso cui il corpo femminile diviene leggibile, e successivamente ‘gestibile’, come parte integrante di quel particolare universo socio-culturale a sua volta segnato dalla dominazione maschile profonda. Diventare donna significa passare attraverso l’interiorizzazione dei mezzi e delle pratiche necessari per raggiungere questo status. Così anche il dolore, per quanto indicibile, ha un ruolo ‘pedagogico-istitutivo’, connesso con i futuri status di moglie e madre. Le attrici sociali, infatti, possono arrivare a desiderare l’operazione, proprio per accedere a quel mondo che si apre loro dinanzi grazie a tale modifica.

Fra le varie tipologie di MGF, l’infibulazione è l’intervento più complesso: anatomicamente, sul piano delle implicazioni sociali e su quello della salute. Consiste nella sutura quasi totale del sesso già escisso, lasciando libero un piccolo orifizio per il deflusso dei liquidi (urina e sangue mestruale).

A differenza di ciò che talora viene suggerito da una certa diffusione mediatica di pregiudizi anti-islamici, non è operazione prescritta dal Corano, benché praticata in alcuni Paesi musulmani. Essa ha a che vedere con il controllo totale della sfera sessuale femminile, con la preservazione della verginità e della castità, e anche con l’idea di un ruolo materno sancito da una chiusura ‘preventiva e protettiva’, riconfermata ad ogni parto. L’importanza e il prestigio sociale della donna ‘chiusa’ rispetto a quella ‘aperta’ derivano dalla credenza che l’infibulazione, in un certo qual modo, ‘proteggerebbe’ la donna dall’essere sessualmente ‘insidiata’ da relazioni sessuali illecite. ‘Chiudere’ una ragazza prima del matrimonio assicurerebbe molteplici livelli di purezza: verginità (protezione verso un presunto eccesso di temperamento in società a carattere nomade dove il marito si assenta per lunghi periodi di tempo); pulizia degli organi genitali (clitoride e labbra sono ritenute ‘irrimediabilmente’ sporche rinviando all’idea di una sessualità smodata, tipica delle donne non sposate e delle prostitute); pulizia in termini di condotta morale (solo un corpo chiuso simboleggia la rettitudine di una donna sposata ma, soprattutto, di una buona madre).

È evidente che si ha a che fare con una precisa lettura del genere e della sessualità femminili dentro uno schema categoriale precostituito, una griglia che richiama un ordinamento culturale gerarchico delle relazioni fra i generi. L’infibulazione, anche in un contesto migratorio dove il rituale si delocalizza pur non perdendo la sua efficacia, assume il carattere del controllo della soggettività femminile, al quale si associa la ‘gestione’ diretta del corpo e di quello che resta della sessualità, già inevitabilmente compromessa. Se da un lato essa ‘crea’ la donna, o più propriamente istituisce il ruolo di madre, dall’altro la castra, consegnando all’uomo l’enorme potere di ‘gestore’ della sua stessa vita sessuale.

La strada per il superamento delle cosiddette MGF è lunga, ripida e piene di insidie, ma non ci stancheremo mai di ricordare che le prime a battersi sono proprio le donne che le hanno subite. Allo stesso modo, sarebbe importante promuovere nel nostro Paese ‘buone ricerche’, e buone pratiche, a livello locale, per definire i contorni del fenomeno sia a livello quantitativo che qualitativo. Occorre comprendere il contesto nel quale vivono i soggetti coinvolti, considerare luoghi, ruoli e funzioni degli operatori dei servizi socio-sanitari per dare vita a veri spazi di mediazione, e non di compromesso, che permettano di costruire percorsi di cittadinanza condivisi e, finalmente, partecipati.

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