CRAC
Fratture continue. Ovvero, della persistenza del cinema
di Francesco Pitassio
Crac. Il termine onomatopeico inglese (crack) rimanda a un campo semantico ambivalente, in cui l’incrinatura, la frattura, il collasso recano inscritte in sé la terapia: ‘to crack down’ comporta l’assunzione di seri provvedimenti, per porre probabilmente rimedio a quanto consegue a ‘to crack up’, un crollo. Non così nel cinema. Qui l’onomatopea rimanda immediatamente alla fenditura della pellicola mentre scorre tra i rocchetti di un tavolo di moviola o di un proiettore: suono secco e subitaneo, cui segue l’ancor più angoscioso sibilo di una parte del nastro che si srotola insensata, mentre l’altra sbatacchia con ottusa regolarità contro il primo ostacolo trovato sul proprio percorso rotatorio. Sicuramente quel primo rumore inequivocabile non contempla una soluzione immediata. Il posato archivista ha tempo e modo di giuntare i due monconi separati per maldestria dell’operatore o sfinitezza del supporto; diversamente, il malcapitato proiezionista alle spalle di un pubblico perplesso dovrà affannosamente restituire unità alla bobina, del tutto indifferente alle sorti del più recente e vicino artefice della sua gloria. Eppure, la frattura consente spesso la giuntura. Il crac di una proiezione digitale non ammette interventi di ripristino. E non fa alcun rumore.
I crolli comportano sempre un grado di prevedibilità. Poi accadono e non si peritano di risparmiare le proprie Cassandre. Lo scoprì nel 1929 il pur inquieto Groucho Marx. A proprie spese. Nel senso più letterale del termine: «Certi miei conoscenti persero milioni. Io fui più fortunato: persi solo duecentoquarantamila dollari (ossia centoventi settimane di lavoro a duemila a settimana). Avrei perso di più, ma quelli erano tutti i soldi che avevo. Il giorno convulso del collasso finale, il mio amico Max Gordon, già mio consulente finanziario e scaltro operatore, mi telefonò da New York. In cinque parole fece una dichiarazione che in futuro, penso, reggerà bene il confronto con le frasi più memorabili della storia americana. Mi riferisco a detti imperituri quali ‘Non mollate la nave’, ‘Non sparate finché non vedete il bianco degli occhi’, ‘Datemi la libertà o la morte’, ‘Ho solo una vita da donare alla patria’. Queste parole sprofondano in una relativa banalità accanto al motto lapidario di Max. […]. Disse soltanto: ‘Marx, la festa è finita!’. E prima che potessi rispondere riagganciò». Il capitolo precedente della esilarante autobiografia del marxista di tendenza groucho si intitola ‘Ricchi è meglio’. Non stupisce la lapidarietà della ricostruzione della crisi finanziaria.
Cosa accade quando il collasso repentino concerne un intero modello concettuale e progettuale? Quando la festa è davvero finita, e solo pochi imbambolati protagonisti ciondolano ancora per il locale? Il cinema ha conosciuto simili rovesci nel corso della propria storia: piccole crepe divenute cedimenti strutturali, o inevitabili ricostruzioni dalle fondamenta. Cionondimeno, ha saputo la più parte delle volte giuntare i frammenti separati, recuperare i fotogrammi in apparenza inservibili, serbare il segreto delle proprie storie in un racconto più grande della vita. Viceversa, quel che pervicacemente il cinema si ostina a rifiutare è una docile ubbidienza a progetti e utopie totalizzanti. Perciò appare tanto riottoso a sottomettersi alle richieste avanzategli da cineasti o intellettuali tra i più illustri, alternatamente desiderosi di compiere traumatiche palingenesi o salvaguardarlo da involuzioni dissipatrici.
«Noi riteniamo un’assurdità il cine-dramma psicologico […], appesantito dalle visioni e dalle reminiscenze dell’infanzia. […]. Noi dichiariamo che i vecchi film romanzati, teatralizzati e via dicendo hanno la lebbra. […]. Noi affermiamo che il futuro dell’arte cinematografica è la negazione del suo presente», tuonava nel 1922 Dziga Vertov con il suo gruppo di cineocchi. Ma uno sguardo anche distratto alle forme narrative del cinema contemporaneo difficilmente rinverrebbe la realizzazione di questa dirompente proposta, forse realizzata in altre sedi. Per converso, la profonda soluzione di continuità dovuta all’avvento del sonoro fu faticosamente assimilata da molti. Così nel 1929 giudicava Luigi Pirandello la trasformazione in atto: «Con la sua parola impressa meccanicamente nel film, la cinematografia, che è muta espressione di immagini e linguaggio di apparenze, viene a distruggere irreparabilmente se stessa per diventare appunto una copia fotografata e meccanica del teatro». Per fortuna, la pessimistica prognosi dello scrittore siciliano fu ben distante dal realizzarsi e il crac stesso di quella metamorfosi forse meno drammatico della sua rappresentazione cinematografica. L’esclusione professionale di John Barrymore in Colazione alle otto (‘Dinner at Eight’, G. Cukor, 1933), preludio al suo suicidio, pare più l’omaggio a un grande attore in declino per personali vicende, che un monumento a una generazione di interpreti esclusi dalla evoluzione tecnologica. La grottesca sopravvivenza di una generazione di manichini del Grande Muto nei saloni di Gloria Swanson in Viale del tramonto (‘Sunset Blvd.’, B. Wilder, 1950) profila meglio i timori dell’ambiente cinematografico dinanzi all’affermazione della televisione, anziché i caduti nell’avanzata inarrestabile del sonoro. Forse anche per questo l’attrice prediletta sul set da Cecil Blount De Mille e nella vita privata dal patriarca Kennedy pronuncia la apodittica battuta: «I am big, it’s the pictures that got small».
Nemmeno quella frattura si rivelò poi troppo scomposta, a differenza della reazione del cinema, attraverso un florilegio di innovazioni tecnologiche: Technicolor, Cinemascope, Cinerama, VistaVision, Dyaliscope, Sovcolor, 3-D… Lo aveva compreso a tempo uno dei grandi produttori di Hollywood, Darryl Zanuck, allorché nel 1953 commentava laconico: «Stranamente l’industria cinematografica sembra incoraggiare il pessimismo con molta più sollecitudine rispetto a quella che impiega per suscitare entusiasmo. […]. Riflettete un attimo sulla differenza che passa tra la visione di un film come La tunica su uno schermo televisivo di 24 pollici e lo stesso film proiettato su uno schermo venti o trenta volte più grande, e sarete colti con entusiasmo al pensiero che i film visti al cinema sono la miglior forma esistente di intrattenimento». La tunica è brutto su grande e piccolo schermo, a dispetto dell’ottimismo di Zanuck. Ma il cinema persiste ancora, al punto da tornare a gonfiare le sue immagini in tre dimensioni, nonostante apparenti crolli di sistema e di presenze. Lo ha ben presente la protagonista di Coraline e la porta magica (‘Coraline’, H. Selick, 2009): la proiezione può rivelarsi ben peggiore della realtà, e finire per crollare su se stessa.