CRAC
Troppo straniera
di Laila Wadia
Stringo il collo della mia giacca di lana e tuffo la mano nel freezer della corsia tre del supermercato alla ricerca di un galletto surgelato.
«Chissà dove posso trovare dello zenzero fresco» – queste parole sono un soffio che tolgono quarant’anni di ragnatele sotto alle quali ho seppellito la lingua in cui vengono pronunciate.
L’istinto – soprattutto il genere d’istinto che metterebbe a repentaglio la mia identità – è una cosa che ho imparato a soffocare. Con ogni capello grigio che mi è spuntato sono diventata sempre più brava a nascondermi dietro a una patina di italianità, e ora che sfoggio una magnifica chioma argentea, l’istinto mi tradisce e rispondo in hindi, la mia madre lingua.
L’uomo accanto a me, chino sulla fila di polli halal ha un sussulto e il pennuto, macellato secondo le norme igieniche islamiche, gli cade dalle mani.
Invece di raccoglierlo, si gira e porta la mano sinistra sul cuore, come trafitto da un dolore.
«Sta bene?» – domando preoccupata.
«Starei meglio se continuasse a parlarmi» – due occhi scuri e increduli scrutano il mio viso. «Ma se tu non parli, riempirò il mio cuore del tuo silenzio. Sei pakistana, sorella?» – la domanda viene posta con la delicatezza di una piuma che fluttua nell’aria.
Scuoto la testa.
«Non fa niente» – sorridono i suoi occhi. «Non mi interessa sapere chi sei, o come hai fatto per arrivare qui. Con te primavera entrò nel mio corpo con le sue foglie e i suoi fiori».
«Sono indiana» – rispondo secca. Sono troppo vecchia per le belle parole. È troppo tardi per sussurrarmi poesie in una lingua che ho rinnegato tanti anni fa.
Per un attimo l’uomo mi scruta come se fossi uno dei polli nel ventre del freezer. Poi prende la mia mano e se la porta al petto.
«Mashallah, indiana!».
Il contatto fisico, poco consono tra uomo e donna alle nostre latitudini, mi fa indietreggiare. Ma mi meraviglia questa mia reazione. Non dovrei basarmi su canoni antichi in questa vita nuova che ho scelto, penso rimproverandomi.
Accortosi del mio disagio, l’uomo domanda scusa. «È solo che non sento parlare hindi da tanto», spiega. «Sono emozionato. Per me metà sei donna e per metà sei sogno!».
«E invece sono qui in carne e ossa. Più ossa che carne ormai, ma sa, in italiano si dice che gallina vecchia fa buon brodo» – scherzo e dopo tanti anni provo un leggero imbarazzo per il mio modo di vestire occidentale – maglietta attillata con ampia scollatura, fortunatamente sotto la giacca abbottonata fino al collo.
Gli occhi dell’uomo si fondono nei miei. «Non mi interessa quanti anni hai. Il mio cuore, uccello del deserto, ha trovato il suo cielo nei tuoi occhi».
Arrossisco. Pensavo che le attenzioni maschili svanissero con lo sfiorire della giovinezza, ma ignorando le mie rughe questo sconosciuto è andato dritto a scrutarmi l’anima.
«Come dicevo, il fruttivendolo dietro all’angolo vende sia zenzero sia coriandolo fresco» – cerco di cambiare argomento.
«Mi accompagnerebbe a comperarlo?».
«Veramente dovrei tornare a casa perché…» – abbasso lo sguardo.
«Non l’ho mica offesa? È che sentire la sua voce mi ha fatto un effetto strano. Sa, quando ci si trova in un paese straniero, da soli… Vorrei dirti parole più profonde, ma non oso per timore che tu rida».
Offesa? Se fossero state queste le offese che la vita mi ha riservato ora sarei mandorlo in fiore invece di una mangrovia asfittica.
Continua a tessere arazzi di parole questo uomo dalla carnagione scura, messa ancora di più in risalto dalle luci al neon del supermercato. «Ma lasci che mi presenti. Sono Kabir e faccio il venditore ambulante di collane» – mi offre la mano – «Concedi che io possa sedere per un momento al tuo fianco. Le andrebbe di prendere un tè insieme?».
I suoi modi mi spaventano. Mi infastidiscono pure. Sembrano troppo studiati. Sto per inventarmi una scusa convincente – un marito malato o un appuntamento dal dentista – quando vengo avvolta da un profumo d’altri tempi – un potente miscuglio di ambra e muschio che mi riportano ad una piccola bottega di oli profumati che usavo frequentare quando ero giovane. E l’olfatto, suscitando la nostalgia, mi accusa d’essere diventata troppo straniera.
Il mio passato – cominciato dolce e pieno di promesse come un prato in primavera, venne poi assalito da funghi velenosi – ecco ora riaffiora sotto tutt’altra forma, ancora grezza, ma con il potenziale di brillare di nuova luce. Scavata dalla terra grazie alle parole di uno sconosciuto, mi riscopro diamante. E la mia sofferenza, mutata in preziosa maturità, viene rifratta in mille pensieri. Manco dalla mia terra da troppi anni. Mi sono scordata del mondo in cui sono germogliata, di come gli uomini sanno essere galanti, della travolgente bellezza delle parole.
«Mi chiamo Mumtaz».
«Mashallah, musulmana!».
«No» – sorrido imbarazzata, rimproverando mia madre per avermi dato un nome che trae in inganno. Rimanendo incinta in viaggio di nozze ad Agra, per visitare il Taj Mahal, mia madre decise di darmi il nome dell’imperatrice per la quale venne costruito questo monumento all’amore per eccellenza.
«Siamo tutti figli di Allah. Il giorno che sta fra te e me fa il suo ultimo inchino d’addio».
Affosso la testa nella borsetta. Le fondamenta della mia vita in Occidente – costruita con fatica su sabbie mobili – stanno cedendo sotto il peso della poesia ambulante.
Non posso accettare. Se mi vedesse qualcuno? E cosa dirà mio figlio se gli dico che sono andata al bar con uno sconosciuto?
Bah, infischiatene – dice una piccola voce dentro di me. Hai sessant’anni. Un vissuto alle spalle. Cosa vuoi che ti succeda? E poi sono quarant’anni che non usi più questa tua lingua e muori dalla curiosità di sapere se puoi farlo ancora in maniera sciolta.
Ci accomodiamo in un angolo del bar.
«Allora Mumtaz, quand’è passato a miglior vita suo marito? Le ha lasciato qualcosa, spero. E perché si è sposata con un’occidentale? Una donna bella come lei avrebbe avuto l’imbarazzo della scelta dalle sue parti! Non dobbiamo sempre regalare agli stranieri le nostre perle più pregiate». Mentre la sua lingua mi rimprovera, il suo sguardo mi accarezza.
Vorrei sciogliermi, raccontargli come per trent’anni sono stata sposata con un uomo splendido, riservato e taciturno come il paesaggio carsico da cui è sempre stato circondato. Ho dimenticato come alterna poesia e brutale franchezza la gente dalle nostre parti, di come anche gli uomini usano profumarsi di attar e dipingersi gli occhi con il kajal.
«L’amore non conosce né religione né nazionalità» – rispondo filosoficamente, chiudendo gli occhi per un attimo e tentando di affossare le ragioni della mia fuga dall’India.
«Spero che lei, donna che c’è nel cuore della creazione, sia stata trattata come una principessa da quest’uomo. Che le abbia costruito un Taj Mahal qui a Trieste».
Sorrido amaramente e chiedo a mia volta delle informazioni su di lui. Apprendo che è diventato nonno da poco. Che vive in Italia da vent’anni – girandola in lungo e in largo vendendo collane. La sorte lo ha portato in questa città di confine per qualche mese, ma gli affari non vanno troppo bene, l’inverno rigido del nord Italia non gli si addice e sta pensando di migrare verso i lidi più miti e prosperosi della Sardegna.
«Non celare il segreto del tuo cuore, amica mia. Dillo a me, solo a me, in segreto. Tu che sorridi tanto gentilmente, sussurralo sommessamente, il mio cuore l’udrà, non le mie orecchie».
Un torrente in piena mi travolge. Per schermarmi dalle emozioni, scherzo dicendo che il tempo che mi ci vorrebbe per rispondere a domande del genere ridurrebbe il suo pollo ad un brodo nella borsa della spesa.
Mi guarda ferito e mormora che preferisce di gran lunga nutrire i suoi sensi.
Siamo agli antipodi – polo nord e polo sud seduti in un bar al centro dell’Europa. Lui i sentimenti li porta in palmo di mano, io li nascondo sotto l’ironia. Cerco di cambiare argomento. Parliamo di cibo. Di come cucineremo i nostri rispettivi polli. Non gli dico che lo farò in padella con uno spicchio d’aglio, pranzando da sola nella cucinetta della mia casa popolare, come sempre, tranne la domenica. Mento e gli racconto che pranzerò con la famiglia di mio figlio, che lo preparerò alla shahenshahi, con una salsa a base di anacardi. Lo farò accompagnare da un profumatissimo pilaf e delle sofficissime naan.
Lui, che alloggia da un affittacamere e deve cucinare di nascosto, dice che si dovrà limitare a farlo in salsa di zenzero e pomodoro, sperando che nessuno noti gli odori e per companatico ha comperato un pacchetto di pancarré.
«Cucinare per uno solo non dà soddisfazione», dice tristemente.
Una parte di me vorrebbe cedere e invitarlo a pranzo. Ma vince la diffidenza. Non so niente di lui. Sì, è vero, mi ha mostrato un album di plastica gialla sgualcita con delle foto della bella moglie vestita di rosso, un figlio maschio che fa l’autista e una figlia sposata con le sue due bambine.
«Che bella casa e che splendida famiglia», commento. A fare da sfondo c’è una casa in stile moresco che ha richiesto vent’anni di fatica. Le immagini risalgono a cinque anni fa, ossia l’ultima volta che si è recato in Pakistan e persino oltre la plastica i visi dei suoi cari sembrano consumati dai suoi baci e da tante lacrime.
«Il mio Taj Mahal. Il mio atto d’amore e di sacrificio per la mia famiglia. Quattro lustri di stenti e di solitudine».
«Devo andare», mi alzo. «I miei staranno in pensiero e i miei piselli stanno per diventare una poltiglia». Soprattutto sto per sciogliermi io.
«Lascia che ancora per poco i tuoi occhi si posino sui miei. Colma la mente con la tua musica per sopportare il deserto di rumore».
Se rimanessi ancora un istante, scoppierei a piangere e gli racconterei come l’uomo che mia madre scelse per me dopo il mio primo sangue, con la speranza che mi costruisse un monumento d’amore non ha fatto altro che ridurmi ad un ammasso di macerie. Tirando su col naso, gli direi come ho adoperato quei detriti per farmi una rocca con Paolo. Non gli nasconderei che è stato gentile con me, il mio italiano incontrato all’ashram di Sai Baba a Bangalore. Soprattutto confesserei che gli sarò eternamente grata per avermi portata il più lontano possibile da quei ricordi dolorosi. Poi racconterei come abbiamo messo su casa, tirato su un figlio. E poi ancora come il destino crudele mi abbia fatto di nuovo uno sgambetto togliendomi Paolo. Gli parlerei della ferita ancora aperta della vendita della nostra casa per pagare le cure mediche…
«Ancora cinque minuti. Ci siamo seduti troppo poco insieme per lenire i nostri dolori. Lasci che l’estasi del suono di una lingua familiare mi riempia fino alla punta delle dita», supplica. «Oramai la sento solo nei film. Ma lei come fa a tenersi allenata visto che dice di non aver contatti con altri indiani?».
Confesso che l’unico contatto che ho con la madrepatria passa per le videocassette. Sono il mio cordone ombelicale. Il resto dell’India l’ho abortita, per sopravvivere.
«Resti allora e parliamo di film. Anche a me piacciono quelli d’epoca».
Ci mettiamo d’accordo per fare uno scambio delle pellicole e prometto di incontrarlo nuovamente alle cinque.
«Vieni come sei, non indugiare a farti bella» – dice, aggiungendo che avrà una sorpresa per me.
Torno a casa e condisco il pollo con i sensi di colpa. Sono diventata troppo straniera. Fredda e diffidente. Oppure solo vecchia e saggia. O forse solo codarda. Avrei dovuto invitarlo a pranzo. Sarebbe stata la cosa che ogni buona indiana avrebbe fatto. Invece ho lasciato che cucinasse da solo il suo pollo su un fornelletto da campeggio nella stanza della pensione dove alloggia.
Ribalto mezza cucina alla ricerca di una scatola di garam masala regalatami da mio figlio qualche anno fa e ancora sigillata. Annuso il miscuglio di spezie e ne verso un cucchiaio colmo sul pollo in padella. Sprigiona tutto il suo potenziale nonostante sia rimasto in fondo all’armadietto per parecchi anni. Che sia la metafora della mia vita? Per colpa di un individuo, ho accusato una nazione. Ecco l’anima di casa mia, racchiusa in una scatola di latta, che mi implora di lasciar andare il mio dolore.
Cardamomo, ti perdono mamma. Chiodi di garofano, hai cercato invano di lenire il mio dolore, papà. Cannella, sorellina mia che eri troppo piccola per capire. Coriandolo, fratello maggiore che non sapevi trascendere la tradizione. Peperoncino, bastardo che mi hai rovinato la vita. Ma perdono anche te. Eri schiavo dell’alcol e dei demoni che non ci hai permesso di esorcizzare. Aggiungo un po’ di sale, mescolo il mio passato e assaggio il mio futuro.
Per rimediare alla mia mancata ospitalità, divido il pollo in due. Una parte la metto in un tupperware che porterò a Kabir nel pomeriggio. Avvolgo tre fette di pane indiano nella carta stagnola. Al sacchetto di plastica aggiungo due film in cassetta, che ho comperato durante un viaggio a Roma qualche anno fa.
L’appuntamento è davanti alla bottega del fruttivendolo. Mi faccio accompagnare da Stefania, la mia nipotina quindicenne.
Sono le cinque e mezza e non c’è traccia di Kabir. Stefania comincia a diventare irrequieta. Crede che questa storia sia frutto della solitudine.
«Non capisco perché non sia venuto dopo tanta insistenza» – dico, perplessa.
«Bah, in fondo è pakistano», dice Stefania, togliendomi il fiato.
«Proprio tu che sei nata in questa zona del mondo che il buon Dio ha voluto unito geograficamente e che la mano arrogante dell’uomo ha spezzato in mille pezzi, dovresti essere più sensibile al fatto che la diversità non esiste!» – sbotto.
«Bah», dice Stefania. «Tutto ’sto volemosi bene è una farsa. Ma tu cosa hai in comune con questo tizio? Una lingua che non usi più? Mai fidarsi poi di uno che parla così strano».
Ma quand’è diventata tanto dura e insensibile la mia nipote? Abbacchiata e soprattutto incapace di trasmettere il mio stato d’animo a questa ragazza che è abituata a parlare al computer con mezzo mondo, ma che non scambia una parola con i suoi vicini di casa, butto il pane indiano nel bidone delle immondizie e svuoto anche il tupperware. Stefania approva il mio gesto.
Sono sola con i miei mille perché. I pensieri si arrotolano come i piselli che ho messo a cuocere lentamente in una padella troppo grande. Accendo la tv per non pensare.
«Retata di venditori stranieri», annunciano al TG regionale. Non sento altro perché il ragazzo del piano di sotto accende lo stereo proprio in quel momento. Ma vedo la telecamera riprendere una decina di visi scuri e disperati. Inquadra la merce sequestrata – borsette taroccate, occhiali da sole, collane, anelli ed orecchini. Infine si nota la mano di un agente che cerca di togliere qualcosa a uno degli arrestati. Ma la mano scura non desiste. Il servizio termina con l’immagine della copertina di una cassetta di un film indiano tenuto stretto al petto. Taj Mahal, leggo chiaramente.
[Primo premio Concorso Letterario e Giornalistico ‘Marenostrum’, Viareggio, 2008]
Nota: le frasi in corsivo sono tratte da varie poesie di Rabindranath Tagore.