DUE

Come si dovrebbe interpretare Beethoven? Le sue sonate appartengono a quella categoria di brani musicali che assomigliano all’acqua. Lo stesso pezzo può essere percepito come un brano pulito di colore blu o di colore verde scuro, a seconda che la sua interpretazione sia di un tipo o dell’altro, e a seconda che sia presentato in una luce o in un’altra.
Nelle sonate c’è una bipolarità fra il carattere eroico e gli elementi poetici. Questa duplicità è implicita in Beethoven e, in generale, nel Romanticismo. La maggior parte delle interpretazioni più celebri che vivono nella nostra memoria lo ha sempre inteso come un compositore eroico. Benché spesso si concepisca l’eroico come un carattere tipicamente maschile e il poetico come femminile, la regola non è necessariamente universale. Tra gli interpreti beethoveniani, Dinu Lipatti è noto per le sue esecuzioni poetiche, mentre Martha Argerich è famosa per il suo temperamento forte. Le magnifiche interpretazioni di Yves Nat e di György Cziffra sono esempi della sintesi di tale duplicità, perché comprendono in sé l’aspetto maschile, o virile, e l’aspetto poetico, o femminile.
Una delle ragioni per cui le interpretazioni eroiche di Beethoven sono talmente apprezzate deriva dal compositore stesso, dal suo carattere quasi innaturalmente duro, forte, espresso in brani con titoli suggestivi come la sinfonia ‘Eroica’ o il concerto ‘L’imperatore’.
A differenza di Wolfgang Amadeus Mozart ‘caro agli dei’, e prodigio che componeva con facilità e sveltezza eccezionali, Beethoven sembra sempre ergersi contro il mondo e contro il proprio destino. Egli probabilmente possedeva una volontà tremenda rispetto a qualunque altro compositore nella storia della musica. La malattia di cui soffrì, e che lo rese poi sordo, avrebbe distrutto chiunque altro. A mio parere, invece, sembra che essa lo abbia reso, se possibile, ancora più fortee più grande.
Ma, come è ben noto, lo stesso Beethoven amava in modo particolare che i suoi pezzi fossero interpretati da donne. Questo suggerisce l’idea che il poetico nel suo lavoro sia un elemento importante tanto quanto è stato sottovalutato, e probabilmente travalicato dalla forza travolgente inerente alle sue opere. La Sonata ‘La Tempesta’ è un esempio che colpisce e nella quale il poetico continuamente confligge e poi finisce per sopravanzare il carattere eroico.
Qualche volta mi è stato chiesto perché abbia scelto di registrare Beethoven affrontando un’edizione completa delle sue sonate. È ben noto che sono meglio conosciuta come pianista dal carattere poetico, piuttosto che eroico. Sentivo di poter offrire una nuova prospettiva di questi capolavori, mettendo piuttosto in luce il lato poetico della musica di Beethoven. In altre parole, era mia intenzione stabilire un nuovo equilibrio tra l’eroico e il poetico nelle sue sonate, e far meglio dialogare queste due entità, solo in apparenza radicalmente antitetiche.
Per il doppio CD allegato a questo numero di «Multiverso» ho scelto otto sonate, appartenenti a due diversi periodi di composizione musicale: quattro sono state selezionate dal suo primo periodo, e sono note come le più precoci; quattro, invece, dal suo periodo mediano, dalla ‘Tempesta’, op. 31 n. 2, fino a Les Adieux (‘Gli Addii’), op. 81. Credo che le sonate più tarde che appartengono al suo periodo finale debbano essere registrate in un ultimo, separato CD.
La Sonata op. 2 numero 1, in fa minore, è la prima: dedicata a Joseph Haydn, suo maestro e mentore, fu scritta nel 1795. Due cose mi colpiscono di questa prima sonata: che sia dedicata ad Haydn e scritta nello stesso anno e nella medesima tonalità delle Variazioni in fa di Haydn, brano che ho eseguito nel mio precedente CD, intitolato Piano des Lumières (‘Il pianoforte illuminista’).
Ho spesso immaginato il giovane Beethoven, 25 anni e grandi ambizioni, desideroso di diventare grande come Haydn pur guardando a Mozart, che era ormai già una leggenda. Ma una cosa è certa: la sua prima sonata è differente da qualunque altra precedente, anche di Mozart. È una sonata visionaria, scritta da un compositore comunque grande e geniale, il quale vuole creare un suo specifico linguaggio musicale. Il lato visionario è particolarmente evidente nel Presto, ultimo movimento della sonata stessa. Quando ascoltiamo il tema e i suoi sviluppi, ci sembra di averlo già sentito. Poi capiamo che, in effetti, lo abbiamo già sentito, ma in una sonata di Franz Schubert. La prima sonata di Beethoven è più di ogni altra una sonata del futuro.
Nella sua Sonata, op. 10 n. 1 in do minore, il tema che apre il primo movimento è realmente molto eroico, violento e improvviso. Tuttavia, si tratta di un primo tema assai breve, immediatamente seguito da un canto e da un passaggio fortemente lirico che ci porta al secondo tema, molto contrastato. Questo gli riesce elegante e dolce come il primo è stato aspro e severo. L’originalità del secondo movimento sta nel fatto che il secondo tema occupa la gran parte del tempo; il primo tema è asserito in espressioni molto brevi, immediatamente seguite da lunghi materiali del secondo, e questo equilibrio così inusuale sottolinea risolutamente l’importanza dell’aspetto poetico nell’opera di Beethoven. In questa sonata è di nuovo l’ultimo movimento che colpisce di più per la sua originalità. Per il suo carattere esso ricorda soprattutto le famose prime righe che aprono la quinta Sinfonia ed è scritto nella stessa tonalità. È un correre continuo, una galoppata attraverso l’intero movimento: il correre avanti con furia, la sua battaglia contro il destino sono temi ricorrenti in tutti i pezzi del compositore. Bisognerebbe allora chiedersi quale sia la radice di un simile correre.
Tale questione non troverà mai una risposta che riposi su certezze o su una serie di verità consistenti. La risposta è sepolta nel passato. Possiamo immaginare che Beethoven fosse perseguitato dai malanni della sua salute e dal suo terribile destino.
Fu nel 1798, durante la composizione della settima Sonata, op. 10 n. 3, che gli fu comunicata la diagnosi medica dei suoi disturbi: Beethoven stava diventando sordo. La disperazione che questa rivelazione gli provocò lo spinse a scrivere il secondo movimento della sonata, Largo e mesto. Una lettera al suo amico Franz Gerhard Wegeler del 29 giugno 1800 apre una ‘finestra’ sul suo stato d’animo nel momento in cui cominciava le cure: «Certamente ora mi sento meglio e più in forze, ma le mie orecchie ronzano e scampanellano in continuazione, giorno e notte. Posso dire davvero che la mia vita è infelicissima; per quasi tutti i due anni passati ho evitato qualunque contatto con la gente, perché trovo impossibile dire loro semplicemente: “Sono sordo!”. In ogni altra professione una simile affermazione è più tollerabile, ma nella mia condizione questo genere di minorazione è veramente terribile. E, a parte questo, quale sarebbe la reazione dei miei nemici a tutto ciò? Ed essi non sono pochi» (Beethoven’s Letters 1790-1826, 1866).
La sonata successiva che egli compose, op. 13, è nota come la ‘Patetica’. Tutte le precedenti erano state scritte nello stile di Haydn. Solo alcuni rari movimenti mostrano l’inconfondibile marchio beethoveniano; tuttavia si tratta di mere eccezioni nell’ambito di un complesso di brani solidamente influenzati da Mozart o da Haydn. È in questa dialettica a due, o a tre, che si diffonde o ha le sue radici l’era musicale romantica, e non si può ascoltare il secondo movimento senza pensare alle lettere di Beethoven alla sua ‘amata immortale’, una delle quali viene da lui firmata con le seguenti brevi strofe: «Oh, amami per sempre, e non dubitare mai del cuore fedele del tuo innamorato, L./ Sempre tuo/ sempre mia/ sempre l’uno dell’altra» (lettera alla contessa Giulietta Guicciardi, 7 luglio 1800).
Ma passiamo ora dall’‘amata immortale’ all’immortale, eterno dibattito cui si è accennato: Beethoven è un compositore classico o romantico?
Ci sono coloro che lo considerano solo un compositore classico e coloro, invece, che lo ritengono il padre del Romanticismo. Personalmente, tendo a pensare che egli sia egualmente classico e romantico a un tempo, e che in lui i due universi stilistici confliggano fin quando, in un passo, o nell’esecuzione concreta, non pervengono a una composizione, sia pure dialettica.
Delle quattro sonate composte nel periodo medio presentate nel secondo CD, posso considerare solo l’op. 49 n. 1 come una sonata classica. Scritta nello stile delle sue sonate più precoci, e con grande semplicità, può sembrare una rammemorazione di Haydn, oppure dei tempi passati. Potrebbe anche essere stata composta molto prima e pubblicata in un tempo successivo. Le altre tre sonate raccolte in questa edizione, secondo me, sono da considerare romantiche.
Per continuare ad analizzare tale questione, ritengo che la domanda successiva debba essere: quali sono le caratteristiche specifiche di una sonata classica, e quali sono stati i cambiamenti ad essa apportati dai romantici?
Se dovessi descrivere più minutamente la mia idea dello stile classico, direi che si tratta di uno stile in cui la struttura è molto chiara, simmetrica e articolata. Benché le emozioni siano chiaramente presenti nel cuore di tale stile, esse restano soggette a un senso di eleganza, decoro e proprietà. Quando arrivò Beethoven e iniziò a scrivere i suoi pezzi, con le loro violente esplosioni, dovette sconvolgere più di uno nei circoli aristocratici in cui si potevano ascoltare le sue composizioni.
La sua musica rompe gli schemi, ma con proprietà; essa è rivoluzionaria nel senso che le emozioni appaiono assolutamente sbrigliate e incontrollate, fino al punto che esse prendono possesso del brano. Il pezzo non è più un bellissimo edificio di architetture armoniose e di completa simmetria. Le emozioni sfrenate forano la maschera, poiché la musica di Beethoven non parla d’altro se non della realtà universale degli uomini. La sonata nella quale tutto ciò emerge chiaramente, secondo la mia opinione, è l’‘Appassionata’.
Come si può descrivere una tempesta in musica? Sia una tempesta reale che una tempesta di emozioni?
La Sonata ‘La Tempesta’, op. 31 n. 2, è caratterizzata da violente esplosioni di emozioni legate insieme da lunghi intervalli di passaggi poetici. L’apertura è un semplice accordo o una nota che riflette sulla bellezza dell’armonia, partendo dal fondo e salendo verso la cima; ma essa è ben presto interrotta da un torrente di trilli e vibrazioni, seguito di nuovo da una riflessione simile alla prima ma redatta in un’altra chiave.
Nella prima esposizione il tema riflessivo è ulteriormente messo in rilievo da un recitativo che Beethoven scrisse in piccole note, chiedendo all’esecutore di suonare con molta lievità, dando pedale in modo da lasciare che tutte le corde suonassero simultaneamente. Questo passaggio è la fonte del recitativo dell’op. 110, la sua penultima sonata. Ma è il suono dei pensieri e delle riflessioni, non delle parole parlate. Per concludere questo secondo CD, vi ho aggiunto l’inevitabile ‘Per Elisa’, le 32 Variazioni WoO 80 scritte su un originario tema in do minore e le 10 Variazioni ‘La stessa, la stessissima’ dal Falstaff, WoO 73, su un tema di Antonio Salieri. La forma della variazione, difficile da un punto di vista tecnico, era usata a quel tempo per dimostrare la virtuosità e la prontezza di spirito di un musicista. Si può dedurre tutto questo da una lettera di Beethoven a Eleonora von Breuning del 2 novembre 1793, in cui scrive nel post scriptum: «Le variazioni sono relativamente difficili da suonare, specialmente il vibrato nella coda, però non si allarmi troppo, essendo esse tanto costrette da esigere solamente che venga eseguito il tremolo, lasciando perdere il resto. Non avrei mai scritto questo brano in questo modo, se non avessi osservato occasionalmente che spesso c’era a Vienna un individuo o un altro che, il giorno dopo un’esecuzione, trascriveva alcune peculiarità della mia musica, gabellandole per proprie (per esempio l’abate Gelinek). Perciò, avendo concluso che una parte di queste cose sarebbe presto comparsa, risolsi di affrontarle in anticipo. Un’altra ragione era anche il proposito di confondere alcuni dei maestri di pianoforte del luogo. Una parte di essi è mia mortale nemica. Così intendevo vendicarmi di loro con questa strategia, sapendo che essi sarebbero stati richiesti una volta o l’altra di suonare le variazioni, e allora per questi gentiluomini le variazioni non avrebbero costituito un grande vantaggio». Era dunque nello spirito di una burla che le Variazioni WoO 73 erano state scritte. Si tratta di un ritratto in musica del divertente, ubriacone e instabile personaggio di Falstaff; nella Variazione IX si sente l’eco dei suoi singhiozzi.
Le 32 Variazioni WoO 80 hanno molto in comune con la Ciaccona di Johann Sebastian Bach, BWV 1004. È un testo che conosco molto bene e in profondità perché è stato il soggetto del mio primo disco, intitolato appunto Chaconne, in cui ho messo insieme nello stesso CD tre trascrizioni per pianoforte, scritte ciascuna in un secolo diverso. Quando un compositore fa una trascrizione ricrea il pezzo, ma allo stesso tempo – nel quadro dell’inevitabile dualità incrociata tra autore originale del testo e autore secondario o interprete del medesimo, tra testo vecchio e testo nuovo – egli ne sta rivelando un volto nuovo, quello che lui scorge nell’originale. In questo senso, vedo un legame molto stretto tra la Ciaccona di Bach in re minore e le 32 Variazioni di Beethoven in do minore. Mentre la Ciaccona di Bach è un tema di quattro misure sviluppato e giocato in 64 variazioni, il tema di Beethoven è costruito su 8 misure e sviluppa più di 32 variazioni. Entrambi i pezzi sono della stessa lunghezza e le sezioni di mezzo di ciascuna sono dolci richiami (forse dell’‘amata immortale’ di ciascuno) in una tonalità maggiore, mentre la parte restante è molto drammatica e perfino tragica, sia per carattere che per tonalità. Benché sia difficile stabilire una certa relazione tra queste due opere, sono quasi certa che Beethoven conoscesse e ammirasse questo lavoro di Bach, e che le variazioni in questione altro non siano se non la sua interpretazione di tale opera. Come si vede nel dialogo fra musicisti, compositori e interpreti l’uno dell’altro, il gioco delle dualità e dei riflessi è come una sequenza di specchi che si perdono l’uno nell’altro.

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