CRAC
La crisi è finita. La silenziosa catastrofe della tipografia
di Sergio Polano
L’invenzione di Gutenberg, alla metà del Quattrocento, ha trasformato radicalmente la tecnologia di produzione, replicazione e conservazione dei testi, in particolare librari, epperciò della cultura umana in senso ampio. Alla chirografia, la scrittura naturale tracciata manualmente, formatasi lungo un arco di quasi tre millenni (attraverso itinerari assai complessi) e fissatasi in Occidente nel repertorio alfabetico latino – di straordinarie prestazioni, in rapporto all’economia dei mezzi –, si affianca allora la scrittura artificiale della ‘bottega gutenberghiana’, la tipografia. Ben presto, la macchina sostituisce la mano (salvo negli usi privati, seppur in via di lentissima progressiva estinzione, a favore delle dattilografie), dando vita alla moderna civiltà libraria, con le sue straordinarie conseguenze culturali, tutt’oggi attive, e fornendo un precoce modello di processo industriale.
Il tipo con cui si artificia la scrittura (donde il nome di tipografia) è un blocchetto di lega di piombo – standardizzato e interscambiabile – che sulla faccia imprimente presenta una lettera (un carattere o, comunque, un segno) in rilievo. Abilmente accostati specularmente in righe i tipi e le righe in colonne, si realizza una forma da stampa che, opportunamente inchiostrata, viene pressata sulla carta, componendo una pagina e così via, fino a completare il processo di trasferimento dalle forme alle copie cartacee, prima delle diverse finiture e allestimenti, a seconda della natura degli stampati.
Più o meno per cinque secoli la tecnologia della ‘bottega gutenberghiana’ è rimasta sostanzialmente inalterata, raffinandosi al contempo in tutte le sue componenti, non ultimi i tipi, le cui forme alfabetiche mutano lentamente in sintonia con le estetiche contemporanee, nelle mani sapienti di personaggi quali Griffo, Garamond, Baskerville, Bodoni… per non citare che alcuni dei più noti. Per tutto quest’arco di tempo, il disegno dei tipi (per secoli, più correttamente, l’incisione dei punzoni, da cui si traggono le matrici dei tipi, con un repertorio ben più ampio dei soli segni alfabetici) resta una professione altamente specialistica. Sono necessari, infatti, oltre all’afflato artistico, non solo eccezionali competenze tecniche ma anche una perfetta comprensione dei meccanismi fisiologici di lettura e un particolare talento nell’apprezzare sia la congruenza tra i segni nelle diverse serie, sia le sottili correzioni da apportare al variare delle loro dimensioni (i corpi), per mantenerne la coerenza percettiva. Insomma, un mestiere di pochi, se non per pochi. Dalla seconda metà dell’Ottocento, la tecnologia tipografica conosce radicali rinnovamenti, pur restando sempre ancorata a un processo caldo, fondato sulla fusione del piombo, ma nel corso del Novecento si avviano e si avvicendano tecnologie nuove, che finiranno per soppiantarla. Senza entrare nel dettaglio di queste vicende, basti sapere che al loro termine, con l’avvento ecumenico dell’informatica applicata ai computer, dagli anni Novanta del secolo scorso, ancora una volta all’egida di una affermazione tecnologico-produttiva precoce, il piombo è scomparso e con esso i tipi, in senso proprio: il processo si è fatto freddo, i bits hanno sostituto gli atomi, le cassettiere dei caratteri son diventate dei files. La rigida fisicità monogrammatica delle forme impresse ai piombi è stata sostituita da una elastica definizione geometrica (tramite uno specifico page description language, il Postscript) dei contorni dei segni che, attraverso successivi passaggi, dalla virtuale rappresentazione a schermo delle pagine si trasferiscono sulla carta. Il tracciamento delle serie dei segni da stampa è ora affidato a specifici programmi di disegno vettoriale, relativamente semplici e poco costosi, potenzialmente adatti alle mani di chiunque, competenze e talento a parte. Le forme dei tipi di piombo sono state in buona parte trasferite nel nuovo ambiente tecnologico (e ben si sa che ‘traduzione fedele’ è un ossimoro, non solo in letteratura) e ne sono stati disegnati vettorialmente in quantità senza precedenti – a decine di migliaia quelli amatoriali –, in una sorta di imprevedibile rinascimento del disegno di lettere, non privo di valenti interpreti attuali, autori di (poche) fortunate serie di caratteri propriamente digitali.
Ergo, siamo ormai a valle di una crisi senza precedenti nella storia della scrittura artificiale, che da tipografica si è fatta ormai compiutamente digigrafica. Una catastrofe silenziosa, trascorsa senza quasi esser stata colta, se non in ambiti specialistici, tant’è che continuiamo a parlare di tipografia a proposito di stampa, impropriamente ma a buon senso comune. Nel frattempo, oltre alla carta, si sono manifestati anche nuovi altri supporti per la scrittura, a cominciare dalle varie sorti di interfacce che – dai monitor dei computer agli schermi dei telefonini – accolgono messaggi grafici, a cui si sono dovuti adattare malgré soi i caratteri (nonché grammatica e sintassi), ponendo problemi nuovi e difficilmente risolubili di lettura, superati solo dall’abitudine e dall’adattamento – come insegnano gli sms. Il corretto uso di lettere e segni (a cominciare dagli accenti e dagli apostrofi), l’esercizio paziente di equilibrio nero/bianco tra lettere parole righe nelle pagine, le sottili accortezze delle correzioni ottiche al variare dei corpi e, in breve, un insieme peculiare di accorte e pazienti pratiche hanno fatto della tipografia ‘arte della stampa’ e della mise en page in secoli di composizione testuale. Tanta sapienza visiva, accumulata dalla tipografia in un tempo lungo della storia, appare oggi potentemente diluita (e forse in via di evolutiva estinzione, per molti aspetti) nella pratica corrente, in palese antinomia con gli strumenti a disposizione: mai si è potuto disporre, per la scrittura artificiale, di mezzi e di controlli tanto sofisticati (quali gli attuali digitali), quanto apparentemente inutili e certissimamente sottoutilizzati.
La crisi è finita, le contraddizioni restano.