DUE

Tra i numeri, il due occupa una posizione privilegiata, in quanto unico numero primo pari, e in quanto divisore comune di tutti i numeri pari: è infatti il solo in grado di scindere l’unità in due parti identiche, producendo simmetria; la simmetria, a sua volta, infonde rassicurazione e quiete, al riparo dalle asperità e dagli spigoli dei rapporti asimmetrici.
E, a ben vedere, la sostituzione del due all’uno, sia nel caso dell’unità che si spezza sia in quello dell’unità che si raddoppia, assolve talvolta a una funzione particolare: misurare le variazioni del gusto. Mi riferisco qui al mio specifico campo d’indagine, la letteratura inglese, dove il ricorso allo sdoppiamento da forma di controllo e argine delle passioni del Neoclassicismo secentesco si trasforma, muovendo verso la modernità, in strumento di esplorazione del profondo e perturbante perdita di orientamento.
Prendiamo il secondo Seicento inglese, un’epoca – almeno inizialmente – distante anni luce dalla cultura elisabettiana e da Shakespeare. Brevemente, la storia. Morta la regina Elisabetta (1603), l’equilibrio da lei sapientemente mantenuto tra forze potenzialmente conflittuali – religiose, economiche, sociali – si spezza e già durante il regno del suo successore, Giacomo I Stuart, il Parlamento mostra segni sempre più forti di insofferenza nei confronti della corona: se per ora non viene contestato apertamente il re ma solo i suoi cattivi consiglieri, durante il regno di suo figlio Carlo I il contrasto sfocia nella Rivoluzione Puritana e, nel 1649, nella decapitazione del re – anticipando la ghigliottina di Luigi XVI di quasi un secolo e mezzo. Il regime repubblicano non sopravvive alla morte di Oliver Cromwell, il Lord protettore, e nel 1660 Carlo II ritorna dall’esilio francese.
Tralasciando le conseguenze politiche del ventennio rivoluzionario, sul piano culturale l’effetto più devastante è rappresentato dalla chiusura dei teatri, per i puritani luoghi di sedizione e immoralità. Riaperti per volontà del re, la situazione che gli impresari si trovano a fronteggiare è sconfortante: attori professionisti invecchiati e mancanza di nuove leve – un fatto tanto più grave visto che sono maschi giovani a ricoprire i ruoli femminili –; oltre agli interpreti, sono invecchiati i repertori, improponibili a un pubblico sempre più incline ad apprezzare la cultura francese e a considerare rozza la tradizione prerivoluzionaria. Non piace Il sogno di una notte di mezza estate e neppure Re Lear; Amleto viene amputato di tutte le scene ‘inutili’, e senza scrupoli viene alterato Romeo e Giulietta.
Situazione difficile dunque, ma allo stesso tempo gravida di promesse: l’intervento del re, infatti, istituisce un sistema di duopolio in cui due teatri e due impresari – e si potrebbe riflettere sulla cifra della competizione – si contendono il favore del pubblico londinese, sperimentando, innovando; soprattutto, utilizzando al meglio il permesso accordato da Carlo II alle donne di recitare, per la prima volta nella storia d’Inghilterra. Una concessione destinata a modificare radicalmente la cultura teatrale, innanzitutto per la proliferazione delle ‘attrici’, donne belle e promiscue, piene di talento e solitamente analfabete che in più d’un caso passano dai trionfi in palcoscenico al letto del re – come Moll Davis o Nell Gwynn. Sono loro a stimolare in tempi brevi il formarsi di una nuova drammaturgia – apripista gli uomini, seguiti in breve tempo dalle donne, Aphra Behn sopra tutte – in cui, oltre ad applicare le teorie del neoclassicismo di marca francese, si sfrutta il potenziale del loro corpo esibito per allettare il voyeurismo degli spettatori: le donne, più o meno vestite o travestite da maschi, spesso garantiscono il successo di spettacoli fiacchi, e producono duplicazioni – a volte moltiplicazioni – di ruoli e di intrecci. La simmetria diviene principio strutturante del comico e del tragico, generi in cui, per così dire, ‘mette ordine’ e semplifica i messaggi: nella commedia, duplicando le trame si creano gerarchie in cui il basso è occupato dalla sessualità spregiudicata, l’alto dalla virtù trionfante; nella tragedia, la duplicazione scava un solco profondo tra bene e male, e non di rado costruisce un paradossale lieto fine che decreta la vittoria del bene.
Un formidabile banco di prova della nuova sensibilità diviene il Macbeth per mano di William Davenant, figura cardine del teatro inglese secentesco: grazie a lui nel 1664 prende forma un modello, costruito appunto sul doppio, destinato a una grande fortuna nel corso di Sei e Settecento. Di Shakespeare il copione ‘adattato’ conserva una riconoscibilità di superficie, e ne mette a tacere la vera natura, negando la complessità, il viluppo di bene e male che a nessuno lascia scampo – malinterpreta il potere Duncan, il benevolo re assassinato, non si salvano dal suo torbido contagio il campione Macduff e neppure l’erede al trono Malcolm, ambiguo restauratore dell’ordine. E invece Davenant, sdoppiando la trama, conduce al trionfo le forze del bene e al pentimento Macbeth in punto di morte: isolando il male, opta per una facile leggibilità dell’esistere di cui è garante la giustizia poetica. Sicché, simmetricamente, si confrontano i fantasmi, quello di Banquo e quello di Duncan; si duplica la coppia assassina di Macbeth e Lady, contrastata dalla coppia virtuosa di Macduff e della sua Lady: da quest’ultimo personaggio svaniscono le sconcertanti ombre shakespeariane che portavano la moglie ad accusare il marito (il campione del bene, appunto) di averla abbandonata al massacro insieme ai suoi piccoli. Al principio ordinatore si adeguano infine le streghe, rinunciando al messaggio più perturbante di tutti che fin dalla prima scena imprimeva alla tragedia il segno del sovvertimento e del caos: lo sconvolgente assoluto shakespeariano «il bello è brutto e il brutto è bello» si relativizza e si abbassa, facendosi commento del meteorologico bello e brutto tempo.
Se lo spazio oltreché il tempo non fosse tiranno, si potrebbe vedere l’applicazione nel comico: ne La Tempesta, a esempio, adattata nel 1667 da Davenant e Dryden, che sfruttano tutte le opportunità della sex comedy in un funambolico raddoppio di ruoli: Miranda e Ferdinando affiancati da Dorinda e Ippolito, Ariele unito alla compagna Milcha, Caliban, incestuosamente, alla sorella Sycorax.
Cambiando genere e passando dal teatro al romanzo, prolifera il doppio, declinato in vari modi sin dal frontespizio, dove reclama attenzione lo pseudonimo: il nome liberamente scelto che a volte si sovrimpone e nasconde, a volte smentisce o interpreta il nome imposto da altri alla nascita. Una maschera indossata soprattutto da alcune scrittrici dell’Ottocento per ricavare ‘impunemente’ spazi di libertà nell’Inghilterra vittoriana, dove la pratica femminile della scrittura è perlomeno sospetta. Tra i molti esempi possibili – i nomi di Acton, Currer, Ellis Bell celano le sorelle Brontë; quello di George Eliot, Mary Ann Evans –, cito il solo caso di Elizabeth Gaskell (1810-1865), entrata nelle storie letterarie come Mrs. Gaskell, Signora Gaskell, ‘protetta’ dal cognome del marito e dal suo ruolo familiare: schermata cioè da un’identità che privilegia domesticità e mitezza. In realtà, Elizabeth convenzionale non lo è affatto, è coraggiosa e perfino temeraria, capace di esporsi allo scandalo e di sconcertare i lettori borghesi scrivendo di industrializzazione e omicidi politici, di ragazze madri viste come vittime ingenue dello sfruttamento maschile. Se «signora» suggerisce illusioni di domestica pacatezza, non così accade con lo pseudonimo degli esordi, il maschile «Cotton Mather Mills, Esquire», che sembra costruito su significati mobili e complessi. Scomponendo, cotton mills rimanda direttamente a Manchester, l’amata/odiata città industriale, grigia di fumo e lacerata dai conflitti, in cui decide di vivere; Cotton Mather è il cacciatore di streghe della Nuova Inghilterra, che entrerà dopo qualche anno in uno dei suoi racconti più belli, Lois la strega; e mather non può non farsi prodotto di fusione di mater e mother, evidenziando la sua natura di madre affettuosa e straordinariamente ‘moderna’ di quattro figlie.
Mi avvio rapidamente alla fine, riflettendo come il romanzo sia un luogo privilegiato del doppio: vi prolifera l’alter ego, che invoglia talvolta a dislocare l’analisi oltre le pagine, interrogandosi su quale rapporto si instauri tra l’autore – l’autrice – e le sue creature, su quali legami si intreccino con la figura dell’altro: l’alieno, il mostruoso, il diverso in superficie, ma non nel profondo. Si pensa ad Aphra Behn che a fine Seicento rende contigui il personaggio femminile e il principe nero ridotto in schiavitù, torturato e barbaramente ucciso; si pensa a Mary Shelley e all’Essere mostruoso, il suo distopico Adamo di inizio Ottocento condannato alla solitudine; si pensa ancora a Virginia Woolf, alla sua altoborghese Signora Dalloway, oscuramente implicata nel destino del reduce della Grande Guerra visionario, folle e suicida.
Chiudo sul celeberrimo doppio di Robert Louis Stevenson, la spaventosa creatura che ‘si sprigiona’ dallo scienziato e sfugge al suo controllo: spontanea sorge di nuovo la domanda sui nomi, sul suono di morte che marchia la figura della serietà perbenista (Jekyll: je kill, io uccido) e individua il male che in essa si annida (Hyde: hide, nascondere, nascondersi); perturbante è la riflessione sullo scienziato che ricorda il piacere della metamorfosi in cui, uscendo dalla rispettabilità vittoriana ed entrando nel corpo del male, gode di splendida libertà e giovinezza.

multiverso

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