FLESSIBILITÀ

Cambia continuamente la struttura della conoscenza che abbiamo del mondo, e cambiano le strutture della cultura. Uno dei segni evidenti – lo vediamo, sentiamo, constatiamo – è il cambiamento del rapporto fra la parola e ciò che essa rappresenta. Il millennio precedente è stato il millennio del libro. Forse è per questo che il documento più importante della nostra esistenza, la Bibbia, è chiamato il Libro dei Libri.
Eppure anche il Libro dei Libri è un libro e così il suo posto è sullo scaffale dei libri. Perché là lo trovi prima. E non su un tavolino rococò. Comunque i tavolini rococò si riempiono di polvere.
Questo non so che millennio sarà. Il lettore di oggi di tanto in tanto si incazza con la letteratura di oggi. Dov’è la storia, dove sono i personaggi da amare, dov’è finita la vita? Se dobbiamo litigare, litighiamo, anch’io sono un lettore; io però sono scontento dei lettori. Quello che dimostrano gli scrittori di bestsellers non è l’assenza di un ordine di valori: il cambiamento è molto più radicale.

Perché se si trattasse solo di questo, significherebbe che tale è l’ordine esistente: lo conosciamo, lo accettiamo, solo che qui non è valido. Il fatto nuovo, credo, è che non c’è consenso a proposito dei valori. A te piace Mozart, a me Salieri. E allora? Non entro nei particolari ma potrei efficacemente segare le gambe della sedia su cui sto seduto. Non c’è storia? Non c’è una parabola nei nostri racconti? E allora perché cacchio lei non si degna di vivere, non vive, una vita che abbia una parabola regolare? La disegno, così, da A a B e procede, lineare e in ordine. E perché cacchio lavorate invece che con gli avvenimenti con la probabilità dei medesimi? E perché parlate a vanvera della luce, una volta dimostrate che ha la natura di un’onda e un’altra invece che è fatta di particelle, e perché fare i furbi se qualcuno vuol sapere contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella, e perché spaccare il capello in quattro col problema del tempo, tutto il tempo? E perché cacchio andate dallo psicanalista, e perché mettete le note in calce alla vostra vita, perché vi ciondolate attorno ad essa, perché non la vivete!?
Perché solo riflettere e riflettere? Perché non vi dimenticate della vita proprio vivendola?
Perché siete sempre di corsa? E perché cacchio non vivete in un’età aurea!?
Perché incominciate continuamente una nuova vita? Perché non vi rendete conto che ne abbiamo solo una di vita, perché non sapete che ho una vita, una morte, ma ci provo lo stesso, perché cacchio…?

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Mia madre invece mi ha detto che non sta bene dire continuamente perché cacchio figlio mio.

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A qualcuno piacerebbe se la letteratura sapesse dare risposte chiare a domande chiare: il quadrato di due scrittori rettangoli è la somma e così via. O comunque di che colore è. La letteratura invece preferisce il multicolore: il mondo del sì e del no non ha bisogno di scrittori, di questi hanno bisogno piuttosto il forse, il probabilmente…
È logico che anche la letteratura sappia essere saporitamente unilineare: «Bisogna impiccare i re». Formulazione densa, chiara, programma borghese, con un tantino di socialista.

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Io personalmente sono in buoni rapporti con la lingua – nel mio caso specifico la lingua ungherese – o meglio è lei che è in buoni rapporti con me, mi consente questa amicizia, perché è vero che il verso è uno strano servitore, ma in realtà il vero padrone è la lingua. È per questo che non mi sento vincolato dalla fedeltà al mio paese, non alla patria, non alla mia classe sociale, se c’è, non alla mia famiglia, che c’è, ma solo e unicamente alla lingua, nel mio caso alla lingua ungherese. E sono in buona compagnia.
Ma se mi viene in mente una banalità risulta subito che non si può caricare tutto sulle spalle della lingua.

Lo scrittore deve conoscere le parole in un corpo a corpo continuo, deve prenderle per mano, tocchicchiarle, cosa ci si può fare, che cosa si lasciano fare, e come invecchiano, si svuotano o incominciano improvvisamente a incespicare o di che umore sono, come si sono alzate dal letto al mattino, bisogna coccolarle e a tratti litigarci, urlare, o sono loro che ti coccolano o ti urlano. Capita anche agli uomini per bene, e non solo a parole.
Dice Ludwig Wittgenstein, le parole non hanno un significato, ma soltanto un uso; c’è un uso fresco di giornata che bisogna assolutamente aver chiaro davanti a sé.

La lingua nell’uso è mutevole, terribilmente flessibile. L’uso linguistico muta nello spazio e nel tempo ed è pur vero che lo scrittore appartiene a una lingua e non ad un paese, ma fin dove è tedesco il tedesco? A Zurigo parlano la stessa lingua che a Vienna? Non proprio. E neanche a Csíkszereda e a Budapest. Ed è diverso il contesto, e una parola gridata in un pozzo suona diversa che nella pampa… Dunque, per fare un esempio, se a Zurigo dico magyar (cioè madjar) significa una cosa diversa che a Vienna: «o amata patria», intraducibile. A Csíkszereda magyar possiede una dimensione diversa, un colore, un chiaroscuro, una giocosità, una dinamicità, che non ha a Zalakaros o ad Obuda. Qui non ha dramma. Tutta la letteratura moderna parla del dramma di una assenza di drammaticità. Di quel qualcosa che pure esiste nell’inesistente. L’insostenibile leggerezza dell’essere, scrive Milan Kundera a Parigi. Esatto. Solo che qui anche il leggero è pesante.
L’iridescenza delle parole non è legata solo allo spazio ma anche al tempo. Le parole hanno del tempo, o meglio: c’è del tempo nelle parole, c’è il nostro tempo, quello di chi le usa, c’è la nostra storia, noi stessi.

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Le nostre esperienze derivano in buona parte dalla dittatura. Le dittature sono legate da un rapporto appassionato e direi sanguigno con la lingua. Basti pensare al newspeak di George Orwell, la ‘nuova parlata’ di 1984. Perché agli uomini si può far paura, e allora gli uomini si spaventano, e confessano tutto e dimenticano tutto il resto.
La lingua invece se ne infischia dei dittatori, non ride neanche di loro, semplicemente fa spallucce, per questo hanno ragione i dittatori che vogliono cambiarla. Ma la lingua è difficile da cambiare. Questo non capita perché la lingua è buona o virtuosa, cioè non è che alla lingua sono antipatiche le dittature e ama la libertà, la lingua è, e quello che è, è difficile cambiarlo.
Ma se c’è, c’è anche la dittatura. E anche quella ha una lingua, se l’è creata. La parola ‘socialista’ per esempio – credo che questa sia un’osservazione di Gábor Czakó – ha funzionato come un suffisso privativo o avversativo: la democrazia socialista era il contrario della democrazia, la morale socialista il contrario della morale, l’avvenire socialista era la disperazione assoluta, il futuro visto come il fondo più profondo del pozzo; quanto alla ‘fraterna solidarietà socialista’ credo che in proposito il povero Alexander Dubcek potrebbe tenere una lunga conferenza di psicologia del linguaggio. E la differenza fra la democrazia e la democrazia popolare è uguale alla differenza fra una camicia e una camicia di forza. O, come dire… tra l’essere sfottuto e l’essere fottuto.

Stupisce e disarma, anzi ormai è quasi commovente, pensare come la dittatura di János Kádár (in Ungheria dopo il 1956) fosse attaccata a una sola parola. La sua legittimità (ai suoi propri occhi) e la sua forza si reggeva sul fatto di chiamare ‘controrivoluzione’ la ‘rivoluzione’. Cioè, noi la chiamavamo così, più precisamente, chi la chiamava così e chi no, la società come tale la chiamava così, e si potevano ripartire gli uomini secondo questa differenza. La chiamavano ‘controrivoluzione’ quelli che la pensavano davvero così, o quelli che si erano venduti apertamente, o quelli che ne avevano abbastanza di tutto e non pensavano a nulla, mentre quelli che vi si opponevano apertamente dicevano ‘rivoluzione’ (questi esagerando un po’ si potevano contare sulle dita di una mano; oggi ci vorrebbero molte centinaia di Shiva dalle cento braccia per contarli). E poi ci furono quelli che non la chiamavano in alcun modo. Questa fu la scoperta ingegnosa del regime di Kádár, che permise, anzi incoraggiò la denominazione di «fatti del ’56» e più tardi, con un po’ di ironia (e non si sa da che parte pendesse questa ironia), di «incresciosi fatti del ’56».

Quando a proposito dell’attacco terroristico alle torri gemelle di New York sentiamo dire «i fatti dell’11 settembre» il nostro orecchio, abituato alla dittatura, avverte questa piccola incrinatura, questo momentaneo balbettare, questo lieve imbarazzo, che direbbero anche qualcosa, ma anche no, anzi: vorrebbero pensare qualcosa e insieme vorrebbero non pensare affatto.

La lingua della dittatura è il silenzio, il mortale, infinito, stagnante silenzio. Io ne ho conosciuto ormai solo la variante più debole, la più morbida, il porno soft, il cui linguaggio è il silenzio, proprio il tacere della dittatura, perché anche la dittatura debole è dittatura, anche quella debole è forte, e si mangia la vita dei sottoposti. Sotto Kádár tutti concretamente tacevano del ’56. Nelle tabelline non figurava 8×7. E neanche 7×8, perché la moltiplicazione è commutativa.

Stiamo parlando della vita delle parole. La vita del ’56 fu tempestosa, del cinquantasei come parola, come o˝tvenhat, come parola in lingua ungherese. Si poteva dire sechsundfünfzig in tedesco o cinquantasei in italiano, ma questi termini in Ungheria vivevano come Marci a Heves o come Cristo fra i ladroni. Più precisamente: Wie der liebe Gott im Frankreich. Come il buon Dio in Francia. Quello che per i tedeschi è la Francia, per gli ungheresi è Heves, per gli italiani il Golgota. Adesso non mi fermerei a riflettere sul buon Dio.

Faccio un esempio del mutare dei tempi. Se, diciamo, negli anni ’70 avessimo scritto questi quattro bei numeri positivi, 54, 55, lieve esitazione: incespico, deglutisco, poi 57, 58 e ci avessimo scritto sopra Quartina, allora avremmo ottenuto una autentica e coraggiosa poesia patriottica; probabilmente non un capolavoro di poesia, ma il numero magico mancante avrebbe sensibilmente espresso l’eterno desiderio di libertà del popolo ungherese eccetera eccetera, davvero vi avrebbe pulsato la neo-oggettività voluta da Gottfried Benn che si coniugava con il sapiente fervore di un Sándor Petőfi.
Sono passati quei tempi grotteschi e se adesso ci riproviamo così, con questi quattro numeri, 54, 55, 57, 58 dimostriamo solo che non sappiamo contare.

Dov’è andata a finire dalla successione dei numeri la voglia di libertà, e Petőfi e Benn? Se li è mangiati il gatto, o l’esercito sovietico quando ha lasciato l’Ungheria, o l’arrivo della democrazia. Se non c’è il bisogno di intuire vuol dire che non c’è nulla da intuire. Da sopravvissuti siamo tornati viventi.

Tutto questo è divertente e istruttivo. Ma è anche così spaventoso e agghiacciante se si pensa, se è chiaro a tutti, che questa quartina (il cui senso d’altronde, anche oggi che scrivo, ‘cova sotto la cenere’) non avrebbe potuto essere pubblicata in Ungheria prima dell’89. Spero che per i ventenni di oggi ciò risulti semplicemente inconcepibile.

Eppure le cose stavano proprio così. E infatti è bastato che Gáspar Nagy facesse stampare a lettere maiuscole la preposizione ‘IN’, e il mutismo e la cattiva coscienza a proposito del ’56 – certo secondo le intenzioni del poeta – vi ha subito riconosciuto il nome del primo ministro Imre Nagy, che avevano fatto fuori o, come si diceva, giustiziato; quindi censura, sequestro della pubblicazione e altre procedure vessatorie. Dove c’è tirannia c’è tirannia. E comunque la quartina nella letteratura ungherese era già stata occupata dalla poesia di János Pilinszky:

Chiodi che dormono nella sabbia ghiacciata.
Notti inzuppate di manifesti solitari.
Non hai spento la luce in corridoio.
È oggi che mi sgozzano.

Questa poesia, pubblicata nel luglio 1956, occorre dirlo che non si riferiva all’andirivieni delle truppe sovietiche.

La conoscenza del passato delle parole non è un compito professionale (specialistico, specifico) dello scrittore; si potrebbe dire però che è un dovere verso la patria, e comunque è una condizione necessaria (anche se non sufficiente) della conversazione in Europa. Se una parola è stata lordata, o le è stata fatta violenza da una banda di sporcaccioni, anche ‘questo’ abuso che ne è stato fatto appartiene a quella parola. Che lo vogliamo o meno. Non è questione di scelta o di decisione.

Non succede nulla se l’espressione ‘spazio vitale’ viene adoperata da un costruttore o da un ingegnere. Ma se si parla dello ‘spazio vitale degli ungheresi’, siano pure le più nobili le nostre intenzioni, dietro questa espressione è là che grida tutta la banda nazista. O, parlando più delicatamente, non è una scelta felice parlare della ‘soluzione definitiva’ del problema degli alloggi per gli zingari rom; da un lato perché evidentemente diremmo delle bugie, da un altro lato perché ci seppellirebbe subito l’ombra tetra della Endlösung, la ‘soluzione finale’.

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Attenzione a non fraintendere: non si tratta di una questione politica, ma di una questione linguistica (ma è vero che questa poi diventa una questione politica…). La lingua è più forte.
Ed è inutile dire che noi questo non lo intendevamo così. Noi non volevamo esprimere questo. Giusto. Allora bisogna imparare la lingua; non esiste una scusa per non farlo perché ci sentiamo offesi; e allora possiamo dire quello che intendevamo noi. Più o meno.
Ma non è un po’ assurdo? «Non posso usare queste parole perché le ha adoperate un disgraziato di un nazista o uno delle croci frecciate?» No, proprio per questo. «Ma io uso la parola nel suo senso originario!». Non c’è un senso originario; c’è quel che c’è. «Ma questa è una limitazione alla mia libertà!». In realtà è proprio così. Se non capitava tutto quello che è capitato non ci saremmo trovati in questa situazione. Ma dopo le assurdità – limitiamoci a questa definizione – del XX secolo, quest’attenzione, questa cautela, quest’autolimitazione non è il minimo che si deve usare? Non è un beau geste verso gli altri, non si tratta della storia altrui, ma della nostra; la nostra sensibilità non è una cortesia, ma un dovere morale.

Non è un caso che i miei esempi siano tratti dalla dittatura fascista; non è la tanto ricordata par condicio; è noto che in materia di razzismo sono molto più bravi i nazisti, i crocefrecciati; hanno un vocabolario molto più ricco, perché nella vita sono molto più versati in questo campo; hanno promesso che estirpavano una parte dell’umanità e l’hanno estirpata.
D’altro lato i comunisti hanno promesso che tutti sarebbero stati uguali, e invece hanno estirpato una parte dell’umanità. Le due cose non si equivalgono totalmente, di qui l’inventario un po’ sbilanciato degli esempi.

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Benché la torre di Babele sia un nostro compagno costante, l’esperienza quotidiana del caos linguistico nella letteratura è solo una delle tante. È anche vero che la lingua letteraria ha perso il suo ruolo d’onore, non è la prima e non compendia né comprende tutte le altre, è un dialetto marginale, che sempre meno persone capiscono e parlano – e tutto questo è vero – eppure la letteratura per la sua flessibilità ha conservato qualcosa della sua universalità. In matematica si vede subito di che gran cosa si tratta: non esiste quel matematico fondamentalista islamico che potrebbe divergere da un bigotto collega cattolico sul fatto che due per due fa quattro. Che fa o non fa quattro. Tutt’al più potrebbero chiedere sospettosi in quale sistema numerico siamo.

La letteratura prescindendo dai problemi linguistici, dai quali non si può prescindere, è universale. Non vi è un accordo totale diciamo a proposito di Madame Bovary come nel caso di 2 per 2 uguale 4. In un certo senso è vero il contrario, è l’opposto, nel senso che ‘non è possibile’ essere d’accordo con un romanzo, ma non si può neanche essere in disaccordo con un romanzo.

È una gran cosa. E quanto è migliore un romanzo tanto più questo è vero. Non è possibile essere d’accordo con una montagna. E al contrario: quanto meno è buono un romanzo con tante più fra le sue affermazioni possiamo trovarci d’accordo. In questi casi una frase si stacca dal romanzo, si dissolve quell’accordo che se non esistesse, dovremmo parlare di forma e contenuto, di involucro e di messaggio. Non c’è via di scampo, ha ragione quel grande pensatore sovietico: scrittori, dovete scrivere solo capolavori.

La letteratura è una faccenda complessa. Seguendo l’espressione di Dezso˝ Tandori: «un casino». Non sono i maligni postmoderni o i naturalisti fossili che la complicano, lo è per conto suo. Non è troppo complicata, è complessa. È nella sua natura. Complesso oggi è una parolaccia. Vorremmo scacciarla da noi stessi. È già così incasinata la vita che adesso capita anche questo? (Segnalo che sembra che anche la letteratura mostri questa tendenza: non ama il complesso, cioè non ama se stessa, il che non porta mai a nulla di buono). È quel suo continuo scrutare che rende complicata, introflessa la letteratura, cioè è essa stessa che si rende complicata. È complicata anche quando sembra semplice; questo lo sanno di tanto in tanto i grandi scrittori; (anche) in questo consiste la loro grandezza.
Non bisogna avere paura di ciò che è complesso, ma di ciò che è confuso.

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Al che io ho guardato mia madre profondamente negli occhi: dovunque al mondo riconoscerei quel grigio-blu, come se vi luccicasse una lacrima, questo adesso che c’entra, e le ho detto: «Abbi pietà mamma, mammina e guarda la mia flessibilità, voilà, è finito anche quest’articolo».

multiverso

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