CRAC

Non vi sono più dubbi, ragionevoli, sul fatto che il clima stia cambiando: c’è una crescita, misurata, delle temperature medie del secolo scorso; la superficie, misurata, dei ghiacciai è significativamente diminuita; gli eventi atmosferici estremi (come gli uragani) sono, annualmente, più numerosi e di maggiore intensità. Anche la concentrazione, misurata, nell’atmosfera di anidride carbonica e di altri gas che producono un noto e provato ‘effetto serra’, è in aumento nell’ultimo secolo e continua a crescere. Tale crescita è in stretta ed evidente dipendenza con la forte crescita del consumo di combustibili fossili: di petrolio, di carbone e di gas, impiegati nelle auto e negli autocarri, nella produzione di energia elettrica, nel riscaldamento e in tanti usi termici industriali. Sappiamo tutto dell’effetto serra: le radiazioni solari che arrivano sulla superficie terrestre con diverse lunghezze d’onda vengono riflesse con la lunghezza d’onda dell’infrarosso che viene trattenuta proprio da questi gas. Più aumenta la loro concentrazione, più calore viene trattenuto dentro l’atmosfera (come in una serra, appunto).

Certamente vi sono stati cambiamenti climatici naturali anche in altre epoche. Ma da quando è presente l’uomo sulla terra non ci sono mai stati cambiamenti climatici di questo genere (correlabili ad un aumento massiccio, e misurato, di emissioni inquinanti, causato dalla combustione di una così ingente quantità di combustibili fossili).

Ma fino a che punto è sopportabile per questo nostro pianeta l’aumento della febbre in corso? Fino a che livello può arrivare la crescita della sua temperatura media rispetto alla normale temperatura, quella dei secoli passati, dell’era preindustriale? Gli scienziati, concordemente, hanno indicato il limite di rischio di un collasso ecologico nella crescita di 2 gradi. Finché la temperatura media della terra cresce di 2 gradi, vi sono sì conseguenze per il clima, quelle che stiamo già vedendo e anche maggiori, ma non catastrofiche. Oltre i 2 gradi di aumento del febbrone destinato a durare diversi anni, il pianeta entra in una vera e propria crisi ecologica. Come? Come un organismo colpito da febbre alta e prolungata nel quale crollano le difese: l’assorbimento di CO2 dei sistemi naturali — oceani, suoli, foreste — diminuisce fortemente per l’aumento della temperatura e questa aumenta ancora di più, si sciolgono i ghiacciai dei Poli, si alza notevolmente il livello del mare sommergendo una parte consistente delle aree costiere, si scatenano eventi atmosferici estremi, si riduce fortemente la disponibilità di terre coltivate e la produzione agroalimentare. E che si dovrebbe fare per impedire che l’aumento della temperatura della terra superi quei 2 gradi? Anche su questo è stato scritto e detto tutto, dalle Nazioni Unite, dall’Unione Europea, dalle Accademie delle scienze di tutto il mondo: occorrerà tagliare le emissioni di gas di serra, entro il 2050, di almeno il 60-80%. In parole povere: tagliare il consumo di petrolio, di carbone e di gas, nel mondo, del 60-80% rispetto ai consumi attuali. Di questo si discuterà alla Conferenza delle Nazioni Unite di Copenhagen. Ovviamente per arrivare ad un taglio così consistente di emissioni e di consumi di combustibili fossili entro il 2050, occorre fissare una traiettoria a partire da ora, con tagli successivi per i prossimi anni, migliorando notevolmente gli impegni che erano stati già richiesti con il Protocollo di Kyoto.

Spero, ovviamente, che la trattativa per un nuovo, ed efficace, trattato internazionale per il clima vada a buon fine e che poi gli impegni presi vengano attuati da tutti. Ma non sono così sicuro che ciò accadrà, anzi, penso che si debba essere molto preoccupati. E non tanto perché è difficile raggiungere un accordo internazionale in una materia come questa: i Paesi sono diversi, c’è chi inquina di più, chi meno, c’è chi è più ricco, chi più povero. Trovare un accordo equo non è facile. E nemmeno perché vi sono gli interessi economici di chi guadagna producendo grandi quantità di emissioni di gas di serra: ci sono, ma sono una minoranza. Temo di più due difficoltà. La prima dipende dal modo con cui opera la gran parte dei politici (e dei governi): con una visione che si occupa sostanzialmente del periodo del mandato elettorale, fino alla prossima elezione. Tale periodo è relativamente breve e non coincide con i tempi e gli effetti della crisi climatica. Leggendo i giornali o ascoltando le dichiarazioni dei politici mi pare chiaro che la crisi climatica sia poco citata: certamente non rientra fra le priorità esplicitamente richiamate. La seconda ragione è più profonda ed è legata al modo con il quale noi esseri umani, e non solo, percepiamo e reagiamo al pericolo. Siamo pronti a reagire ad una minaccia presente della quale abbiamo una diretta e immediata percezione: come la preda pronta a fuggire all’arrivo di un predatore. Oppure ad una condizione di pericolo nota, già provata, ripetuta: sappiamo che in inverno fa freddo, e quindi ci prepariamo. Ma non siamo geneticamente preparati per affrontare un pericolo previsto, benché grave, ma futuro, del quale non abbiamo memoria, né come singoli né come specie. Ed è normale che sia così: il nostro organismo ha selezionato i pericoli ai quali prestare attenzione, per non dover stare sempre in tensione, per stare il più possibile tranquillo. Quindi potremmo correre il ‘rischio della rana’: una rana messa in una pentola di acqua fredda, poi riscaldata, si fa bollire lentamente, senza tentare di saltare fuori.

multiverso

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