CRAC
Oltre il crac. Distribuzione del rischio e condivisione della conoscenza
di Enzo Rullani
Francesco Marangon intervista Enzo Rullani
Marangon. ‘Crac’ è un’onomatopea che troviamo spesso nei fumetti: la parola ci avverte che qualcosa si è rumorosamente rotto. Mentre, però, nel mondo della fantasia il disegno può facilmente ricomporre quel che è accaduto, nel mondo reale tutto è più difficile. Tant’è che crac è entrato nel linguaggio figurato per indicare un crollo improvviso, una crisi, un fallimento, una rottura, una rovina.
Quando parliamo di questa crisi, parliamo propriamente di crac? e se sì, quale paradigma si è rotto?
Rullani. Crac è una parola dal significato preciso: rimanda a qualcosa che si rompe e che lo fa in modo improvviso, con molto rumore; a qualcosa che sembrava solido, rigido, resistente fino a che, sotto la pressione di una forza esterna, fa ‘crac’, appunto.
Si usa questo termine, in effetti, per un’azienda che fallisce, o per un progetto che implode. Ma anche la ‘bolla’ della speculazione finanziaria che, dopo essersi gonfiata, ad un certo punto scoppia con grande rumore, richiama l’idea del crac. Anche se, in questo caso, il botto non deriva da una ‘falsa’ solidità che, ad un certo punto, cede, ma da una brama di smisurata espansione, condannata – prima o poi – ad auto-distruggersi.
Marangon. E la crisi che stiamo attraversando può essere pensata come un crac?
Rullani. Sì e no. Diciamo che da molti è stata vissuta come un crac, anche se non lo è.
Molti hanno infatti visto in questa crisi la rottura – annunciata o imprevista, non importa – di uno stato di equilibrio che in precedenza era, per sua natura, stabile. Un equilibrio su cui si poteva contare fino a che qualche forza esterna non l’ha manomesso. Ma – proprio perché la causa è esterna o accidentale – alla fine, passata ‘la nottata’, il mondo tornerà al suo stato normale e la storia riprenderà dal punto in cui era arrivata prima del crac, appunto. È un po’ come quando una malattia colpisce un organismo sano: lì per lì lo debilita e lo mette a letto, col febbrone. Ma poi – con gli opportuni rimedi – la malattia passa e l’organismo torna sano e stabile come prima.
In questo modo di guardare alla crisi vengono trasmessi due concetti, ambedue rassicuranti: prima di tutto, la convinzione che la crisi sia provvisoria (niente paura, tutto tornerà come prima, basta aspettare che passi). E poi che, nonostante tutto, il capitalismo attuale sia un sistema ben funzionante, messo a terra da un acciacco temporaneo, da un errore di guida, o da qualche ribalderia dei soliti furbi. Niente di grave, e di irreversibile. Prima o poi, il malato tornerà in salute, grazie al tempo e a qualche ‘regola’ in più, volta ad impedire i comportamenti distratti, azzardati o truffaldini.
Uno schema che fa ben sperare (abbiamo la medicina giusta per far guarire il malato), ma che, a ben guardare, non corrisponde al vero. Per due ragioni.
Prima di tutto, dalla fine del fordismo in poi (anni Settanta), la crisi è stata un evento ricorrente, niente affatto eccezionale. Ne abbiamo infatti avute parecchie: all’incirca una ogni cinque-dieci anni. Per restare all’ultimo periodo, sarà bene ricordare che, in Italia, eravamo in crisi nei primi anni Novanta, poi – dopo la miracolosa guarigione dovuta alla svalutazione della lira – abbiamo subito, come gli altri, la crisi globale della new economy alla fine del secolo. Nel 2001 ci sono state le Twin Towers, con le conseguenze che sappiamo, e poi, dopo la rapida ripresa a metà del decennio, è scoppiata nel 2007 la bolla finanziaria/immobiliare. Oggi siamo qui a pensare a come uscirne: la finanza sta già immaginando un altro periodo d’oro per le quotazioni e i profitti che scommettono sul futuro, ma già sappiamo che la bolla non durerà in eterno: davanti a noi ci sono altri ‘boom’ e ‘sboom’ da mettere in conto.
Da notare una cosa: i periodi tra una crisi e l’altra non sono stati di stagnazione ma di crescita – anche eccessiva, fino ad essere insostenibile – sia delle quantità che dei valori. La bolla prima si forma e poi si sgonfia, disegnando un ciclo ricorrente.Dunque – ecco la seconda ragione per cui non basta parlare di crac – non abbiamo di fronte un sistema ‘sano’ temporaneamente azzoppato; ma un sistema strutturalmente instabile, che fa crescere quantità e valori fino a livelli elevati per farli poi precipitare, nel momento in cui le aspettative di futuro si rivelano insostenibili o non credibili.
È l’instabilità che va spiegata, non il crac estemporaneo. E nell’instabilità dobbiamo imparare a vivere, senza farci troppo male, nei prossimi decenni: la cura somministrata per guarire dal crac non cura dall’instabilità. La polmonite non guarisce prendendo l’aspirina che abbassa la febbre.
Marangon. Nell’autunno del 2008, di fronte ai crolli delle borse, ai grandi fallimenti in America, alla chiusura delle prime fabbriche si diceva che, comunque sarebbe andata, nulla poi sarebbe più stato come prima: le speculazioni, le bolle finanziarie, i consumi… Le prime avvisaglie di ripresa, però, indicano che così non è, che non stiamo imparando e che tutto sta ritornando esattamente come era. Usando le sue parole, allora «davvero bastano le ricette della nonna per rimettere insieme la maionese impazzita»?
Rullani. Le ricette della nonna sono quelle keynesiane tramandate da una situazione che risale a quasi un secolo fa. E che era diversa da quella di oggi. Per questo, non basterà a curare la crisi attuale il fatto che le banche centrali del mondo abbiano inondato l’economia di moneta e di spesa pubblica, per tenere alta la domanda, sostenendo i conti di imprese e banche in difficoltà. L’aspirina abbassa la febbre, ma non cura la malattia che, come abbiamo detto, non è il (temporaneo) collasso della domanda, ma la condizione di rischio creata dall’instabilità dei valori e delle quantità.
La domanda non può essere ‘drogata’ in eterno dal gonfiamento artificiale delle disponibilità di spesa, la cui azione si limita a creare le convenienze di breve periodo. Ma, per quanto abbiamo detto, il problema strutturale che abbiamo di fronte è un altro: si tratta di ridurre i rischi che, in un sistema instabile, limitano l’investimento e l’innovazione a lungo termine. O di riprogettare la ‘macchina’ dell’investimento e dell’innovazione in modo che possa funzionare anche in condizioni di elevata incertezza e instabilità.
Per questo bisogna consegnare la ricetta keynesiana della ‘domanda effettiva’ al suo momento storico, invece di renderla rimedio universale, in polemica con l’altra soluzione salvifica, il ‘libero mercato’.
Torniamo ab ovo, all’epoca in cui la cura keynesiana della domanda venne messa a punto. C’era allora il fordismo e la crisi del 1929, con recessione successiva (anni Trenta), aveva una genesi molto diversa da quella che sta dietro la crisi attuale. Per far funzionare a pieno regime il paradigma fordista il problema chiave era infatti di tipo quantitativo: i mercati soffrivano di una cronica carenza di domanda, perché il sistema – perfettamente in grado di accrescere con i suoi mezzi l’offerta in termini di produttività e produzione – non aveva strumenti sufficienti a far crescere, in parallelo, la domanda.
Chi avrebbe comprato le tante automobili messe sul mercato dalla formidabile linea di produzione ideata da Henry Ford, se gli stessi lavoratori che le avevano prodotte non avevano abbastanza soldi per poterle acquistare?
In presenza di un’offerta auto-propulsiva che aumentava le quantità, la crisi derivava allora dalla incapacità di accrescere anche la domanda: una incapacità non casuale, ma dipendente dal funzionamento delle istituzioni del libero mercato ereditate dal capitalismo mercantile dell’800. Se il mercato viene lasciato a se stesso, infatti, i soldi vanno a chi presidia funzioni e posizioni ‘forti’, o di rendita: non a chi comprerebbe volentieri beni di consumo o farebbe volentieri investimenti. Per sbloccare la situazione di stallo che si era venuta a creare serviva una cosa sola: un travaso consistente di reddito a favore di tutti coloro che potevano tradurre i soldi disponibili in qualche forma di domanda, rendendo così stabili e crescenti nel tempo i flussi produttivi in uscita dalle fabbriche.
Si è trattò non di aspirina, ma di una cura vera. La legittimazione del sindacato (una volta considerato una forma di monopolio) consentì un po’ in tutti i Paesi una massiccia redistribuzione del reddito a favore di lavoratori ben contenti di alimentare la domanda. Lo stesso fece la crescita della spesa pubblica destinata al welfare, realizzata in quegli anni.
Se il male, allora, era l’eccesso di offerta, la sua cura non poteva che essere la crescita della domanda, garantita dalla redistribuzione del reddito tramite salari e welfare. Tra cura di lungo periodo e cure di emergenza non c’era discontinuità: a lungo termine, il rimedio era il rafforzamento dei soggetti che garantiscono la domanda; nel breve, se – per qualsiasi motivo – la domanda diventava temporaneamente insufficiente, la ricetta keynesiana è semplice e lineare: toccherà allo Stato ‘anticipare’ in qualche modo la domanda privata che non si manifesta sul mercato.
Ecco la ricetta della nonna: curare la crisi della domanda, per rimettere insieme la maionese impazzita. Ma questa ricetta keynesiana – che è stata usata anche adesso per tamponare l’emergenza – non cura le cause della crisi di oggi, ne tampona solo gli effetti. Perché la nostra crisi è una crisi dovuta non alla mancanza di domanda effettiva, ma alla instabilità dei valori, che – quando le aspettative sul futuro si sono fatte buie – ha messo in fuga gli investimenti, ha indotto la gente a rimandare gli acquisti rimandabili e ha messo milioni di persone in condizione di attesa. Insomma, il fattore squilibrante non è – come in passato – l’eccesso (quantitativo) di offerta, ma l’eccesso di complessità, ossia di rischio, che i soggetti incontrano nella costruzione del loro futuro.
È l’instabilità dei valori che rende precaria la connessione tra domanda e offerta, creando situazioni di sovracapacità dell’offerta e di ritirata della domanda – quando si prevede che il valore assegnato al futuro sia in flessione – e il fenomeno opposto, quando si prevede, invece, che il mercato sia in una fase di attese crescenti. Soprattutto, l’instabilità rende pericoloso investire in innovazione, e dunque nell’aumento della produttività, se i frutti di quanto si fa oggi sono proiettati in un futuro imprevedibile e fuori controllo. È questo il nucleo duro della crisi di oggi: la paralisi che coglie gli animal spirits delle imprese e della gente.
Tuttavia la sindrome da instabilità è difficilmente curabile perché essa non dipende da cause esterne od occasionali, ma è strettamente connessa al funzionamento dell’economia della conoscenza di oggi. Da un lato perché il valore della conoscenza non è ancorato a qualcosa di solido e di resistente, ma riposa interamente sulle aspettative future: può essere zero, se quanto si sa fare viene copiato o se si pensa che sia in arrivo una conoscenza migliore; può essere un miliardo, se invece si pensa di riuscire a mantenere il monopolio di una soluzione tecnica, di un significato commerciale, di una relazione distintiva col consumatore, replicando questo vantaggio su un bacino potenziale di uso molto esteso: e la globalizzazione, non dimentichiamolo, sta espandendo di 3-4 volte il bacino delle conoscenze presenti nel mondo, ossia sta espandendo la loro produttività potenziale del 300-400%. Un’enormità. D’altra parte, per conseguire questi grandi moltiplicatori nel riuso globale della conoscenza, abbiamo chiamato a far parte del nostro mercato giganti low cost come la Cina, l’India, la Russia, il Brasile ecc., cosa che di per sé destabilizza gli equilibri esistenti non solo sul fronte delle materie prime, dell’energia, del clima ma anche su quello della competitività dei diversi settori e delle diverse global value chains, a scala mondiale.
Abbiamo portato l’elefante nel negozio di cristallerie: che cada qualche pezzo pregiato, andando in mille pezzi, fa parte ormai della norma. Con questo dobbiamo imparare a convivere.
Ecco da dove nasce l’instabilità dei valori. È la dilatazione continua della complessità e del rischio del capitalismo globale della conoscenza, in espansione, che prima – quando le cose sembrano andare bene – dilata i valori e poi li sgonfia di colpo, mandando in corto circuito anche i flussi delle quantità (ordini, fatturato, occupazione, consumi).
Marangon. E allora che cosa si può fare?
Rullani. Se vogliamo curare la malattia (l’instabilità, e il conseguente eccesso di complessità e di rischio), agire sui sintomi (il deficit di domanda) non basta più: la ricetta keynesiana abbassa la febbre ma, come abbiamo detto, non cura la malattia.
Un rimedio efficace è quello che – cambiando i termini del problema – trasforma lo spazio di ambiguità e di incertezza dovuto all’eccesso di complessità in una fonte di libertà, di sperimentazione e di scoperta. Ossia di valore per i consumatori che ricevono il frutto di questa esplorazione del nuovo e del possibile. E, nel momento in cui i consumatori pagano questo risultato, la complessità e il rischio da esplorare diventano fonte di valore anche per le imprese delle filiere, impegnate nel progetto, e per le persone che ci lavorano.
Perché imprese e persone possano convivere col rischio è necessario trovare il modo di condividere i costi e i benefici dell’esplorazione, in modo che non ci si trovi a giocare d’azzardo col futuro, rischiando il tutto per tutto da soli. O, peggio, giocando una partita sporca per cui se le cose vanno bene, alcuni si portano a casa i profitti, se vanno male ci rimetterà qualcun altro – il più debole o lo Stato – e peggio per lui. La riforma che serve è quella che mira a condividere il rischio distribuendolo, ex ante e consensualmente, tra i diversi soggetti che accettano di andare avanti insieme, esplorando la complessità, per costruire un futuro comune. Soggetti attivi su questo fronte possono essere le persone che partecipano alla vita dell’impresa, ma anche gli operatori che sono presenti nelle diverse filiere, i cittadini dei territori, i membri delle sempre più numerose comunità di senso che costellano il panorama semantico di oggi, le città. O anche intere nazioni, che creano istituzioni di condivisione/distribuzione del rischio tra le diverse categorie sociali.
Dietro questa soluzione c’è la riscoperta dei significati e dei legami che tengono insieme i diversi soggetti presenti nelle imprese e che collegano le imprese alla società retrostante.
Senso e legami sono la premessa del valore, quando si cerca di trasformare la complessità libera in valore. Le imprese, ad esempio, sono fatte di persone che contribuiscono in varia misura alla loro prosperità. In che misura queste persone sono sollecitate a sperimentare il nuovo, entro una cornice che distribuisce equamente e preventivamente i rischi relativi a tale sperimentazione, che – se riesce – porta benefici a tutti? E in che misura le imprese sono incoraggiate, dalla società, ad andare avanti nella sperimentazione di nuovi prodotti, processi, tecnologie, significati che – se riesce – va avanti nell’interesse di tutti? Non si tratta di stabilire solo regole e vincoli che difendano persone e società dalla brama di profitto di chi specula, a danno degli altri: si tratta di creare un legame positivo, interattivo e consapevole, con chi va avanti per primo nel cammino di esplorazione, segnando la strada per tutti gli altri.
Il rischio del nuovo non è una catastrofe, ma una possibilità: se ben gestito, nelle reti sociali che se lo assumono, esso disegna in realtà lo spazio per la costruzione condivisa del futuro. Non c’è apprendimento senza rischio, e dunque la società della conoscenza è anche – inevitabilmente – società del rischio.
Per usare bene la conoscenza bisogna infatti investire su se stessi e sulle proprie capacità: l’imprenditore investe nell’impresa, il lavoratore investe sulla propria professionalità, il consumatore investe sul suo ambiente di consumo. Il capitalismo di piccola impresa ha una trama intessuta di queste relazioni che rimandano a rischi condivisi o comunque interdipendenti: nella filiera, nel territorio, nelle reti inter-personali.
Per condividere parte del rischio ex ante, bisogna pensare a contratti di lavoro, a forme di imposizione fiscale (studi di settore), a contratti di finanziamento che siano congegnati in modo tale da distribuire tra molti sia i benefici quando le cose vanno bene, sia gli aspetti negativi quando invece qualcosa si inceppa e bisogna stringere la cintola.
Marangon. Una crisi può risolversi in due modi: può determinare la fine di un percorso oltre il quale non c’è nulla oppure può anche essere occasione per una rinascita lungo nuove strade. In Italia, dopo più di un anno di difficoltà, chi è che ha perso tutto (o quasi) e chi, invece, potrà risollevarsi?
Rullani. Se la crisi fa parte della fisiologia del capitalismo globale della conoscenza dobbiamo pensare non a qualcosa che ‘finisce’, ma ad una continua serie di rinascite, organizzate in modo ricorrente nel corso del tempo.
In questo senso bisogna anche riconsiderare le forme organizzative che, dagli anni Settanta in poi, hanno funzionato abbastanza bene per neutralizzare la crisi del paradigma fordista, dando luogo al capitalismo che conosciamo oggi: piccole imprese, distretti industriali, sistemi produttivi locali, settori tipici del made in Italy.
Tutte queste caratteristiche sono ancora valide, ma a condizione che riescano a ri-nascere. Definendo la loro forma e il loro significato all’interno del nuovo paradigma con cui, dal 2000 in poi, dobbiamo confrontarci: il capitalismo globale della conoscenza, all’interno del quale i produttori italiani sono produttori high cost.
È una rinascita che si può fare, ma che non ammette conservatorismo: piccole imprese, distretti, sistemi locali, made in Italy devono trasformarsi in modo da utilizzare a pieno il potenziale di valore implicito nella globalizzazione e nella smaterializzazione. Non saranno più gli stessi, ma non saranno nemmeno qualcosa di radicalmente nuovo. Ci saranno imprese di successo che continueranno a lavorare nel settore delle scarpe o dei mobili, ma per produrre e vendere conoscenza prima che prodotti materiali. E usando reti globali che intrecciano il locale, senza rimanerne prigioniere. Con lavoratori molto più qualificati di quelli attuali, associando la riscoperta dei mestieri pratici e artistici all’uso di linguaggi formali avanzati e di laboratori di ricerca e sperimentazione del nuovo inseriti nella rete mondiale del sapere.
Ci vorrà del tempo e ci vorranno soldi. Ma la strada è tracciata, e difficilmente eludibile. L’incognita, semmai, è relativa a quanti arriveranno fino in fondo e in che tempi. Non solo, ma in quali condizioni di reddito e di potere contrattuale, esercitabile di fatto nelle filiere della produzione globale a cui il made in Italy attuale sarà chiamato a partecipare. Possiamo essere colonizzati, o andare avanti con le nostre forze: certo bisogna affrettarsi a partire, nella direzione giusta, senza perdere tempo.
Marangon. Un paradigma di uscita ‘a testa alta’ da questa situazione di crisi economica è quello rinvenibile anche dalla proposta della Commissione ‘Stiglitz-Sen-Fitoussi’ che rimanda a nuovi e diversi parametri di misurazione della qualità della vita. Anche qui un semplice ‘ritocco alla ricetta’ o stimoli verso traiettorie rinnovate di sostenibilità (o decrescita)?
Rullani. La qualità della vita non è un fattore oggettivo che qualche statistica è in grado di misurare stabilendo poi, magari, che Benevento è più o meno avanti di Asti e di Como in una virtuale classifica dei luoghi dove si ‘vive meglio’. Fare queste classifiche attira l’attenzione, ma confonde le idee sulla sostanza delle cose.
La qualità della vita è un’idea che si auto-definisce nel triangolo senso/legami/valori di cui abbiamo parlato come cura per i mali generati dall’instabilità e che una comunità si dà, condividendo il rischio e il progetto di una delle tante possibili esplorazioni del futuro. La vita è di qualità, dal punto di vista di chi la vive, se egli sente che l’esplorazione in corso ha senso, giustificando i rischi che comporta; se c’è una rete di legami che rigenera questo senso anche di fronte a ostacoli o conflitti incontrati lungo il cammino; se la produzione e distribuzione del valore economico avviene in modo da mantenere coesa e operosa la comunità coinvolta nelle filiere da cui dipende l’esplorazione stessa.
Questo non vuol dire decrescita, ma crescita del valore appoggiata a significati simbolici e a legami condivisi. Una crescita del genere, ovviamente, ammette anche che una certa comunità di persone o di imprese scelga la decrescita come senso del loro stare insieme, crei legami intorno al ‘crescere meno’, assegni valore economico a comportamenti virtuosi da questo punto di vista (sobrietà, responsabilità nell’uso dei rifiuti, eco-compatibilità, sublimazione della materialità nei linguaggi simbolici e nelle estetiche corrispondenti). Ci saranno comunità ecologiche che condannano la crescita e comunità dissipative che continuano a venerarla. La qualità della vita per queste due opposte situazioni va giudicata e costruita dal punto di vista dei diretti protagonisti, non dall’esterno. Semmai bisogna considerare che la loro coesistenza può non essere pacifica, implicando conflitti di senso, di legami e di valori che, col loro manifestarsi, accrescono l’instabilità e dunque il rischio del futuro per entrambe le parti.
Ma, come abbiamo detto, un certo grado di instabilità fa parte del gioco: anche il pluralismo dei metri di valore va messo in conto, e non deve essere ragione di scandalo per nessuno. Il PIL continuerà a misurare i flussi materiali, più o meno bene, e la gente continuerà a misurare il cammino fatto nell’esplorazione del futuro con metri di qualità molto differenziati, e qualche volta incompatibili. Anche Cristoforo Colombo è partito con una rotta sbagliata, e per fortuna: se avesse fatto i calcoli ‘giusti’ (con i dati veri del PIL) non avrebbe mai scoperto l’America.
I metri giusti sono quelli che riescono a mettere d’accordo la gente sulle ragioni per cui vale la pena di mettersi in viaggio, insieme, pensando ad una equa distribuzione dei costi, dei sacrifici e dei rischi.
Marangon. Una rottura è generalmente dovuta alla tensione di un sistema che non regge più all’urto di differenti paradigmi. Lei si occupa anche di rete… In informatica ‘craccare’ significa violare il sistema di protezione di un programma per poterlo utilizzare liberamente. Le generazioni cresciute con internet stanno imponendo un nuovo modello di economia, la free economy, in cui libero accesso e gratuità di software e di alcuni prodotti vengono considerati un diritto più forte di quello dell’autore. È un fenomeno che c’entra poco con la pirateria, forse invece con una nuova concezione di mercato. Cosa ne pensa a riguardo?
Rullani. Partiamo da una premessa: la conoscenza è una risorsa sociale. Ciascuno riceve il 90% di quello che sa da altri e restituisce agli altri il 10% che riesce ad elaborare in proprio, nel corso della sua vita. La maggior parte di questi scambi non passa attraverso il mercato, che è un pessimo mediatore tra chi produce e usa la conoscenza: come si sa, il costo di riproduzione della conoscenza tende a zero e, dunque, sul libero mercato i prezzi della stessa tenderebbero a zero. Se questo non succede – o almeno non succede subito – è perché ci sono ostacoli pratici (difficile trasferibilità) o giuridici (brevetti, copyright) alla libera propagazione e al libero scambio delle conoscenze possedute.
La natura della conoscenza, che è risorsa non scarsa ma moltiplicabile, induce a vedere il suo uso sotto il profilo della condivisione, non dello scambio di mercato: il problema è semmai di trovare forme di motivazione o di incentivo che rendano le persone e le imprese disponibili a condividere le proprie conoscenze con altri (con l’organizzazione, con la filiera, con il territorio, con una comunità professionale o di senso ecc.).
Se un pittore di qualità non vede valorizzato il proprio contributo alla produzione del quadro, perché gli altri ne vogliono usufruire senza dargli alcun riconoscimento, forse smetterà di dipingere (anche se questo non sempre è vero: ci sono infatti pittori che dipingono per passione, e che continuerebbero a farlo anche se ridotti alla fame, come è stato un tempo per tanti pittori di eccellenza, poi diventati famosi).
In qualche caso, questo problema non si pone perché il vantaggio di ‘partire per primo’ tutela in modo sufficiente l’innovatore dai tanti possibili imitatori: chi cambia prodotto o modello ogni tre mesi non deve difendersi da un’imitazione che arriverebbe fuori tempo massimo. Ma anche chi usa una conoscenza firm specific, utilizzabile solo all’interno della propria organizzazione e non utile all’esterno, non ha bisogno di tante difese.
Ci sono settori, però, in cui la conoscenza può essere imitata in tempi e forme capaci di erodere seriamente il vantaggio del first comer. In questi casi, per fare in modo di incoraggiare la produzione di nuova conoscenza da parte di inventori, autori, progettisti, stilisti, cantanti, professori ecc. è importante elaborare forme di riconoscimento del loro ruolo, che tuttavia vanno commisurate al loro punto di vista.
Ma ci possono essere molti modi per ottenere questo risultato. Il più diffuso è il dono, anche se certo non è la regola nella vita professionale. Non dimentichiamo, tuttavia, che la maggior parte delle conoscenze prodotte dalla società viene elaborata e propagata su base familiare, inter-personale, scolastica, scientifica, ludica ecc., ossia in forme in cui chi offre agli altri la sua conoscenza non si aspetta una remunerazione diretta e immediata in contropartita.
Il dono può essere più accettabile, per chi lo fa, se si associa ad un riconoscimento che attesti la gratitudine di chi ne beneficia o della società in generale, come potenziale destinatario. Lo scienziato in molti casi è disposto a lavorare per il Nobel, o per qualche altra forma di riconoscimento, anche senza guadagnare un euro dall’uso pratico delle sue scoperte da parte del pubblico. Chi lavora come volontario per Wikipedia si dà da fare anche senza ricavarne un vantaggio monetario.
Nel lavoro di squadra, all’interno di una organizzazione o di un partito politico, i riconoscimenti ci saranno in termini di prestigio, reputazione o carriera, ma quasi mai si aiutano gli altri della squadra vendendo le proprie idee un tanto al chilo.
Insomma ci sono forme differenti che organizzano la condivisione.
È assolutamente riduttiva l’idea che – per i produttori di conoscenza – non ci possano essere stimoli diversi dalla pura e semplice protezione della proprietà intellettuale, che consiste in una serie di divieti di uso della conoscenza imposti a tutti i potenziali interessati, salvo il permesso accordato di volta in volta dal proprietario stesso.
Questo istituto è stato pensato per tutelare autori e inventori, ma è diventato col tempo sempre meno adatto a questo scopo. Per due motivi.
Prima di tutto, ormai il brevetto e il copyright funzionano in certi casi come inibitori dell’innovazione possibile, perché chiunque innova usando spezzoni di conoscenze ricavate da altri (e difficilmente decifrabili nella loro origine ultima) rischia di essere chiamato in causa da avvocati di potenti multinazionali disposte a metterlo sul lastrico. Senza contare che in molti casi l’esistenza della riserva di uso proprietaria impedisce ad altri di usare la conoscenza sociale per rielaborarla in vista di ulteriori innovazioni: ci sono libri che non si possono leggere perché coperti da copyright detenuto da case editrici che non li ristampano, una volta esauriti. O ci sono copyright che assicurano ad alcuni – i più furbi o più organizzati – il monopolio legale su idee e soluzioni che altri hanno scoperto o che sono state messe a punto dall’evoluzione biologica: la vita e le sue manifestazioni sono un patrimonio collettivo, una sorta di deposito di sapere che ciascuno di noi condivide con tutti gli altri. È seccante sapere che qualcuno detiene il monopolio di qualcosa che accade sul tuo fegato, e che tu – volendo – non saresti libero di capire e di riprodurre. Insomma spesso ci si domanda se la ratio iniziale di queste istituzioni non sia andata dispersa nel corso del tempo.
La seconda ragione su cui riflettere nasce dai grandi moltiplicatori che sono associati alla conoscenza nel capitalismo globale di oggi. Una volta, per sentire un cantante lirico si andava a teatro e il moltiplicatore (degli usi) segnava, diciamo, 300 spettatori. Poi, col disco di vinile, la prestazione vocale si è smaterializzata, separandosi dalla fisicità del cantante e del luogo: gli utilizzatori (paganti) della conoscenza sono diventati 3.000 o 30.000. Quando sono arrivati il CD e la televisione, siamo passati a 300.000 o 3 milioni.Con moltiplicatori del genere, se una canzone ha successo e si propaga nel mondo, può diventare una fonte di ricchezza enorme. Ma siccome nel mondo globale esiste un grandissimo ‘rumore’, è sempre più difficile bucare lo schermo tv e raggiungere la notorietà presso il grande pubblico. Ecco che il divieto di usare liberamente le opere tutelate dal diritto d’autore diventa controproducente per tutta una serie di autori che vorrebbero giocare le loro carte incentivando i potenziali users ad ascoltare la canzone e passarla agli amici. Anche gratuitamente. Anzi: meglio se gratuitamente (la canzone circolerà più rapidamente).
Per proteggere l’autore, forse, oggi le istituzioni dovrebbero essere pensate per contribuire alla propagazione massima della sua opera, specialmente quando si tratta di costruire il pubblico e la conseguente notorietà. Ci sono infatti autori che regalano le loro opere, rendendole liberamente riproducibili in internet. O autori che firmano licenze per cui il ri-uso dell’opera è consentito, ma a certe condizioni, che mirano ad evitare appropriazioni o usi indebiti a valle. La cosa diventa anche appassionante se si appoggia a comunità che considerano le conoscenze generate dalla creatività sociale un bene comune (commons) da non privatizzare, ma da condividere in modo consapevole e regolato. Con la licenza ‘Creative Commons’, ad esempio, si consentono certe forme di condivisione e di propagazione in modo da evitare l’effetto inibitore dei diritti di esclusiva.
Insomma, ci sono tante possibilità per dare forma organizzata e responsabile alla condivisione delle conoscenze: non bisogna iscriversi ai due partiti guerreggianti della pirateria, da un alto, e della strenua difesa del diritto di esclusiva, dall’altro. È poco ragionevole l’idea di incriminare milioni di giovani ‘smanettoni’ che trasgrediscono leggi diventate, col tempo, poco trasparenti e poco comprensibili per il senso comune. Come non è ragionevole dire che per la conoscenza non si deve pagare per principio, mai e poi mai.
Vediamo le cose in altro modo: per condividere bisogna essere d’accordo e convergere su impegni e obblighi reciproci. Lasciamo che le parti in causa inventino il modo migliore per usare la conoscenza come bene comune, facendo nascere dagli autori, da un lato, e dagli utilizzatori, dall’altro, le forme più appropriate di condivisione, diverse da caso a caso, ma trasparenti. Oggi forse sono proprio gli intermediari (editori, case cinematografiche e discografiche ecc.) ad avere in questa materia un atteggiamento conservatore, mirato il più delle volte a difendere la ‘rendita’ dei diritti acquistati, in barba a quanto autori e utilizzatori trovano sensato fare. Ma siccome internet avvicina gli uni agli altri, il pallino non è più in mano ai soli intermediari. Sarebbe bene che chi aspira ad una proficua mediazione tra autori e utilizzatori, nella nuova cornice creata da internet, cambiasse atteggiamento, diventando egli stesso promotore di un nuovo disegno di organizzazione della filiera.
Dopotutto Apple ha dimostrato come dal download delle canzoni a un dollaro l’una si può guadagnare, e molto, anche se i giovani continuano a scaricare gratis tante altre cose da internet.