DUE
Vita di città, vita di campagna
di Arnaldo Cecchini
C’è un’irriducibile dualità, un conflitto costante, un’opposizione, tra le due modalità di insediamento della nostra specie, cioè tra città e campagna. Un ‘due’ che storicamente divide gli insediamenti umani in categorie distinte e complementari; questa contrapposizione, nella sua forma pura, ha avuto un margine definito, un confine certo, una frontiera netta, quella delle mura, le quali sono state un elemento necessario della città storica.
Un confine, quello delle mura, che ha influenzato la forma della città, ne ha aumentato la densità sino ai limiti massimi, ha contribuito alla sua insalubrità. Ma la città si è slabbrata oltre le mura, vicino alle porte sono nati i faubourgs. Per la sua sopravvivenza essa ha accolto l’agricoltura all’interno delle mura, principalmente per poter resistere agli assedi. E, soprattutto, ogni giorno, anzi ogni notte, un flusso continuo di prodotti si riversava nei mercati generali, ‘ventri’ della città, dalle campagne circostanti. I mercati generali, come quello de les Halles di Parigi, protagonista del romanzo Il ventre di Parigi (1873) di Émile Zola, sono il punto di incontro tra città e campagna.
In campagna, di notte si dorme, il buio domina, ci si corica al calar del sole e ci si sveglia alle prime ore dell’alba, se si vuole si può stare da soli. In città, la vita è incessante e la notte si anima di luci e attività, il piacere e il peccato ne occupano i teatri, i caffè, le strade; si può riuscire a non restare mai soli, come accade a Londra al protagonista de L’uomo della folla (1840) di Edgar Allan Poe.
La dualità città/campagna porta con sé quelle di notte/giorno, solitudine/moltitudine, luce/buio. Ma non quella tra naturale e artificiale, vogliamo sottolineare.
Questa dualità, tra due aspetti del mondo trasformato dall’uomo, ha acceso in fasi diverse la costante resistenza della campagna al dominio della città, una resistenza che una volta era anche dei campagnoli, e che ora è stata sostituita dalla forza della ‘natura’ e dalla sua cattiveria, dalla forza dei suoi processi entropici, dalla sua irriducibile potenza.
Campagna e città sono due forme artificiali di organizzazione del territorio che hanno messo in crisi l’armonia spontanea, naturale, degli esseri umani con la natura, presente in qualche modo prima della scoperta dell’agricoltura: sono entrambe espressione della capacità di dominio della nostra specie, della sua capacità di immaginare e costruire il futuro. Due entità costrette a convivere, anche se la campagna può esistere senza la città, mentre quest’ultima, sino a qualche decennio fa, della campagna non poteva fare a meno quasi mai.
Due forme di vita, due modi di pensare, due culture.
Da un lato, il disprezzo dei cittadini per i villani, i rustici – un disprezzo concreto, materiale, permanente –, ma anche l’invidia degli abitanti della città per la campagna, una campagna immaginaria, falsa, però: un’invidia letteraria e incostante.
Dall’altro lato, l’‘urbafobia’ delle utopie urbanistiche, quasi sempre spaventate dall’espansione costante della città, dalla progressiva espulsione di ogni attività agricola, di ogni spazio non costruito, di ogni area verde al suo interno, immagina – non potendo fare a meno della città, ma non amandola (la ville mal-aimée è una costante in una parte della letteratura ottocentesca) – città piccole, ‘assediate’ dalle campagne, autosufficienti, in armonia con il contesto.
L’immagine della città, sporca, pericolosa, immorale, insana, dissipativa (non lontana dal vero), contrapposta a quella della campagna, linda, tranquilla, immacolata, salubre, sobria (totalmente falsa) è alla base delle cosiddette ‘utopie urbanistiche’ di Isaac Asimov, descritte nei tre gialli fantascientifici Abissi d’acciaio (1953), Il sole nudo (1957), I robot dell’alba (1983): un dualismo che in quella trilogia è ancora più estremo, una terra tutta ‘città’ contrapposta a pianeti esterni colonizzati dall’uomo, più o meno radicalmente solo ‘campagna’. Tale dualismo, sembra intravvedersi, può sfociare in una speciazione.
La ‘rurafobia’, invece, non ha bisogno di darsi espressione; più che una fobia è un disinteresse, una distrazione, un’indifferenza, uno sfruttamento, banale e ovvio.
La cifra dell’urbanizzazione degli ultimi decenni non è l’espansione crescente della città (che per la prima volta supera in termini di popolazione la campagna); il fenomeno più significativo è anzi la progressiva scomparsa della campagna: il suolo si divide tra suolo cementificato e suolo abbandonato o inselvatichito, mentre quello agricolo si riduce; uno dei due poli della dialettica degli spazi antropizzati scompare, mettendo la città brutalmente di fronte alla natura senza l’uomo.
La potenza della natura, cui la sopravvivenza della nostra specie è indifferente quanto quella di tutte le altre, è mostrata con una grande efficacia nel libro di Alan Weisman Il mondo senza di noi (2007): la scomparsa improvvisa e totale della nostra specie lascia alle forze della natura il tempo e l’agio di riconquistare e riplasmare gli spazi antropizzati, potremmo chiamarla la presa di potere del ‘terzo paesaggio’.
La dualità città/campagna è quella tra le due forme della natura domata, entrambe artificiali, entrambe pianificate (paradossalmente più la campagna che la città), una dialettica sempre conflittuale – solitamente all’insegna dell’oppressione della città sulla campagna – che però ha consentito equilibrio e sviluppo (non sempre e non dovunque, bisogna ricordarlo) sino a che è esistita.
Tuttavia, se uno dei poli della dualità scompare, se questa coppia si scinde, è l’assetto complessivo del territorio che diviene fragile, tanto che ogni pioggia appena consistente provoca alluvioni, frane, dissesti.
È un ‘due’ da cui ripartire per chi di governo del territorio si occupa. E non per le ingenuità delle generalizzazioni sull’agricoltura di prossimità o sul chilometro zero, o per la diffidenza verso l’uso accorto di tecnologie nel processo produttivo in agricoltura.
L’autosufficienza alimentare dei territori (definiti come? grandi quanto?) è di per sé un non-senso e contrasta con la storia.
Ma che la città (eccezioni molto rare a parte) abbia bisogno della ‘sua’ campagna, di un’area ben definita e organizzata di territorio coltivato e curato, e che questa necessità, da un punto di vista economico complessivo, conceda uno spazio importante all’agricoltura di prossimità, appare – almeno dal punto di vista del governo del territorio – imprescindibile e rilevante anche per la sperimentazione tecnologica, la conservazione della diversità, la cultura.
L’intrusione della campagna dentro la città (quella che viene chiamata urban farming), senza cedimenti nostalgici, appare infatti, da un punto di vista ambientale e urbanistico, una risposta efficace al bisogno di verde, alla riduzione dell’inquinamento e dei gas serra.
La sopravvivenza gloriosa della città, che è in fondo la nicchia ecologica della specie umana, non potrà esserci se si darà l’annichilimento della campagna: la reductio ad unum delle forme dello spazio antropizzato è premessa (e conseguenza) della crisi della città, collegata all’altra reductio ad unum che ne è la causa prima, ovvero l’accettazione del pensiero unico come criterio di governo delle città.
Piuttosto che passare da due a uno, potremmo considerare l’idea di lasciarci un poco sedurre da un terzo protagonista, che a un certo punto è apparso in questa riflessione, quello che con una felice intuizione Gilles Clément, ha chiamato ‘terzo paesaggio’: «[…] se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana subito si scopre una quantità di spazi indecisi, privi di funzione ai quali è difficile dare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio dell’ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. Dove i boschi si sfrangiano, lungo le strade e i fiumi, nei recessi dimenticati dalle coltivazioni, là dove le macchine non passano» (Manifesto del terzo paesaggio, 2005).
A posto del confine, dunque, la frontiera, il margine, lo spazio indeciso; al posto della scomparsa della dualità, la ricostituzione di una pluralità, o meglio di dualità annidate.
La prima dualità sta nel rapporto tra ambiente antropizzato e ambiente abbandonato, derelitto; le zone abbandonate sono aree vitali, necessarie, come la frontiera tra le due Coree, la zona demilitarizzata di 907 chilometri quadrati (248 chilometri per 3 e mezzo) che da oltre sessant’anni è completamente vuota di essere umani, a disposizione del ‘terzo paesaggio’, una concentrazione incredibile di bio-diversità.
La seconda dualità sta nel rapporto tra le due principali modalità di spazi antropizzati, quello rurale e quello urbano, che è bene non siano separate da un confine netto, ma mantengano frontiere permeabili e intrusioni reciproche, ricostituendo la dualità interagente del taijitu, il simbolo che rappresenta lo ying/yang, un due dinamico che si complementa e si contamina.
Si tratta di una sfida di estrema complessità: l’esplosione urbana che spesso si manifesta come sprawl (lo ‘sdraiarsi’ informe della città compatta nella campagna e al posto della campagna), ma che non è solo sprawl, è la versione moderna dell’oppressione della città verso la campagna, con una pressione distruttiva che nel passato si è data più volte, in modi diversi, ma sempre con effetti catastrofici. Erano però effetti solo locali: per la prima volta nella storia tale processo investe il territorio circostante ovunque, verso una potenziale catastrofe globale.
Porvi rimedio non è semplice, anche perché non si tratta di un’unica tendenza, bensì di fenomeni diversi per morfologia e per cause, tutti accomunati dalla distruzione della campagna; forse non è il ritorno verso la città compatta la soluzione, ma il considerare alcuni processi di diffusione come ‘semi’ di una possibile urbanità rurale, da accompagnare con ‘semi’ di ruralità urbana.
Gli spazi interstiziali, le aree dismesse della città non vanno necessariamente usate, anche se spesso ri-usarle è un’alternativa essenziale per evitare il consumo di suolo: possono anche utilmente diventare pezzi di campagna o essere abbandonati a processi di rinaturalizzazione.
Il due è instabile, la tendenza spontanea, entropica, è verso l’uno; mantenere la dualità sarebbe il risultato di una proiezione verso il futuro, di un progetto, appunto. Quello che serve alla città e alla campagna, quello che serve al paesaggio.