FLESSIBILITÀ

Il titolo che mi era stato proposto era: La flessibilità nei sistemi educativi. Ho preferito sceglierne un altro. E per due ragioni.

La prima è che il concetto di flessibilità, essendo variabile, complesso e ambiguo (come molti dei termini usati in epoca contemporanea), assume colorazioni diverse, a seconda dei contesti di esperienza e di conoscenza in cui viene usato, diventando spesso un facile slogan e ingenerando equivoci. Dirò che io gli antepongo il concetto dinamicità o dinamismo.

La formazione è infatti dinamica, non flessibile, essa implica una evoluzione e una trasformazione, periodi di passaggio, fasi di sviluppo e ostacoli, ma implica soprattutto quadri di riferimento concettuale, valori, idee guida che permangono nel tempo e nelle varie epoche storiche; occorre del tempo perché un paradigma educativo sia soggetto a riformulazione (come nel caso del passaggio dal paradigma dei fini sociali, al paradigma dell’educazione naturale, al paradigma del frammento). E questo sempre all’insegna della critica e della problematizzazione. Se invece ci si riferisce alla flessibilità si sottolinea soprattutto la mobilità, l’adattamento, il cogliere l’occasione, l’opportunismo qualche volta; tutte qualità che possono essere positive, ma anche negative, se non addirittura deleterie quando si perdono ancoraggi di fondo. Oggi abbiamo bisogno di orientamento formativo (non solo professionale) perché il ritmo della vita e degli eventi è troppo variabile, mutevole, ‘flessibile’. I giovani (ma non solo essi) hanno difficoltà di scegliere e di prendere decisioni: la flessibilità non aiuta, anzi si dovrebbe parlare di gestione della complessità e della creatività, che unisce pensiero convergente e pensiero divergente (G.M. Bertin, Educazione al cambiamento, 1976).

Il flessibile deve avere idee chiare, punti di riferimento costanti proprio per essere autenticamente flessibile, e allora meglio parlare di dinamismo del soggetto, di dinamismi interiori, di dinamicità della situazione e della relazione educativa. Avanzando infine una provocatoria proporzione, possiamo dire che, a livello personale, la flessibilità sta alla dinamicità come, a livello sociale, la globalizzazione sta alla internazionalizzazione.

La globalizzazione si focalizza sull’integrazione economica, sul settore degli affari e dei mercati mondiali, esigendo livelli minimi di regolamentazione politica; essa si caratterizza per le tendenze monopolistiche, il superamento dei tradizionali confini e giurisdizioni nazionali, la mobilità di persone e di beni attraverso reti di flussi intersecatisi, pervenendo a forme diversificate di sfruttamento. L’internazionalizzazione o, meglio, la dimensione ‘transnazionale’ riguarda la promozione della pace globale e del benessere delle persone attraverso lo sviluppo e l’applicazione di strutture internazionali, non solo a livello intergovernativo ma anche per mezzo di organizzazioni sovranazionali, la cooperazione e gli accordi tra le nazioni per il perseguimento del bene comune, l’internazionalismo come stile operativo, prodotto delle istituzioni democratiche in attività. La globalizzazione, come la flessibilità nel risvolto personale, appare essere un processo di disgregazione di punti di riferimento valoriali, sociali, culturali e fonte di degradi di vario tipo, senza proporre alcunché di significativo come alternativa, mancando essa di una circolarità e di una reciprocità democratica nell’uso della libertà e delle libertà (caratteristica quest’ultima della dinamicità). Insomma un processo, quello della globalizzazione e della flessibilità, caratterizzato da forti disparità e asimmetrie nell’uso degli spazi, dei beni, dei consumi, degli accessi, dei diritti e delle libertà mentali (J. Rifkin, L’era dell’accesso, 2000).

La seconda ragione è che i sistemi educativi non sono più tali, rispetto a quando si sono formati. Il concetto di sistema educativo è di derivazione ottocentesca e si saldava ai compiti dello Stato nazionale: le scuole, ma anche i vari luoghi di educazione (educazione non formale, informale, alfabetizzazione, ecc.), avevano il compito di formare il cittadino, creare coesione sociale, trasmettere i valori della classe dominante. Ora i sistemi educativi, in ragione delle mutate condizioni e del mutato potere degli Stati nazionali, nel contesto internazionale e sovranazionale, stanno rivedendo le loro funzioni tanto che un eminente studioso di educazione comparata, Robert Cowen (dell’Institute of Education di Londra e presidente della CESE, ‘Comparative Education Society in Europe’) ha avanzato l’ipotesi delle transitologies. Come viene concepito questo termine? Si tratta di un fenomeno della tarda modernità che concettualmente può essere definito come un più o meno simultaneo collasso e ricostruzione degli apparati statali (fra cui anche il sistema educativo), della stratificazione economica e sociale e del sistema dei valori; in particolare ciò coinvolge i contesti politici chiamati ad offrire una visione del futuro. Transitologies possono portare turbolenze sociali e si pongono in antitesi a qualsiasi teoria equilibratrice, ad assunzioni semplicistiche circa la linearità dello sviluppo sociale e trova impreparati gli studiosi (e i cosiddetti ‘esperti’) di fronte alle turbolenze della tarda modernità di cui tale fenomeno è un caratteristico sintomo. Si può però dire che alcuni concetti stanno emergendo abbastanza chiari: il concetto di ‘border’, di confine, di ‘diaspora’, di ‘filter’, di filtro, di flussi e di cornici, di ‘permeology and immunology’, di ‘mobility’. Urge comunque una teoria interpretativa, che sappia fornire un più sofisticato trattamento delle ‘impalpabili’ forze e fattori che incidono sui processi educativi. L’alternativa a questo è il supermercato della conoscenza, semplificato e riduttivo (J.L. Garcia Garrido, The European University Ahead Towards the Future, in «Education in Europe», 2002).

Mentre oggi più che di sistemi educativi, si parla di luoghi e contesti dell’educazione che non sono più scatole chiuse, autosufficienti e autoreferentisi, ma devono essere viste come inserite in (ed intrecciate con) uno spazio instabile di molteplici relazioni a livello regionale, nazionale e internazionale. In più il concetto di lifelong learning sta stravolgendo le concezioni precedenti: esso si presenta come una rete di apprendimenti.

In sintesi, il lifelong learning dovrebbe cercare di dare risposte: alla competizione economica e alle interdipendenze culturali; all’ipotesi della società della conoscenza; ad una più grande compatibilità, sostenibilità e comparabilità fra i luoghi e le forme di educazione; al sistema dei crediti di studio, da applicare anche in contesti non propriamente educativi, come il mercato del lavoro e delle professioni (è il motivo della trasferibilità); allo sviluppo della cooperazione fra università ed enti di formazione e di ricerca (disseminazione di best practices) che sfocia in una internazionalizzazione dell’insegnamento; ad una accresciuta mobilità di studenti, ricercatori, lavoratori (R. Albarea, ‘Knowledge Society’ e ‘Lifelong Learning’: prospettive e dilemmi, in «Metis», vol. XI).

Si tende a creare una sorta di ‘circolo virtuoso’ tra: offerta formativa qualificata (che si basa sulla ricerca scientifica); programmi integrati (partnership) con apporti provenienti da diversi ambiti di competenza; esigenze di base (dal mondo del lavoro, delle professioni, dalla società civile).

Se si va verso un sistema considerato più flessibile, questo, dal punto di vista autenticamente pedagogico, non va inteso nel senso di provocare una frammentazione dei comportamenti, degli indirizzi di studio, dei processi di apprendimento (frammentazione che causa disorientamento, indecisione, difficoltà di scelta) ma nella prospettiva (faticosa) di consentire maggiore aderenza ai bisogni e alle richieste della società, senza tradire i presupposti di rigore scientifico e le opzioni etiche. Tale è la sfida del futuro.

Allora perché concordia discors, e cosa sono queste ‘voci’?

Incomincio (o ricomincio) con una citazione tratta da Alfred De Vigny, dal suo romanzo Stello, apparso alle stampe nel 1832. Si legge un’affermazione di uno dei due personaggi del romanzo, il Dottor Nero (l’altro è Stello stesso): «L’analisi è uno scandaglio. Gettato profondamente nell’Oceano, spaventa e dispera il Debole ma rassicura e guida il Forte che lo tiene fermamente con la mano». Se noi sostituiamo alla parola ‘analisi’ il termine ‘autoeducazione’ la cosa si fa più chiara. L’autoeducazione è sfida e rischio ed è composta da più voci, talvolta in accordo talvolta in disaccordo fra loro. Il compito dell’educazione è quello di mantenere questa concordia discors, ricca di progettualità e creatività. Trama e ordito, armonia e melodia, decorso orizzontale e simultaneità verticale, avvicinamento e allontanamento, fili e grovigli, fughe e ‘stretti’, ecc.

Il processo educativo è una invenzione a due/tre/più voci (come le composizioni di Johann Sebastian Bach): è una invenzione perché è scoperta continua, di se stessi, del mondo, dell’altro; è per analogia un’opera musicale perché la scoperta di sé è un’opera d’arte, è a più voci perché è un gioco di resistenze e contrasti (J. Dewey, Arte come esperienza, 1951), sviluppi, evoluzioni e involuzioni, è antinomica perché gioca su paradossi e contraddizioni (B. Suchodolski, Educazione permanente in profondità, 2003; R. Albarea, Creatività sostenibile, 2006), è fatta di pieni e di vuoti (A. Canevaro e A. Chieregatti, La relazione d’aiuto, 1999). I pieni sono metaforicamente i suoni (armonicamente e/o disarmonicamente connessi), i vuoti sono le pause (i momenti dell’attesa e della riflessione). Ma attenzione: il pieno non è mai pieno completamente (perché c’è sempre qualcosa che sprona a volere e cercare di più e meglio) e il vuoto non è mai vuoto ‘pienamente’ perché tutti noi abbiamo bisogno di concentrazione, di silenzio, di ‘fare il punto’ della situazione e degli eventi in cui siamo immersi. Ci sono vuoti più pieni dei pieni, come nell’ipotesi del preconscio spirituale di Jacques Maritain: è lo scandaglio (metafora marina per indicare come l’interiorità sia mobile, ondosa, vasta e profonda come l’oceano). Occorre pensare, afferma il filosofo francese, «[...] al funzionamento ordinario e quotidiano dell’intelligenza, quando l’intelligenza è veramente in attività, o al modo in cui le idee sorgono nello spirito in cui si produce ogni presa intellettuale autentica oppure ogni nuova scoperta; è sufficiente pensare al modo in cui prendiamo le nostre libere decisioni che impegnano tutta la nostra vita – per rendersi conto che esiste un mondo di attività profonda e inconsapevole, per l’intelligenza e la volontà, da cui emergono gli atti e i frutti della coscienza umana e le percezioni chiare dello spirito, e per comprendere contemporaneamente che l’universo dei concetti, delle connessioni logiche, del discorso razionale e delle deliberazioni della ragione in cui l’attività dell’intelligenza assume una forma definita e una configurazione ben stabilita, è preceduto dal lavoro nascosto di una vita preconscia, immensa e originale» (J. Maritain, L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia, 1983).

Per cui l’educazione, come l’opera musicale, è fatta di pieni che non sono pieni e di vuoti che non sono vuoti, vuoti e pieni incompleti, imperfetti (come ci dice un grande maestro del Novecento, Paul Klee, che nei suoi Diari parla dell’imperfezione dell’artista), i quali spronano verso orizzonti nuovi, dinamismi inaspettati, schiudono ampiezze e direzioni che portano le persone, uomini e donne, a stare ai ‘confini’, alle ‘frontiere’, ‘in between’, di fronte a ‘bivi’ (Bogdan Suchodolski) e ‘passaggi’ (Italo Calvino) gravidi di significato e di ricerca: ricerca umana, politico-civile, esistenziale e metafisica.

multiverso

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