CRAC
Il 9 novembre tedesco fra squarci e suture
di Liza Candidi T.C.
Può capitare che la Storia, nei suoi corsi e ricorsi, continui ad inciampare sempre in una stessa data, procurandosi profonde ferite. Nel calendario tedesco un fatale punto di non ritorno è il 9 novembre, noto in Germania come ‘il giorno del destino’ che nell’ultimo secolo ha più volte segnato drastiche rotture con il passato, cambiando radicalmente il corso degli eventi.
Il 9 novembre del 1918 viene destituito l’imperatore Guglielmo II, nasce la Repubblica di Weimar e, a distanza di poche ore, lo spartachista Karl Liebknecht proclama la ‘freie sozialistische Republik’ e l’inizio della rivoluzione internazionale. È pure il 9 novembre quando, nel 1923, viene sventato a Monaco il Putsch di Hitler e Ludendorff e, due anni più tardi, vengono istituiti i reparti di difesa delle SS. Sempre in quella fatidica data, nella ‘notte dei cristalli’ del 1938, si scatenano i pogrom nazisti con le prime deportazioni di ebrei. Lo stesso giorno del 1967 viene riconosciuto come l’inizio del dirompente Sessantotto tedesco: masse di giovani scandiscono slogan che infrangono il tabù del ricordo al nazionalsocialismo, incriminando un’intera generazione.
Il 9.11 che tuttavia rimane maggiormente ancorato alla memoria culturale, in Germania e nel mondo, è quello del 1989: la notte della prima breccia nel Muro di Berlino. Di lì a poco la dissoluzione di una DDR che fingeva di non accorgersi delle proprie crepe e l’‘annessione’ della Germania est alla Repubblica federale. La marcia funebre del secolo breve avanzava al ritmo cadenzato dei ‘picchi del Muro’, gli improvvisati scalpellini che frantumavano il simbolo stesso della frattura, quel ‘vallo di difesa antifascista’ che per ventotto anni aveva marcato la fisionomia della città.
Isolare Berlino ovest – «la più economica bomba atomica dell’occidente» (Ernst Reuter) – con 156 chilometri di cemento, alto più di tre metri, era per la Repubblica socialista la misura di sopravvivenza ‘necessaria’ che poneva fine alla continua fuga di cittadini e al rapido dissanguamento economico. La desolata striscia di confine, lo squarcio di terra nel cuore della città, era la dimostrazione di come «il vuoto, il nulla funzionasse con maggiore efficienza, finezza e flessibilità di qualsivoglia oggetto al suo posto» (Rem Koolhaas).
Dopo il 9 novembre, di quel nulla così ingombrante anche i più piccoli frammenti, benjaminiane ‘reliquie secolarizzate’, divennero in tutto il mondo ambìti oggetti da collezione. Nei mesi successivi, l’istintivo desiderio di normalità che percorreva una città provata da continui stati d’emergenza finì per cancellare quasi interamente il ‘confine della vergogna’. Della lunga ferita di cemento rimasero in tutto solo un paio di chilometri e appena cinque delle 302 torri di guardia.
Con il passare del tempo, però, il grande assente berlinese si fece sempre più sentire: accanto alla proclamata ‘necessità del ricordo’ vi era in realtà anche una pressante richiesta da parte di operatori turistici e visitatori delusi dalle tracce scomparse del simbolo della città. Così, a partire dalla svolta di millennio, finanziamenti pubblici sempre più generosi hanno reso nuovamente visibile quella frattura. Con non pochi sforzi, la capitale tedesca si sta trasformando in un grande mnemotopo del Muro, destinato ad attivare il ricordo della divisione e del passato oscuro della DDR, confermando, per converso, i saldi principi democratici del presente.
Se il passato nasce da una «rottura profonda della continuità e della tradizione» (Jan Assmann), il 1989 ne ha generato almeno una doppia linea: la memoria del sistema dittatoriale – veicolata dalle istituzioni, dai libri di scuola e dai musei – e quella privata, radicata nelle esperienze personali e trasmessa all’interno di gruppi che condividono la stessa socializzazione. In un passato che si nutre di molteplici narrazioni parallele, anche la frattura del 9 novembre viene definita con diversi nomi. Da una parte, istituzioni e media si riferiscono puntualmente alla Friedliche Revolution, la rivoluzione pacifica che ha portato al crollo del Muro, sottolineando così l’aspetto consensuale e la volontà collettiva sottesa alla riunificazione. Dall’altra, la popolazione tedesco-orientale parla di Wende, ‘svolta’, un termine che viene accuratamente evitato nelle comunicazioni ufficiali perché, oltre a risalire a un’espressione di un politico della DDR, si riferisce a una frattura biografica radicale, una sorta di cambiamento subìto, che tende a rimarcare anche ciò che della riunificazione non ha funzionato. Numerosi sono i falliti tentativi di sutura fra l’est e l’ovest tedesco – tanto che l’espressione ‘Muro mentale’ non è ancora caduta in disuso – e numerose anche le potenzialità che dell’89 sono rimaste inespresse o non si sono volute cogliere.
Eppure quel 9 novembre – preda fin troppo facile di retoriche sulla libertà e sulla democrazia – resta nell’immaginario comune come ‘il giorno più entusiasmante della storia contemporanea’ e ‘l’avverarsi di un sogno’ per milioni di tedeschi, e non solo. Quella frattura, così fragorosa da anticipare la svolta di secolo, rimane legata soprattutto al ricordo della speranza che ogni cosa, di lì a poco, sarebbe cambiata in meglio. Ciò che in realtà oggi si commemora non è che l’inebriante ottimismo prima del disincanto, la sincera convinzione che il futuro, allora, poteva essere ancora inventato. In barba ai ricorsi della storia.