FLESSIBILITÀ
Bosco di Courton, 1918
di Pierluigi Cappello
Un reggimento di fanteria guadagna la protezione di un bosco, a ridosso del fronte occidentale, ottantotto anni fa. Il bosco è un bosco di luglio e non è molto lontano dalla prima linea, ma la sua bocca verdeggiante è una capsula di silenzio dimenticato nei cuori di coloro che hanno combattuto.
«Caro Camillo, sono stato dieci ore in combattimento, sotto un fuoco violentissimo. Mio fratello e io siamo salvi non so come e incolumi: ma mi sento rotto, sfasciato – una specie di congelazione del cuore, con qualche sprazzo di molta tristezza. Fu la notte di S. Giuseppe… Addio, addio… mi sembra che non vivrò mai più, tuo Angelo. (Ora siamo sicuri e si scherza)».
Uomini che rientrano dal fronte. Questa è una lettera di Angelo Barile, indirizzata a Camillo Sbarbaro, il 19 marzo del 1916.
Se c’è un colore che domina nei ricordi della prima guerra mondiale, è il colore del fango. Uomini costretti a farsi fango, a rompere la terra, a ridurre la propria umanità per non vedere la morte che riempie gli occhi, soldati che non alzano mai la testa, tenendo lo sguardo ben dentro all’impasto senza forma che li ha generati. «Addio, addio… mi sembra che non vivrò mai più».
Sono sicuri e scherzano i ragazzi del XIX reggimento di fanteria del Regio Esercito Italiano, protetti dal bosco di Courton, lontani dalla guerra. Magari la giornata di luglio è una giornata soleggiata, e forse il fresco delle foglie è appena appena mosso da una brezza e il bosco sussurra ai loro corpi con la serenità di un mare in pace, come quando le acque dànno confidenza alla pelle, ferme. E allora quei volti, che prima erano tutti uguali, riuniti in uno solo dalla fatica e dalla paura, schiudono pian piano i loro lineamenti di uomini e il soldato riconquista il suo essere marito, fratello, figlio. Ognuno di loro è un luogo di rinascita. Alcuni ragazzi cominciano a giocare, più collegiali in gita che soldati, finché la guerra richiude il pugno su quella pace e il silenzio del bosco è una pancia squarciata; da chilometri di distanza l’artiglieria ha sorpreso la tregua del reggimento e bombarda a schrapnel, i proiettili esplodono a mezz’aria e seminano nell’ombra biglie d’acciaio che tranciano, sfondano, separano carne da carne; non c’è riparo alla propria paura, la morte sceglie a casaccio i suoi corpi rivoltati, anonima, senza occhi né bocca, serena nella sua devastazione. Restano rami rotti, una nevicata di foglie spiccate, l’immagine di una violazione senza ritegno, eloquente come il tenero di un palmo forato.
Ungaretti Giuseppe, soldato del XIX reggimento di fanteria, è sopravvissuto al bombardamento. Un cognome e un nome nella burocrazia del Regio Esercito, niente di più. Ma quel nome, partecipe degli altri, è seguito da un cognome che ha accompagnato le poesie del Porto Sepolto e designa alla vita un uomo che si è già riconosciuto ‘una docile fibra dell’universo’. Forse, nel silenzio senza reazione successivo alla tempesta, in quello spazio di vuoto prima dell’urlo, quell’uomo avrà afferrato un pensiero, uno solo, e quel pensiero sarà stato più o meno di questo tenore:
Noi siamo come le foglie degli alberi d’autunno
Come le foglie degli alberi d’autunno. Un albero, dalle radici al fusto, su su fino al trionfo delle chiome, rappresenta un’unità, tiene fermi terra e cielo. Una a una, d’autunno, le foglie cadranno. Separata dal suo ramo, la foglia ai piedi del fusto è l’interruzione di un ciclo. L’albero e il tappeto di foglie che torna alla terra diventano due realtà inconciliabili. Non più l’albero con foglie, ma l’albero e le foglie. Ungaretti insiste dentro questa scissura, dilata la sua voce e il suo silenzio fino al punto di allargarne i lembi e renderli evidenti. Così, diventa possibile indicare nell’albero l’albero della vita e nelle foglie i soldati del bosco di Courton e tutti gli altri esposti alla strage.
Sarà andata così, forse. Forse Ungaretti ha pensato ‘noi siamo’ prima di pensare ‘si sta’. Perché nel pronome ‘noi’ è ancora ravvisabile una sorta di umanità, dire ‘noi’ significa anche partecipare a qualcosa e farlo con uno slancio personale. Fosse pure la comunione nel conflitto. Ma il pronome ‘noi’, proprio in virtù di questa incandescenza nascosta, è insufficiente a esprimere il passo alienante della guerra. Allora è meglio l’impersonale ‘si sta’: due parole in uniforme, uno stare incerto nel mondo, aggrappati alla vita con la debole presa del picciolo di una foglia d’autunno
Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie
Nove parole, compresa la preposizione. Disposte così, una di seguito all’altra, sono materia sonora, un pieno dentro un vuoto, come una cima rocciosa immersa nel sereno. Roccia non ancora scalfita, parole che non sono ancora verso, ma cominciano a essere poesia.
Per chi scrive versi, il bianco della pagina è il colore dei silenzi, scalfirne la superficie imperturbata significa tracciare un solco dove risuoni, quasi fruttifichi, la nostra maniera di stare nel mondo. Per questo motivo ‘verso’ ha una qualche attinenza con la parola ‘versorium’, l’aratro che affonda la sua lama nel suolo. E il solco che, nel suo movimento di spola, la penna lascia dietro di sé, inoltrandosi nel bianco, ci riserva intatta la forza di una sfida gettata al silenzio. Andare e tornare, ‘vertere’.
Secondo la tradizione, Ungaretti avrebbe potuto tracciare due soli solchi, per dire del bosco di Courton:
Si sta come d’autunno
sugli alberi le foglie
Due settenari, perfetti. Si potrebbero perfino canticchiare, non stonerebbero, fischiettati, sulle labbra di un pastorello d’Arcadia. Potrebbero appartenere, senza sfigurare, a qualche canzonetta del Settecento, dentro come sono alla tradizione melica italiana. Ignorandone il contenuto – ma nemmeno tanto: potrebbero additare una qualche remota nostalgia – avrebbero la grazia di un polsino merlettato. C’è uno spazio di armonia (i due versi) e uno spazio di silenzio (il bianco della pagina) che asseconda l’armonia. Il punto è che il silenzio rimane fuori dall’argine dei settenari in questione, fa – per così dire – una corona di bellezza intorno alle parole e Ungaretti vuole che il silenzio irrompa nel corpo dei due versi. Perché, sistemate in questo modo – due settenari lievi lievi – queste parole sono cieche e non restituiscono in nessuna maniera la sacertà e il terrore di uomini la cui esistenza rimane drammaticamente in bilico; allora gli argini bisogna cominciare a romperli, bisogna fare in modo che il silenzio concorra a levarla alta, la parola, bisogna pensare che ogni parola sia ultima e prima e che il silenzio si raddensi intorno ad essa e che sia un silenzio grande, esitante, rispettoso
Si sta
come d’autunno
sugli alberi
le foglie
Ecco: quasi ci siamo. Il bianco ha fatto irruzione nei due settenari, scompaginandoli e ridando alle parole una gravità che assecondi la gravità di una guerra insensata. È l’intera Europa che cade dentro quattro versicoli. Tuttavia, c’è ancora qualcosa di incombusto. Il trisillabo tronco ‘Si sta’ è troppo regolare, scoppiettante, quasi, sottile come un suono d’ocarina; e poi il nesso ‘come’, così com’è, sulla stessa linea della parola ‘autunno’, depotenzia di quest’ultima la giusta tonalità di tenebra che deve avere. E qui Ungaretti fa una cosa inaudita: sposta il ‘come’ del secondo verso sulla stessa linea del primo, dando dignità di parola piena, significante (in poesia la posizione di fine verso è sempre una posizione privilegiata) a una parola che normalmente è ritenuta di servizio e, nel contempo, isolando tutto il buio del sostantivo ‘autunno’
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie
Questa è la poesia. L’allegro scoppiettare del trisillabo tronco si è interamente spento nel nesso ‘come’ che gli è stato affiancato, un nesso logico che non è più, soltanto, al servizio della similitudine, ma vive di forza propria, ha in sé il carattere sacro e l’essenzialità di un altare romanico spinto verso il vuoto, c’è tutto uno sforzo di precisazione che vibra dentro esso, il tremare della pronuncia di colui che cerchi la restituzione di un senso a qualcosa di insensato e, infatti, la parola ‘come’ si impenna, produce un istante di esitazione, prima di cadere nel rintocco da tamburo funebre della parola ‘autunno’, la più pesante della poesia: scricchiola già nella flessione della vocale ‘u’ del dittongo d’esordio per poi sfibrarsi nell’esplosione della dentale successiva: tunn – tunn – tunn… sono colpi d’artiglieria, questi, sembra quasi di avvertire il rinculo delle culatte, si sente l’eco che dilata i cieli sporchi del fronte occidentale. Il terzo verso, ‘sugli alberi’, ci invita a uno sguardo dal basso verso l’alto, condizionati in questo dalla preposizione; e noi, uomini di fango, vediamo chiari, seguendo il percorso dei fusti, i rami deserti d’autunno, fermi come graffi contro il cielo. Il quarto verso, infine, ‘le foglie’, si chiude in un sussurro e un soffio: i soldati-foglia del bosco di Courton in balia della semina del vento.
***
Tradizione significa dire attraverso il tempo; e Ungaretti, intrattenendo con la grammatica del verso un rapporto fondato sulla norma di un amoroso tradimento, ci pone davanti agli occhi il duplice significato della parola ‘tradire’. Parole vecchie di secoli – una stagione, un aspetto della natura – sono ricondotte alla luce ancora una volta nuove, ancora palpitanti di silenzio da una voce che si è fatta tesa, flessibile come un arco persiano.
«Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde // Di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto».