FLESSIBILITÀ

Diversamente dagli antichi, sospettosi verso il corpo e le sue passioni, e verso i sentimenti che non distinguevano dalle emozioni, dal pathos, il pensiero moderno ne fa una nozione specifica, riferita al soggetto, dando ad essa un’autonoma rilevanza concettuale, riconoscendone la portata conoscitiva, a cominciare da Blaise Pascal che vi vede il sentire del cuore, capace di intuire i principi su cui si fonda la stessa ragione.

È Max Scheler che distingue sentimenti ed emozioni; mentre le emozioni sono puramente fenomeniche, i sentimenti sono intenzionali e costituiscono la reazione del soggetto alla situazione emotiva, manifestando in ciò il campo dei ‘valori’. I sentimenti non sono solo stati affettivi più durevoli delle emozioni e meno forti delle passioni, ma sono una delle strutture fondamentali dell’esistenza. E tuttavia non sono meno di esse flessibili.

I sentimenti, come le emozioni, nei più recenti sviluppi dell’antropologia culturale non sono più considerati un ‘materiale grezzo’ tale da costituire una sorta di ‘substrato transculturale universale’ (A. Appadurai, Modernità in polvere, 2001), ma sono per molti aspetti appresi. Appartengono cioè ai modi o alle tecniche in cui le culture e gli ordini sociali si iscrivono e si installano nei corpi, nelle menti e nei comportamenti. Cosicché ben poco hanno da dirci gli aspetti universali dell’emotività su ciò per cui ci rallegriamo, gioiamo o ci rattristiamo, su ciò per cui proviamo dolore o rabbia, sui modi in cui esprimiamo le nostre emozioni e i nostri sentimenti. Tutto ciò ci appare piuttosto costruito culturalmente e socialmente contestualizzato.

Si può vedere la contestualità dei sentimenti nei termini con cui Zygmunt Bauman (La solitudine del cittadino globale, 2000) sintetizza la condizione del soggetto postmoderno nella ‘sicurezza insicura’, nella ‘certezza incerta’, nell’‘incolumità a rischio’, sottili sfumature che ben individuano la specificità dei sentimenti che accompagnano la precarietà e flessibilità del lavoro e della condizione sociale di ciascuno di noi e inoltre l’eccitazione e l’effimero di una ‘società progettante’ che ci chiede di saperci continuamente rimettere in gioco. La solitudine in cui tutto ciò è vissuto e il consenso che accompagna la credenza taumaturgica nel valore della flessibilità non lasciano vie di fuga e non prospettano alternative: la perdita di certezza apre alla disperazione e al dubbio esistenziale. È in termini simili che Richard Sennett descrive l’uomo flessibile della modernità liquida (R. Sennett, L’uomo flessibile, 1999).

Sempre dalla nuova condizione di vita postmoderna trae impulso anche il sentimento della ‘com-unione’, il nuovo comunitarismo, il tribalismo di cui ci ha parlato Michel Maffesoli, che fa riferimento a una cultura di gruppo, e dei sentimenti, fondata sul piacere e sul desiderio di stare assieme senza scopo né obiettivo se non il gusto per la ‘prossemia’ (M. Maffesoli, Nel vuoto delle apparenze, 1993; Note sulla postmodernità, 2005). L’attenzione sensuosa ai vissuti e alla dimensione sensoriale e sensibile delle cose, e all’estetizzazione, è un nuovo sentimento del corpo che lo rende protagonista dell’attuale scenario in cui si privilegiano illusioni, sensazioni, sogni. Per questo si è parlato di società somatofila, che ama il corpo, lo esalta, lo valorizza, facendo riferimento alla distinzione nella storia dell’arte tra l’atteggiamento ‘ottico’ e quello ‘tattile’. C’è il corpo dei sensi alla base dell’attuale mutamento di episteme, che rivaluta i sensi e le esperienze, e trasforma l’immagine della società in un insieme di interazioni fatte di affetti, emozioni, sensazioni. C’è il corpo nel suo essere un’entità ambigua, insieme soggetto e oggetto, intimo ed estraneo, naturale e sociale, pulsionale-organico-sensoriale-sentimentale. Il corpo dei sensi non è passivo, inerte, attaccato a una mente vitale quale vero agente della cultura, ma ‘corpo cosciente’, è esperienza vissuta di un body-self dotato di mente: mindfull body lo chiamano Nancy Scheper-Hughes e Margaret Lock. È il luogo del desiderio, dove si fa visibile di quale società il corpo ha bisogno, e quale società desidera o sogna. È un corpo sovversivo, che non esprime solo appartenenza, ma anche disagio, alienazione, rabbia, perdita di senso. La malattia stessa è allora una forma di prassi corporea, non semplice somatizzazione, ma espressione di una propria saggezza e intenzionalità nel produrre sintomi ribelli e ‘caotici’ che «aprono continue brecce nei conflitti tra mente e corpo, natura e cultura, corpo individuale e sociale» (N. Scheper-Hughes, Il pensiero incorporato, in R. Borofsky, L’antropologia culturale oggi, 2000).

È attraverso il corpo, infatti, che l’uomo esprime i suoi desideri e sentimenti. Così, per esempio, è proprio tenendo conto che i sentimenti negativi possono esplodere in sintomi ribelli e caotici collegando mente e corpo, persona e società, che è possibile interpretare l’esplosione di possessioni da parte di spiriti ancestrali tra le donne che lavorano in moderne catene di montaggio di componenti elettronici per le multinazionali in Malesia (Aihwa Ong, Spirits of Resistance and Capitalist Discipline, 1987). Sono parte di una complessa negoziazione della realtà: sono una reazione, insieme, alla violazione dell’identità culturale e alle condizioni lavorative eccessive e fortemente disciplinate, con uno ‘sciopero da malattia’.

Così pure sono state analizzate come vite incorporate, espressioni di una cultura somatica che privilegia il corpo e il suo linguaggio espresso per simboli (L. Boltanski, As classes sociais eo corpo, 1984), le malattie nervose dei coltivatori salariati della canna da zucchero che vivono nelle bidonvilles delle colline dell’alto Cruzeiro in Brasile. I nervos, tremori, svenimenti, pianti isterici, impossibilità di camminare e di muoversi, sono sintomi ribelli e sovversivi in cui prendono corpo le contraddizioni socio-economiche e politiche: «rappresentano in parte delle metafore codificate attraverso cui i lavoratori esprimono la loro precaria e inaccettabile condizione di malnutrizione cronica e di bisogno», e la loro «protesta contro la loro disponibilità allo sfruttamento fisico e all’abuso» (Scheper-Hughes, Il pensiero incorporato… cit.). E così fanno le donne delle bidonvilles, in particolare le madri di figli sequestrati e spariti. Sono anche tutti modi diversi di comunicare i propri sentimenti.

Altrettanto potremmo dire della crescita di malattie terminali e di altre manifestazioni di sofferenza nelle nostre società postmoderne. E non è certo da ora che il corpo si ammala e reagisce creativamente ribellandosi alle condizioni di disagio, che si tratti di comunità rurali o di lavoro industriale o postindustriale; e ciò si accentua nei periodi di rapido cambiamento, dato che nelle società laiche la malattia prende il posto della stregoneria e della trance e, soprattutto, si tende a psicologizzare il disagio e a non lasciare spazio al linguaggio del corpo, come invece avviene nelle società native e nelle classi operaie e popolari, che hanno culture somatiche in cui al corpo è ancora dato di parlare e comunicare.

È sempre a una nuova cultura e sentimento del corpo che fa riferimento lo sviluppo delle biotecnologie, sia che esse vengano vissute con ansia oppure con euforia e senso di potenza. I cambiamenti culturali indotti dalle nuove tecnologie incidono sull’immaginario del corpo e si traducono in oggetti e comportamenti. Il corpo protesico, oggetto dell’economia dei corpi, è un corpo flessibile, mutante, plastico, adattabile. È un corpo che non è dato, ma progettato: che si espande negli strumenti o ne viene potenziato, che li incorpora o ne viene incorporato. Il mutamento della sensorialità non significa solo monitorare il mondo in un altro modo, ma pensarlo diversamente e pensare sé diversamente. E domanda una ridefinizione dell’autopercezione dell’uomo e del suo rapporto con l’esterno. L’uomo, si dice, non è più confinato nella sua pelle, ma si espande fino allo sguardo planetario del satellite. E però nessuno sa di che cosa è capace il corpo.

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