DUE

«Maschio e femmina li creò». Una frase che riassume un’evidenza per molti, rassicurante nel rinviare a due realtà precisamente distinguibili e alternative: l’essere maschi e l’essere femmine. Tutto ciò è talmente ovvio che per i sistemi giuridici di molti Paesi nel mondo è diventato necessario qualificare le persone come maschi o come femmine. Una tale distinzione sembra così radicata nella nostra cultura da inibire sul nascere la concettualizzazione di generi ulteriori o la possibilità di riconoscere un diritto all’indeterminatezza di genere. Sul binarismo maschio/femmina si fonda l’organizzazione dell’intera compagine sociale.
Nell’introduzione al bel libro di Lia Viola Al di là del genere (2013), Francesco Remotti propone una sintesi delle tre prospettive a cui si può ricondurre la dicotomia maschile/femminile: una naturalistica, adottata dal senso comune, che si avvale di argomentazioni proprie delle scienze naturali, in base alla quale le categorie di genere non sono frutto di un qualche intervento culturale, ma sono già date in natura; una teologica, che riconduce a un intervento divino la distinzione maschile/femminile a partire da un’originaria androginia; e, infine, una umanistica, che condivide con quella teologica la visione di un’androginia delle origini, ma assegna il gesto del separare alla società in cui viviamo. La sottolineatura interessante di Remotti sta nell’evidenziare come il punto di vista naturalistico e quello teologico si possano ben armonizzare in un’ottica creazionista, secondo cui la divinità che ha creato la natura ha plasmato anche il maschile e il femminile.
Il sesso è un concetto strettamente legato alla biologia. Eppure, è sbagliato dare per scontato che si nasca o maschi o femmine, come ci ricorda l’esistenza di persone intersessuate.
Il genere, invece, ha una connotazione socio-culturale: sintetizza un insieme di caratteristiche della persona in base alle quali di essa si dice che è maschile o femminile. Tale dicotomia, rassicurante nella sua schematicità, non è però condivisa da tutti. Secondo alcuni, la concettualizzazione dei corpi ha un riflesso sulla differenziazione dei sessi, così che fino all’Illuminismo la centralità del maschile sul piano socio-culturale ha reso quasi irrilevante la specificità del sesso femminile, differente dal primo non per qualità, ma per grado. Una tale graduazione serviva da sostegno a una società basata sull’assenza di peso della donna nella vita pubblica: se il grado maggiore di dignità sociale apparteneva solo al genere maschile, il corpo femminile poteva essere più facilmente costretto nello spazio domestico. La dimensione corporea di ciascuno determinava il suo posto nel mondo. E ciò valeva anche per l’ambito del diritto.
In psicoanalisi, lo sviluppo dei concetti di ‘sesso’ e di ‘genere’ è stato notevole a partire dalle teorie freudiane di inizio Novecento, in base alle quali ‘l’anatomia è un destino’. Solo negli anni ’30-’40 del secolo scorso viene introdotta l’idea del genere come categoria culturale. Il corpo diventa, sul piano simbolico, rivendicazione di diritto.
Dal punto di vista filosofico, negli anni ’90 Judith Butler supera il dualismo natura/cultura affermando come sia il genere sia il sesso risultino dimensioni completamente costruite. Il che non vuol certo dire che il sesso non esista in ‘natura’. Il punto è che, nel momento stesso in cui viene nominato, il sesso viene interpretato, reso ‘culturale’ dal linguaggio stesso che utilizziamo. La filosofa statunitense ritiene che attraverso il corpo si possa rielaborare il discorso sul corpo. E questo perché il genere è una costruzione culturale permanente che si fonda sul compimento più o meno consapevole di quotidiani ‘atti genderizzati’. Attraverso un processo di performatività (ossia di costruzione di senso) possiamo rimettere in discussione il genere e quindi il corpo sessuato. L’esperienza trans diventa per questa via emblematica del divenire-Altro in senso performativo, ovvero della rielabora-zione attraverso il corpo delle norme sociali sul genere. In tal guisa, il genere non è freudianamente un dato naturale inscritto nel corpo, bensì una proiezione del culturale sul naturale e una successiva naturalizzazione del culturale, che appare quindi naturale. Dunque, il genere non coincide con il binarismo maschio/femmina, pertanto non si possono pensare solo due generi, bensì una molteplicità di generi, frutto della costruzione personale attraverso atti performativi.
Anche l’antropologia ha contribuito a far riesaminare il rapporto tra organizzazione sociale e identità di genere. Si pensi al caso dei Nuer del Sudan, presso i quali le donne sterili socialmente sono considerate uomini, sposano una donna e le procurano un ‘maschio-marito’ che ha la funzione di metterle incinte. A svolgere il ruolo di padre dei nascituri sarà il marito-donna, che darà loro il proprio nome. Va ricordato, inoltre, che presso molte culture si osserva il fenomeno del cosiddetto ‘terzo genere’, con cui impropriamente si denomina un’identità non riconducibile a quella maschile o femminile, e comunque non immediatamente condizionata dal dato biologico, sicché coloro che si ritengono appartenenti a questo, spesso si collocano in una situazione intermedia tra i due poli del maschile e del femminile, oppure si considerano completamente ‘altro’ rispetto alle categorie diffuse di maschio o femmina. Potremmo dire, con una semplificazione linguistica, che si sentono ‘neutri’. In India, gli hijras, che in urdu vuol dire ‘eunuchi’, sono probabilmente l’espressione più nota di persone che si definiscono come appartenenti al terzo genere. Oltre che in questo Paese, comunità numericamente significative si trovano anche in Pakistan e in Bangladesh. Da segnalare è la totale accettazione sociale in Thailandia dei cosiddetti kathoeys (uomini in transito verso il genere femminile) e toms (dall’inglese tomboy, donne in transito verso quello maschile).
Infine, in una prospettiva storica non si possono dimenticare presso i nativi d’America i cosiddetti Two-spirits, il cui genere non era riferibile né al maschile né al femminile. Nelle culture indigene americane c’erano pure divinità che noi oggi definiremmo ‘transessuali’. Gli antropologi hanno dimostrato che gli inca e i maya, oltre che i già ricordati nativi d’America, avevano in grande considerazione sul piano sociale le persone che non si conformavano agli standard dei ruoli di genere. La colonizzazione sovvertì questo ordine socio-culturale fino a distruggerlo.
Etichettare gli esseri umani nel tentativo di dare ordine alla realtà significa creare identità potenzialmente in conflitto. Immaginare un’altra persona come completamente diversa da sé blocca ogni tentativo di comunicazione empatica e, in casi estremi, volge verso la sua reificazione. Privata della sua umanità, ridotta a cosa, quella persona può essere distrutta, proprio come si distrugge una cosa: bruciata, sfigurata con l’acido, impiccata. Sarà una donna o un uomo, una persona trans, una lesbica o un gay, un ragazzo o una ragazza che vengono fatti prostituire, una tossicodipendente; di volta in volta sarà un soggetto diverso, ma ciascuno potenzialmente riducibile a cose, a bersaglio di quel videogioco tridimensionale che sta diventando la vita.
Non basteranno le parole femminicidio, transfobia, omofobia, violenza di genere, emarginazione sociale, né le commissioni o gli esperti governativi (più o meno qualificati) a descrivere la realtà di questi nostri anni, per aiutarci a comprenderla e ad affrontarla. Prima di ricorrere al codice penale, simbolicamente necessario, ma strutturalmente inefficace nel rimuovere alla radice le più diverse forme di violenza, occorrerebbe ricordare ogni giorno a noi stessi – prendendo a prestito le parole di Simone Weil – che «in ogni essere umano vi è qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona. E neppure la persona umana. È semplicemente lui, quell’essere umano», che si senta uomo, donna o nessuno dei due.

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