CRAC

Crac: che cosa avviene quando l’imprevisto irrompe in uno schema e lo fa saltare? Al centro di ogni esperienza di fede, e dunque nel cuore di un cristiano sta proprio un fatto così. La più sconvolgente delle irruzioni («E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi…», Gv 1, 14) segna la vita personale così come ha segnato la storia, mette in crisi lo schema religioso precedente, moltiplica i suoi effetti, provoca ed esaspera situazioni di rottura, avvia processi di rinascita ma anche rifiuti e lontananza.

Sono prete. Come prete ‘subisco’ e conosco quella irruzione, con le fratture che comporta; la rivedo e le rivivo ogni giorno nell’incontro con vite fratturate. Sono obbligato al confronto fra ciò che si era e ciò che si è, fra ciò che ero e ciò che sono.

Sono prestato alla scrittura. Il mio primo mondo, brodo primordiale, in paese e in famiglia, era legato al linguaggio del ‘cuore’ (in senso biblico), alle sue risonanze affettivo-emotive. Quello religioso proveniva da lì ed era così intimo, personale, familiare, comunitario che sembrava capace di rimandare alla Sua ‘presenza’ in ogni momento. Il linguaggio della parola, della parola scritta, della parola fatta verbo è cresciuto più tardi come una necessità esterna e dunque come costruzione. Mi hanno sempre incantato le costruzioni, costruzioni di ogni genere: meccaniche, edili, teologiche.

In casa c’erano due mondi che convivevano; i miei conoscevano e praticavano la terra, mio zio e la sua famiglia erano fabbri, con officina annessa a casa nostra. Eravamo una casa allargata, non un condominio; una casa di tredici persone. I grandi trattori con la loro proboscide meccanica da riscaldare nella mattine d’inverno con la fiamma ossidrica perché potessero ripartire, sostavano in tutta la loro bellezza e forza nel nostro cortile: i Landini, David Brown, i Nuffield, i Ferguson; mio zio fabbro era il loro mentore.

Sono divenuto uomo della parola per vocazione e costruzione. L’essere prete comportava la lunga attraversata dal silenzio alla parola per fare di questa un evento. La figura di Gesù a casa mia è stata familiare ed esercitava in tutti un forte fascino, insostituibile nel silenzio, nella prova, nella felicità. Attorno e dentro la sua storia ruotavano le nostre vite. Nessuno è stato così presente. Il denaro è stato un assente non troppo temuto perché eravamo convinti che ci fosse un’assenza-presenza provvidenziale. Il Suo agire non era comprensibile in diretta; c’erano solo piccole tracce che ci impegnavamo e ci divertivamo a cercare. In differita, non sempre, si componevano le tessere del disegno. Eravamo convinti che Lui ci amasse da sempre: prima durante e dopo il nostro essere qui. Ciò rendeva le nostre esistenze, altrimenti piccole e impaurite nell’incontro con altri molto più scaltri di noi, forti, tenaci e ostinate nel comprendere qual era il nostro posto e nell’esservi fedeli. Di Gesù ho appreso dai primi vagiti. Nulla di Lui mi sembrava estraneo e Lui riempiva ogni cosa. Religione e fede vivevano una profonda mutualità. Le fratture sono venute dopo. Allora i riti religiosi facevano da contenitore all’incandescenza della fede: coinvolgevano e accompagnavano al mistero.

La crescita ha comportato cambi di luoghi, di appartenenze, di modi di produzione, di modelli culturali. Alcuni sono venuti meno con fragore interiore, rotture radicali, altri con linearità evolutiva.

Nella frequentazione scolastica durata oltre cinquant’anni in due condizioni opposte (studente/insegnante) mi sono trovato accanto persone che avevano molta consonanza con la testa e con i suoi percorsi logico-formali, ma il loro cuore mi sembrava rimanesse freddo, le ‘viscere’ assenti. Chi usava bene la ragione, la ragione dialettica/dialogica e contabile, godeva di molta considerazione in seminario. Il cuore era avvertito con forte sospetto, il ‘sentire’ delle viscere veniva negato perché attribuito al femminile e alle specie inferiori. Eravamo educati al logos, alle sue costruzioni, alle formalizzazioni spinte. La fede era un fragile dono capace di farci compagnia quando venivano meno le altre.

Finalmente la teologia, le sue costruzioni. All’inizio le categorie metafisiche sembravano mostrare la loro assoluta necessità nel confessare la fede, ammoniti da Aristotele («La meraviglia è la condizione essenziale per il cammino verso la saggezza», I libro della Metafisica); gli approfondimenti esegetici e storico-teologici ci hanno immerso nel mondo greco, in quello latino, slavo. Ci hanno posto di fronte ai concili e al nuovo concilio (luoghi di continuità, di sintesi ma anche di rilancio dell’inculturazione della fede), al mutare dei paradigmi, da quello apocalittico-riformatore, a quello illuministico moderno, a quello ecumenico contemporaneo. Da una parte la sostanza permanente della fede, il messaggio, Gesù Cristo. Con Lui la svolta nella storia di Israele e dunque lo specifico cristiano: «Gesù come Messia e Figlio di Dio». Dall’altra, il ‘dirlo’ dentro la mutevole costellazione, con i suoi crac storici, di convinzioni, valori, comportamenti comunitari.

La comprensione dunque, interessante e dolorosa (poche volte gioiosa) che l’annuncio implica una conoscenza profonda dei contesti vitali: il tempo di Gesù e il tempo nostro (in qualche modo inaccostabili e ‘intraducibili’); e il coinvolgimento di tutto di sé, mente, cuore, viscere. La convinzione, poi, che è impossibile storicamente raggiungere Gesù, anche se la fede della comunità in Lui non solo lo ammette, ma lo esige. E più profondamente le relazioni di intimità con il Cristo della fede e il ‘sentire’ la sua presenza travestita e mimetica nei poveri, così che più ricco e intrigante è il suo raggiungerci. Si procede, nella fede, per andata e ritorno: si parte dalla storia e si arriva a Lui, si parte da Lui e si arriva alla storia.

In questo percorso che lo accosta e lascia spazio al Suo accostarsi possono verificarsi gli spaesamenti più profondi, le rotture più accentuate. Si accosta il suo mondo e si sfaldano precedenti equilibri. Nessuna scalata fino a dio come il mondo greco ha da sempre dichiarato; esercizio per pochi, rigorosamente selezionati per capacità intellettive e abilità rampicanti. Lui invece germoglia là dove c’è obbedienza, ossia ascolto radicale, fino a permettere all’Altro di farsi carne in un grembo di donna. Alla ‘purezza’ della fede facevano riscontro i tradimenti storici della religione. Prima grave frattura; per alcuni la rottura definitiva dell’esperienza religiosa, l’abbandono. E poi di seguito le altre.

Non si sale a Dio; Dio discende là dove gli si fa posto. È stato accolto dai ‘non-accolti’, dai pastori, dai senza fissa dimora, dai lavoratori a tempo. Coloro che raccontano Dio (scribi, farisei) da subito gli impediscono di attecchire tra loro. È profugo in Egitto, antica sede della malattia storica di Israele, del suo incattivimento/prigionia. Lui/il Figlio di Dio viaggia a rovescio. Una signoria rovesciata, vicina ai lontani. Tale prossimità, dopo trent’anni di silenzio, si struttura. Il figlio del falegname sceglie la compagnia dei movimenti riformatori (esseni) che hanno rotto con la religione tradizionale del Tempio; non la città trono di Dio, Gerusalemme, ma la depressione del Mar Morto, lungo il fiume Giordano: prima esperienza di inabissamento/kenosis nella storia del suo popolo: una lunga fila per un battesimo di immersione. Tutto questo non gli sembra sufficiente. Quello è il posto di Giovanni. Altra rottura con il suo parente-cugino perché quel suo battesimo d’acqua non apre, non include, ma esclude, «La scure è posta alla radice degli alberi; chi non porta frutto viene gettato nel fuoco» (Lc 2,9). Non è la strada di Gesù. Il Dio del Battista ammette un Amore solo per i convertiti. Nessun profeta è stato come Giovanni Battista; ma il più piccolo alla sequela di Gesù è più grande di lui. Si procede, con il fiato sospeso, per aperture, non per respingimenti. Dunque l’incontro di Gesù con il suo paese, la sinagoga di Nazareth e quella di Cafarnao, luogo di residenza da adulto. La sua presenza lì suscita fascino e ostilità, guarigioni e repulsioni. Pensano di buttarlo giù dalla montagna: ma non è giunta l’ora. Le sue rotture inclusive generano separazioni sempre più convinte negli uomini di Dio. L’intero edificio teologico sembra compromesso: non è l’uomo per la legge/sabato, ma il sabato per l’uomo. L’intimità con Dio non può tradursi in esibizioni e spettacolarizzazioni religiose. Non si può praticare la giustizia davanti agli uomini per essere da loro ammirati: Quando fai l’elemosina non suonare la tromba… La sinistra non sappia ciò che fa la destra… Quando pregate non fatelo davanti agli altri… Quando digiunate, non diventate malinconici… Vi è stato detto occhio per occhio dente per dente… voi amate i vostri nemici, fate del bene a quanti vi odiano… (Mt 6,7). Rottura estrema del modello del clan a firma religiosa. Il Dio testimoniato da Gesù non può rassegnarsi di fronte alla malattia dell’anima, che implode a causa dei sensi di colpa dovuti ai propri fallimenti, alle angosce per le relazioni infrante che si raccontano nei corpi schiacciati a terra, paralizzati (paralitici), incapaci di parlare (muti) per l’inabilità all’ascolto (sordi) e a vedere alcunché attorno a sé (ciechi). La presenza di Gesù svela separatezze attribuite abusivamente a Dio stesso: giusti/peccatori, sani/malati, credenti/non. Rimette in gioco Dio e la sua forza capace di sanare l’anima (rimette i peccati) e dunque di liberarla alla sua verità (aletheia) permettendole di uscire dai suoi nascondimenti (letheia). Il perdono rimette in sesto i corpi, li ripristina alle relazioni, li riconsegna a sé e alla comunità. Libera Dio dal suo ufficio di giudice garante di leggi ad personam (disgrazie per molti, fortuna per pochi, per i soliti noti). Restituisce a Dio il suo essere includente e creativo: Padre che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.

Gesù crede che si possa dire Dio solo in questo modo.

Si va infine verso Gerusalemme. Dichiara per tre volte che quella città santa vedrà il fallimento del Messia spettacolare, vincente, trionfante. I suoi non capiscono. Andare a Gerusalemme e prendere parte agli ultimi eventi della sua esistenza sottoporrà tutti a ripensamenti così profondi al punto da perdersi (uno si suicida) e da disperdersi (gli altri se ne tornano alle loro case, tristi). Fine della comunità psichica dei discepoli, inizio di una comunità pneumatica, sotto il segno del doppio stordimento: quello, da un lato, della capacità di male che cova in ognuno, si struttura (male ancora più grande) e crocifigge il giusto; quello della grazia dello Spirito che da sempre rianima le ossa inaridite (Ez 37; Lc 24).

Salire in verità – ecco la rottura definitiva – è discendere negli inferi, nella parte oscura, malata dell’umanità, della sua storia, per Amore. Quella parte può essere redenta solo se assunta: «Là dove abbondò il peccato sovrabbondò la grazia» (Paolo di Tarso). Si può morire per amore e da crocifissi, per aver insegnato, testimoniato che non ci sarà mai morte definitiva per chi ama al punto da perdere la sua vita: «Chi vive e crede in Lui non morirà in eterno» (Gv 11). Un amore che include anche la morte e i morti. Nella fede si sperimenta, a tratti e a intermittenza, una gioia inespugnabile e contaminante.

multiverso

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