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Big Bang. Il mito dell’inizio del tempo
di Francesco Bertola
Il 28 marzo 1949 Fred Hoyle, uno dei più eminenti scienziati inglesi del secolo scorso, teneva una conferenza radiofonica alla BBC sulla cosmologia, spiegando la differenza tra il modello da lui tenacemente sostenuto, detto dello ‘stato stazionario’, e quello che invece prevedeva un universo in evoluzione nato in un ben determinato istante del passato, quando iniziò ad espandersi. Per dare una descrizione che potremmo dire onomatopeica e al tempo stesso usando una certa ironia, Hoyle definiva questo secondo modello con il termine ‘Big Bang’, indicando così la grande esplosione che aveva dato origine all’universo.
Con il passare del tempo la teoria di Hoyle si mostrò molto lacunosa ed è oggi quasi dimenticata, mentre quella dell’‘istante iniziale’ è stata universalmente accettata e ha preso il nome, divenuto estremamente popolare, datole proprio dal suo oppositore.
La teoria del Big Bang nacque nel 1922 quando il matematico russo Alexandr Fridman derivò dalla relatività generale, enunciata da Albert Einstein nel 1916, una serie di possibili modelli che descrivevano il comportamento dell’universo nei termini di una espansione dello spazio che si sarebbe protratta all’infinito, oppure di una espansione a cui sarebbe seguita una contrazione che ne avrebbe percorso a ritroso le fasi.
In entrambi i casi, la soluzione matematica delle equazioni di Einstein mostra l’esistenza di un istante iniziale quando l’universo si riduce, appunto, alla ‘singolarità iniziale’ in cui la densità di materia diventa infinita; nel caso del successivo collasso sarebbe presente anche una ‘singolarità finale’. Per moto di espansione dell’universo si intende che la distanza tra due punti qualsiasi continua ad aumentare: non esiste un contenitore entro cui avviene l’espansione, è lo stesso spazio che si espande trascinando con sé la materia contenuta nell’universo. Nei modelli di Fridman, pertanto, l’universo ha avuto una origine ben determinata nel tempo, che ha dato luogo al Big Bang, per l’appunto. Questo termine può essere però fuorviante se inteso come l’effetto di una esplosione avvenuta in qualche luogo dello spazio.
Il concetto di universo in espansione – e quindi dinamico, in costante evoluzione e pertanto mai uguale a se stesso – rappresentò una vera rivoluzione in quanto fino ad allora esso era stato concepito in modo statico. Se l’espansione fu facile da accettare (già nel 1929 l’astronomo americano Edwin Hubble aveva scoperto che le galassie si allontanano ad una velocità direttamente proporzionale alla loro lontananza dalla terra, proprio come esige l’espansione dello spazio) ben più difficile, invece, fu darsi una spiegazione di un universo che inizia ad esistere in un ben preciso istante.
Allo stesso Fridman non sfuggirono le conclusioni a cui portavano le sue soluzioni. Egli parlò dell’età attuale dell’universo come del «tempo che è trascorso dal momento in cui l’universo è stato creato», rendendosi conto di essere così costretto ad introdurre il termine ‘creazione’, che nulla ha a che fare con il mondo fisico. George Lemaître, il cosmologo che unitamente ad Arthur Eddington applicò per primo i risultati dei modelli cosmologici alle osservazioni astronomiche indicanti l’espansione dell’universo, nel suo lavoro del 1927 espose un modello in espansione in cui, per evitare la singolarità iniziale, non c’è alcuna origine, poiché questa è stata spostata ad un tempo -∞: l’universo, cioè, è sempre esistito. Nel 1931 Eddington, uno dei più influenti cosmologi del suo tempo, così si esprimeva: «Filosoficamente, la nozione di un inizio che porta all’attuale ordine della natura è ripugnante». Lo stesso Einstein non accettava che si potesse dare un significato fisico all’istante iniziale dichiarando a Lemaître «Ne pas cela; cela suppose trop la création».
Il concetto di singolarità iniziale subisce profonde modificazioni man mano che si cerca di comprendere cosa accade fisicamente quando ci si avvicina ad essa. Si scopre così che nella storia dell’universo esiste una barriera situata a 10-43 secondi dall’inizio matematico, oltre la quale non siamo in grado di dare una descrizione di ciò che è avvenuto, perché non conosciamo la fisica che governa l’universo in queste condizioni estreme.
Vari sono stati i tentativi di rimuovere la singolarità iniziale: essa, infatti, implicherebbe una apparizione dell’universo dal nulla, elemento che non rientra nell’ambito scientifico in quanto il nulla non ha significato fisico bensì metafisico.
James Hartle e Stephen Hawking ipotizzano che, man mano che ci si avvicina all’istante iniziale, lo scorrere del tempo può essere immaginato come un ideale percorso sulla superficie di una sfera dove non esiste nessun inizio e nessuna fine. L’inizio dell’universo trova analogia in un punto di questa sfera, supponiamo il Polo Sud della terra, per cui chiedersi cosa c’è prima dell’inizio significa chiedersi cosa c’è più a sud del Polo Sud. Cosa priva di senso. Lo stesso problema è affrontato dal cosmologo americano Richard Gott, che afferma come sia impossibile concepire che l’universo sia nato dal nulla, dal momento che il nulla è per definizione qualcosa che non esiste. «Come fa il nulla ad essere al corrente delle leggi della fisica?» egli si domanda, e sviluppa una sua teoria su come l’universo possa creare se stesso. In questo tipo di universo il tempo avrebbe una struttura circolare per cui, riprendendo l’analogia con la superficie terrestre, chiedersi qual è il primo istante dell’universo equivale a domandarsi: «qual è il punto più a est della terra?». Ovviamente non c’è un punto più a est, si può continuare a girare attorno, e per ogni punto ci sono altri punti che sono più a est. «Cosa c’era prima del Big Bang?» si domanda Gabriele Veneziano, fisico, padre della teoria delle stringhe, cioè di quella teoria che assimila le particelle elementari a entità non più puntiformi, ma a corde unidimensionali infinitamente sottili e di lunghezza finita. E la risposta è un modello in cui il Big Bang non è l’origine ma una fase di transizione tra il prima e il dopo, evitando la singolarità iniziale. Cade così quello che Veneziano chiama «il mito dell’inizio del tempo».