CRAC
Un crac nell’impero. La Peste Antonina e la fine del mondo antico
di Paolo Malanima
Come tutte le grandi epidemie del passato, anche la Peste Antonina arrivò da Oriente. Fu portata entro i confini dell’impero romano intorno al 160 d.C. dai reduci di una campagna contro i Parti (che vivevano nell’attuale Iran). Nell’impero imperversò fino al 180 e dall’impero si diffuse anche a nord del Reno, fra le popolazioni germaniche e galliche. Determinò una mortalità che è valutata dagli studiosi fra un 10 e un 30% della popolazione. Dal momento che gli abitanti dell’impero vengono stimati fra i 50 e i 100 milioni, i morti furono, dunque, fra i 5 e i 30 milioni. Due imperatori, Lucio Vero e Marco Aurelio Antonino, dal cui nome derivò quello dell’epidemia, furono tra le vittime.
Non fu vera peste. Galeno di Pergamo, il famoso medico, ne descrisse i sintomi nel suo Methodus Medendi, in base alle osservazioni dirette della malattia. Annotò che essa provocava febbre, diarrea, infiammazione della faringe, eruzioni cutanee secche o in forma di pustole che apparivano nel nono giorno dalla comparsa. Pur con qualche esitazione, gli esperti considerano la Peste Antonina come una grande epidemia di vaiolo.
Un crac è un evento improvviso. Nessuno descriverebbe oggi la fine del mondo antico o la decadenza della civiltà romana come un crac. Molti storici tendono anzi a dilatare nel tempo la ‘trasformazione’, più che crisi, del mondo antico. Termini come ‘declino’ o ‘decadenza’ – ha scritto di recente Andrea Giardina – oggigiorno sono giudicati da molti come inappropriati. Non è sempre stato così. A metà Ottocento, Barthold Georg Niebuhr ebbe a scrivere che il regno di Marco Aurelio «segna un punto di svolta» e che «non c’è dubbio che la crisi fu causata dall’epidemia». «Il mondo antico – scrisse ancora – non si riprese mai dal colpo inflittogli dalla peste che vi si diffuse durante il regno di Marco Aurelio».
Certamente un’epidemia di queste dimensioni, che rimangono rilevanti sia accettando la stima minima delle vittime che quella massima, fu un fatto importante nella vita economica, sociale, politica: un crac vero e proprio! Opinioni diverse esistono sia sulla relazione dell’epidemia con le condizioni economiche e sociali che la precedettero, sia sulle sue conseguenze. Ci si è chiesti se essa abbia determinato una scossa nell’equilibrio dell’impero dando l’avvio a un processo di decadenza, oppure se si sia trattato soltanto di un fenomeno passeggero, rapidamente riassorbito nel processo di trasformazione che si svolse nella tarda antichità e prima età medievale. E ancora ci si è domandati se l’epidemia sia stata un evento preparato dall’evoluzione interna del mondo romano nei primi due secoli dell’età imperiale o se abbia costituito un fenomeno ‘esogeno’, senza nessuna relazione, cioè, con le vicende della civiltà antica e con il suo andamento.
Una spiegazione esogena potrebbe, a prima vista, sembrare la più convincente. Il vaiolo non pare avere alcuna relazione con le condizioni di salute, o di benessere economico più in generale, delle popolazioni che colpisce. È, quindi, un flagello che viene da fuori. Fu il vaiolo a sterminare molte popolazioni delle Americhe nel Cinque e Seicento. Se Colombo non fosse arrivato nel nuovo continente, ma in Cina, come sperava, lo sterminio delle popolazioni indigene dell’America meridionale non ci sarebbe stato o sarebbe avvenuto più tardi.
È possibile anche una spiegazione endogena. È vero, si potrebbe dire, che l’epidemia del 160-180 venne dall’esterno, ma la sua virulenza dipese dal fatto che le difficoltà economiche prepararono il terreno alla sua diffusione. Era questa anche l’opinione di Thomas Robert Malthus, a proposito delle epidemie e della loro diffusione. Quando la popolazione è numerosa rispetto alle risorse, scriveva fra Sette e Ottocento, le condizioni di vita si deteriorano. Giunti a questo punto, «i modi diversi di cui la natura si serve per prevenire o reprimere un’eccedenza di popolazione non ci risultano tanto chiari e regolari, ma anche se non possiamo prevedere il modo, possiamo con certezza prevedere il fatto». La natura, pensava in sostanza Malthus, avrebbe trovato un modo o l’altro per disfarsi dell’eccedenza di popolazione.
Una spiegazione endogena è quella di chi ritiene che il mondo antico abbia attraversato un lungo ciclo di crescita e declino; che la popolazione sia andata dapprima aumentando insieme alla produzione di beni; che poi, dal I o II secolo d.C., all’aumento ulteriore non abbia fatto riscontro un’espansione della base produttiva, e cioè dello sfruttamento delle risorse; che si siano avuti, quindi, rendimenti decrescenti del lavoro e peggioramento delle condizioni di vita; che forse una diminuzione delle temperature abbia ridotto ulteriormente la produttività del lavoro; che, infine, lo scoppio della pestilenza e la mortalità molto elevata abbiano riportato un qualche equilibrio fra popolazione e risorse. Equilibrio temporaneo, tuttavia, perché a questa prima, grande epidemia altre ne seguirono, più o meno rovinose, durante quella che viene, o veniva chiamata, la crisi del III secolo. La pensava forse così Tertulliano, che, nel suo trattato De anima, del 211, scriveva che «onerosi sumus mundo»: ‘siamo di peso al mondo’, a stento ci bastano le materie prime, e quanto più stringenti sono le necessità, tanto più si alzano i nostri lamenti, dal momento che la natura è incapace di sostenerci. Le pestilenze, le carestie, le guerre e la scomparsa di intere città, rappresentano un rimedio, uno sfoltimento del genere umano divenuto eccessivo («tonsura insolescentis generis humani»).
Osservata in questa prospettiva, l’epidemia costituisce ancora qualcosa di occasionale sì, ma capace di provocare ugualmente una scossa decisiva in quanto nella ‘struttura’ in cui si diffonde esistono già condizioni latenti tali da preparare, o meglio rendere più probabile, la sua diffusione e la sua azione distruttiva. In questo senso, la Peste Antonina chiuse un lungo ciclo di crescita iniziato due-tre secoli avanti Cristo. Come la Peste Nera del 1348-50, riportò equilibrio in una struttura economica nella quale il numero era aumentato ben più delle risorse e delle conoscenze tecniche che consentivano di sfruttare a proprio vantaggio quelle risorse. Entrambe ebbero come conseguenza un miglioramento delle condizioni di vita. Dopo la Peste Antonina sembra che anche le stature siano aumentate, in conseguenza al miglioramento dell’alimentazione.
Una differenza, però, è importante rilevare, come ha fatto più volte Elio Lo Cascio, fra le conseguenze della Peste Antonina e della Peste Nera. La Peste Antonina determinò un indebolimento della struttura imperiale. Dal momento che nell’Europa del Trecento una struttura di queste dimensioni non esisteva, ma esistevano, invece, stati di dimensioni piccole e piccolissime, questo effetto non si ebbe. Se è vero, infatti, che i redditi medi aumentarono dopo la Peste Antonina perché ognuno disponeva di risorse più abbondanti, non così fu per le entrate complessive dello Stato romano come struttura di coordinamento politico, amministrativo, militare. «Lo spopolamento – ha scritto Lo Cascio – ebbe com’è ovvio effetti decisivi sulla produzione globale e dunque sulla possibilità di mantenere una struttura statuale che, per quanto rudimentale, richiedeva dei costi comunque notevoli di gestione». L’appropriazione del surplus da parte dello Stato venne ridotta decisamente. Le sue esigenze finanziarie rimanevano immutate o si venivano accrescendo proprio quando la base produttiva di tutto l’impero si riduceva. La cosiddetta Peste di Cipriano, probabilmente un’epidemia di morbillo o ancora di vaiolo, che imperversò in tutto l’impero fra il 251 e il 270, fu un altro colpo alla struttura organizzativa e al coordinamento che lo stato romano cercava di dare a un mondo euro-mediterraneo sempre più vasto sotto il suo controllo.