FLESSIBILITÀ

Conversazione tra Tullio De Mauro e Andrea Csillaghy

Csillaghy. L’esistenza stessa di una lingua e il suo rapporto interno con le sue parlate è un primo caso, mi pare, di ‘flessibilità’. Un altro caso altrettanto evidente è come la facoltà umana del linguaggio si sia scissa e si scinda nelle lingue del mondo. Una terza evidenza è data dalla relazione che ciascun uomo, dotto o meno dotto, scrittore, carpentiere o politico intrattiene tra la sua idea di lingua, l’uso concreto che ne fa, e l’idea che di questo uso hanno i grammatici, gli insegnanti o i linguisti o uno studioso come il professor De Mauro che firma un grande vocabolario. Ma è soprattutto il conflitto fra lingua sistema inflessibile e flessibilità, direi flessuosità, della e delle lingue negli usi, nello spazio e nel tempo che pone interrogativi all’osservatore. Su questo punto sembrano andare d’accordo perfino le nostre maestre e Noam Chomsky.

De Mauro. Ci sono spinte teoriche e fattuali contraddittorie. Vediamo la teoria. Dalla metà del Novecento la ripresa strutturalistica di alcune indicazioni saussuriane, più o meno correttamente intese, e lo sviluppo delle teorie generativistiche, inizialmente con espliciti richiami alla nozione di ‘sistema’ reperita nel Cours de linguistique générale saussuriano, hanno portato a una visione delle lingue come se fossero appunto sistemi chiusi, esplicitamente paragonati da Chomsky a calcoli, simili all’aritmetica. Strutturalismo classico, specie europeo, e generativismo, al di là di divergenze anche importanti, si sono incontrati nel concepire ciascuna lingua come un insieme coerente e ordinato di forme e di regole, di strutture, che consentono di descrivere in modo altresì ordinato e regolato (di generare nel senso matematico del termine) le frasi cui una lingua può dare luogo. Nelle versioni più formali, una lingua assume la fisionomia di un calcolo. Questa è stata la posizione dominante (quantitativamente) nella teoria. A mio avviso ci sono in radice non solo equivoci circa l’autentica visione linguistica di Ferdinand de Saussure, ma una confusione teorica tra piani diversi: il piano della rappresentazione più conveniente del funzionamento sincronico di una lingua e il piano della vita reale delle lingue. Come ho già detto altrove, è come se i geografi confondessero le proiezioni cartografiche in piano o anche su una sfera geometricamente perfetta con la realtà del nostro amabile pianeta: che non è piatto e che non è nemmeno geometricamente sferico. Per loro fortuna, tra i geografi l’apprezzamento per l’utilità delle mappe e delle proiezioni non si è mai tradotto (che io sappia) in entusiasmo accecato e accecante. Non è stato così tra molti linguisti che, come dire?, credono di inciampare nei meridiani e nei paralleli e chiudono gli occhi dinanzi alle montagne e alle profondità marine perché non rispettano la liscia superficie di un piano o di una sfera geometrica. La proiezione cartografica sistemica, regolare, calcolabile è stata confusa con la realtà delle lingue: nel leggere Saussure si sono messi da parte tutti i suoi testi di esplicita e ferma mise en garde circa la realtà di una rappresentazione meramente sistemico-funzionale delle lingue; e nel guardare alla lingua, per darne una visione calcolistico-generativa, si è preteso di mettere da parte la semantica, il significato, vale a dire ciò per cui le lingue esistono, e ogni fenomeno riluttante a farsi chiudere nella gabbia di un sistema.

Csillaghy. Nella mia esperienza la gente, ma anche le persone che riflettono sulle proprie vicende comunicative in una o più lingue, è assolutamente sicura che la lingua o le lingue non ammettono flessibilità. Le lingue sarebbero sistemi inflessibili; direi, con un vocabolo che ricorre da qualche tempo nelle tue riflessioni, sono ‘monolitiche’, sono cioè come pietre più o meno grosse. In ragione di ciò quanto più una lingua è di larga diffusione tanto più è vissuta, soprattutto dai cultori di lingue minori o minime, come un macigno che franerà sulle altre e distruggerà tutto.

De Mauro. Certamente. Ma vediamo. Se si supera il rumore confuso e fuorviante dei mass media, assistiamo oggi alla crisi forse definitiva del monolitismo linguistico. Nuovi spazi e nuovi compiti si offrono alla vita delle lingue meno diffuse e, più in generale, alla più completa affermazione dei diritti linguistici umani. L’espressione ‘monolitismo linguistico’ ha un vantaggio. Come altre parole tratte dal greco antico e diffusesi in età moderna a partire dal latino, monolite, monolitico, monolitismo sono internazionalismi, hanno evidenti vocaboli affini in molte lingue, con significati largamente sovrapponibili.
In tutti i sensi possibili di ‘linguistico’, come ho detto, il ‘monolitismo linguistico’ è ormai in crisi profonda, forse non reversibile.
Tra le forme estreme di monolitismo linguistico vi è la convinzione secondo cui la propria lingua, la propria mother tongue, è l’unica vera lingua. Essa è anche la forma più ingenua. E in effetti in molte tradizioni culturali entrò in crisi già nei millenni prima di Cristo, con l’avvio delle prime riflessioni sulla molteplicità delle lingue. Essa tuttavia pare che continui ancora a giacere nell’inconscio collettivo: a causa del profondo e continuo legame che, per i caratteri intrinseci che ogni lingua ha, ciascun individuo intrattiene con la propria lingua materna; e a causa del profondo ‘singenismo’ umano, come un giurista e sociologo polacco del secondo Ottocento, Ludwig Gumplowicz, chiamò la tendenza ad articolarsi in gruppi che attraverserebbe tutta la storia (e la preistoria) degli umani. Non è dunque inutile rammentare che nel formarsi del pensiero scientifico e critico del mondo moderno, dal tardo medioevo al secolo XVII, una parte non secondaria ha avuto il riconoscimento dell’esistenza e la sempre più ampia conoscenza di una pluralità di lingue.
La percezione del numero di lingue diverse esistenti nel mondo è andata precisandosi e affinandosi progressivamente negli ultimi decenni. Il problema cruciale del censimento scientifico delle diversità linguistiche è noto nei suoi termini empirici: quando, a quali condizioni due idiomi possono dirsi diversi? Ovvero, in modo complementare, quando denominazioni diverse e documentazioni diverse si riferiscono in realtà a uno stesso idioma? Affidate soltanto al sapere e alla percezione dei nativi le risposte possono risultare fuorvianti. Alcune variazioni fonetiche o lessicali strutturalmente e statisticamente marginali sono assunte a shibbolèth, come nella cruenta guerra biblica tra Efraimiti e Galaaditi. Nonostante queste difficoltà, crescenti con lo stesso crescere della conoscenza delle realtà linguistiche in un modo diretto, filologico e sul campo, il censimento degli idiomi che, con una formulazione forzatamente un po’ paradossale, si possono dire abbastanza sicuramente diversi per esser considerati diversi, è proseguito di secolo in secolo con risultati sempre più rilevanti numericamente e qualitativamente. Dal Pater noster in 14 lingue di Theodor Buchmann (Bibliander) del 1548 si passò già pochi anni dopo, nel 1555, alle 22 lingue del Mithridates di Conrad Gessner, fino al Thesaurus Polyglottus, vel dictionarium multilingue ex quadringentis circiter tam veteri quam novi (vel potius antiquis incogniti) orbis nationum linguis, dialectis constans, edito nel 1603 da Hieronymus Megiser. Nel Novecento, il numero delle lingue note come diverse aveva raggiunto già negli anni ’30 e ’40 cifre oscillanti tra 2.500 e 3.500.
Queste ultime cifre sono state ripetute per parecchi anni fino al sopravvenire del paziente lavoro sistematico avviato nel 1951 da Barbara Grimes e dai suoi due consulting editors, Richard Pittman e Joseph E. Grimes, per produrre le successive edizioni, ora in rete e aggiornate di continuo, di un’opera meritoria: Ethnologue. Languages of the World. Con gli aggiornamenti dell’aprile 2005, Ethnologue censisce e attribuisce quasi quarantamila nomi di lingue e riconosce, identifica e descrive come diverse 7.299 lingue.

Csillaghy. Rispetto alla/alle lingua/lingue i paesi, le nazioni, gli stati e naturalmente i loro cittadini e abitanti offrono lo spettacolo continuo di una grande varietà.

De Mauro. Si va dal caso, isolato, dell’Islanda, dove l’intera popolazione converge verso un’unica lingua, o da quelli, meno rari, che ospitano due, tre lingue diverse, come Burundi, Finlandia, Haiti, ai casi nettamente superiori alla media, come l’Unione Indiana con circa 50 lingue, fino ai record dell’Indonesia, nelle cui diverse aree si contano decine e decine di lingue.

Csillaghy. E che ne è della visione patriottica del Manzoni «una d’arme di lingua
d’altare / di memorie di sangue di cor»?

De Mauro. Bisogna rassegnarsi. La triunità ‘una lingua / una nazione / uno stato’ è stata in molte parti del mondo un principio importante nella rivendicazione dell’indipendenza politica dei popoli. Si deve riconoscere di più: in molti paesi essa è stata anche un ideale regolativo, almeno dove si è accompagnata con la promozione di condizioni diffuse di istruzione. Dove tale condizione si è data, essa è stata efficace nella costruzione d’una comunicazione paritaria tra i cittadini, a cominciare dai tribunali, come insegnava già l’aneddoto famoso del dialogo tra Federico il Grande e il meunier de Sans-Souci, vicino del parco del sovrano, contro il quale invocava a tutela dei suoi diritti i giudici di Berlino. L’aneddoto fu oggetto di commenti sarcastici anche da parte di chi lo narrò e divulgò. François Andrieux scrisse a conclusione del suo poemetto Le meunier de Sans-Souci: «Ce sont là jeux de prince: on respecte un moulin, on vole une province!». Senza il possesso d’una lingua accomunante il mugnaio, l’imperatore e i giudici (o, beninteso, senza il diritto a disporre di traduzioni simultanee da una ad altra lingua) nessun processo equo, nessuna tutela dei diritti. Ma, commenti a parte, oggi vediamo bene che quella triunità non ha base nei fatti. Ormai possiamo affermarlo con sicurezza: l’eterogeneità linguistica (di lingua) di ciascun paese del mondo è la norma, non l’eccezione. E la costruzione di società autenticamente e sostanzialmente democratiche deve fare con ciò i conti, non trascurarlo, non mascherare le effettive disparità con il mito d’una omogeneità che nella realtà può non esistere.

Csillaghy. Dunque, di contro alle grandi realtà monolitiche abbiamo il quadro di una pluralità agile delle masse parlanti in continua espansione dinamica.

De Mauro. Una cosa è chiara. Contare il numero di coloro che parlano una lingua assumendolo meccanicamente dal numero di abitanti in uno Stato, come si è fatto fino a tempi recenti, è un grave errore. A parte il caso islandese, anche Stati di dimensioni assai ridotte, da Andorra a San Marino al Vaticano, non sono monolingui.
Qualcuno potrebbe essere tentato di sminuire la portata della pluralità linguistica media esistente quasi in ogni paese del mondo, sostenendo che si tratta di lingue poco importanti, dialetti o ‘dialettacci’, oppure lingue solo parlate. Anche a voler prendere in considerazione soltanto le lingue legate a una tradizione scritta, queste sono circa un terzo del totale (e il loro numero va rapidamente crescendo negli ultimi decenni con i progressi della scolarizzazione). Sicché, in media, ogni paese ospita 33 lingue diverse di cui una dozzina anche tradizionalmente scritte.
Il declino del monolitismo linguistico comincia dalla realtà dei dati appena ricordati e dalla loro percezione, dalla coscienza che cominciamo ad averne.
Declina e tramonta ormai, anzi vorremmo poter dire è declinata e tramontata, la rappresentazione monolitica della realtà linguistica delle popolazioni che si raccolgono in ciascuno degli Stati del mondo. Tale declino nasce dalla componente conoscitiva, scientifica, che abbiamo già descritto, ma nasce anche da una componente reale, socialmente ed etnicamente oggettiva. In parte già nell’Europa dell’Ottocento, poi in misura crescente in ogni area del mondo, i quadri politici e diplomatici tradizionali sono stati scossi dalla presa di coscienza e dal risveglio di innumerevoli etnie e si sono sviluppati movimenti miranti a ottenere il riconoscimento formale, legislativo e politico, dell’identità e legittimità d’uso pubblico di lingue anteriormente relegate in una sfera subordinata. Il variegato mondo linguistico contemporaneo che Ethnologue dispiega sotto i nostri occhi è anche frutto di scontri e lotte che hanno ottenuto il riconoscimento di lingue appena ieri relegate in posizione subalterna, lingue dimenticabili perché dimenticate e, come di recente si è detto, ‘minorizzate’. Ma la lingua in sé è indefinitamente flessibile.
Non è in crisi solo il monolitismo linguistico ‘statuale e politico’. Tra i linguisti la percezione della coesistenza di lingue diverse in una stessa compagine statuale ha attratto sempre di più l’attenzione sui fenomeni del contatto linguistico. Quello che emerge è il societal multilingualism: non solo gli Stati, ma anche gli stessi ambienti sociali, le stesse masses parlantes (per riprendere il termine saussuriano) si sono andate rivelando caratterizzate dalla compresenza di lingue diverse. E non si tratta solo dei diffusissimi casi di bilinguismo consapevole, frutto di apprendimento e studio nelle istituzioni scolastiche, ma di diffuso bilinguismo ambientale, nativo. Anche grazie a sempre più accurate tecniche di registrazione sul campo, all’osservazione dei linguisti è apparso un parlante, non bene osservato un tempo e perfino mal accolto, che da un momento all’altro, perfino entro una stessa frase, commuta e contamina lingue e norme d’uso diverse per incanalare il suo esprimersi o per ben intendere ciò che ascolta o legge. L’idea che il parlante debba aderire a una lingua vista come un monolite, «massive, immovable, unwavering, unemotional», ha cominciato a cedere il passo a una più realistica visione di parlanti ‘flessibili’ che vivono o quanto meno, se vogliono, possono vivere assai liberamente il ricorso ai mezzi che le lingue a loro note offrono per esprimersi. Ma, se è così, è l’idea stessa di lingua che viene modificandosi.

Csillaghy. Come accade che quando parlano ‘gli altri’ diventiamo rigidi e intolleranti dell’errore stilistico o grammaticale, cioè inflessibili? Confondiamo la nostra parlata d’uso e lo stile della lingua colta?

De Mauro. Io sono convinto che questa confusione vada abbandonata per ciò che nasconde del funzionamento reale di ciascuna lingua che, come già Saussure insegnava, è una semiotica che vive nel tempo in quanto è in rapporto con una masse parlante reale e animata da tensioni eterogenee, tra bisogni di generalizzazione e regolarità e bisogni di trovare risposta a sempre nuovi problemi espressivi e assetti sociolinguistici, tra esprit de clocher (diceva Saussure) e force d’intercourse. I fenomeni della traduzione e traducibilità, quelli del mutamento, quelli dell’assai diverso grado di conoscenza d’una stessa lingua, di convergenza verso essa nella massa parlante, i fatti semantici e pragmatici vanno recuperati alla teoria. Da questo punto di vista è una buona notizia che, in uno dei suoi più recenti interventi teorici, lo stesso Chomsky abbia riammesso all’attenzione teorica (bontà sua) gli indisciplinati fenomeni del lessico, li abbia definiti ‘centrali’ e sia tornato a parlare di ‘imitazione’ (una parola letteralmente bandita dalla trattatistica generativista) come fattore decisivo nell’apprendimento e uso delle lingue. L’antico filosofo Parmenide credeva di dover immaginare l’intera realtà come uno ‘sfero’ immobile, immutabile. Così molti hanno creduto di poter considerare le lingue nella seconda metà del Novecento. Oggi, da immobile sfero parmenideo le lingue tornano a poterci apparire come meta sempre mobile di convergenze dei parlanti reali, di gruppi sociali reali.

Csillaghy. Quando si insegna una lingua elegante e bella essa appare monolitica e invece da bambini a vecchi ci si inventa continuamente una lingua adattabile. È l’uso il signore delle lingue? E ogni generazione deve per forza ritradursi i classici nella lingua che adopera?

De Mauro. Regolarità e irregolarità, rigidità (per un certo periodo a certi livelli d’uso) e oscillazioni e flessibilità (permanenti) sono aspetti egualmente importanti per capire ciascuna lingua. I parlanti reali, cacciati per mezzo secolo dalle stanze della teoria dabbene, vi rientrano ora a bandiere spiegate. Questo si deve non solo a discussioni teoriche, ma a imponenti fenomeni della realtà sociale e culturale del mondo. Faccio solo qualche esempio. È vero, si è sempre tradotto, da quando abbiamo testimonianze storiche, come quelle degli antichi scribi anatolici ed egiziani del terzo millennio a.C. Ma mai si è tradotto tanto e su scala così vasta e continua. La visione calcolistico-sistemica delle lingue rendeva la traduzione un fatto inesplicabile. Oggi il continuo tradurre ci spinge a cercare una visione delle lingue e della loro semantica che sia compatibile col continuo tradurre. Ancora: fenomeni di contatto tra lingue ci sono sempre stati, ma mai con l’estensione che hanno oggi, per il continuo interferire delle grandi lingue ‘transglottiche’ (arabo, cinese, francese, inglese, russo, spagnolo) tra loro e tra ciascuna di loro e le altre settemila lingue di più ristretto ambito (ma attenzione, molte con decine e decine di milioni di parlanti, da hindi a italiano, da swahili a portoghese). Come può l’analisi linguistica seria chiudere gli occhi dinanzi a queste masse di fatti in omaggio ai pregiudizi teorici di Tizio o di Caio?

Csillaghy. La difesa della lingua ‘pura’ di cui i ‘miei’ ungheresi vanno così fieri, ha senso o no?

De Mauro. La purezza può essere solo quella che Giacomo Leopardi già additava: non chiusura al divenire e agli scambi, ma, diceva Leopardi, proprietà, cioè precisione e chiarezza, di stile e linguaggio.

Csillaghy. La duttilità delle lingue affidate all’uso flessibile che ne facciamo non è un segno del loro decadere e perire? Si affaccia qui il tema del Language death di David Crystal.

De Mauro. Il mutare delle lingue è talora accolto da alti lai tra chi professa a gran voce di amarle. Ci sono buone ragioni psicologiche per nutrire amore per la nostra propria lingua, i cui ritmi, toni, modi di sillabazione e ordinamento di parole ci accompagnano, oggi sappiamo, dalle prime ore di vita. Ma una lingua, la nostra lingua, fascia talmente ogni nostra esperienza in ragione della sua duttilità, proprio per la sua capacità di adattarsi a nostre nuove esigenze espressive. Infine, come il sabato della parabola evangelica, le lingue sono fatte per gli uomini, non gli uomini per le lingue, per tenerle perpetuamente in vita come mummie imbalsamate.

Csillaghy. Se sono ‘flessibili’ in modo così congenito, che ne sarà delle nostre lingue fra cinquanta/cento anni?

De Mauro. I fatti della storia e con essi i fatti della storia linguistica sono imprevedibili. L’ho già detto: nel 390 a.C. quando una banda di predoni gallici invade una piccola, povera città sulle rive del Tevere e la distrugge, quale futurologo avrebbe scommesso mezza dracma sulla vita futura della parlata di poveri contadini semianalfabeti? Chi avrebbe detto che quella parlata sarebbe diventata la lingua comune del continente europeo per secoli e della cultura e scienza di secoli a noi vicini in vaste plaghe del mondo? Chi avrebbe detto qualcosa d’analogo guardando alla lingua di poveri nomadi che si aggiravano nel sud del deserto arabico intorno al VI secolo dopo Cristo? Più o meno tutti avrebbero scommesso più volentieri sulle magnifiche sorti della lingua dei potenti Goti che dominavano dall’Atlantico alla Crimea, dal settentrione d’Europa alle penisole del Mediterraneo. Del gotico non resta quasi più traccia, l’arabo domina dall’Atlantico all’Asia occidentale, del latino ho già detto, e più bisognerebbe dire se si pensa che la più estesa e influente delle grandi lingue d’oggi, l’inglese, è profondamente latinizzata e neolatinizzata (al 75% del suo vocabolario). Nos debemur morti, ammoniva il latino Orazio parlando di lingue e parole. Epperò aggiungeva: multa renascentur quae iam cecidere. I linguisti devono mettersi in grado di trasmettere la serenità di Orazio alle comunità umane di oggi.

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