FLESSIBILITÀ

Ci sono milioni di modi possibili per raccontare la storia del progresso nelle società umane, e ciascuno contiene un suo fondo di ragionevolezza che non esclude (comunque) tutti gli altri. Quello che io preferisco è l’avventura dell’uomo che tenta di dominare la complessità, cercando innanzitutto di trovare il suo posto e di raccontarsi il mondo che ha intorno. È un racconto che alla fine gioca su due parole chiave: ‘ordine’ e ‘comunicazioni’. L’ordine serve per comprendere e riconoscere, per avere uno scenario comprensibile in cui prendere le decisioni e organizzare la vita quotidiana. O meglio: ‘ordine’ è il modo in cui chiamiamo quanto riusciamo a riconoscere e a spiegarci. Le comunicazioni, invece, servono per creare ordine. Anzi, poiché l’ordine si basa sulle informazioni, le comunicazioni ‘definiscono’ i confini dell’ordine possibile.

Nelle società orali la complessità era delimitata dalle conoscenze di prima mano. La conoscenza, che potremmo intendere come sinonimo di ordine, era vincolata al qui e ora. Il mondo che si riusciva ad analizzare coincideva con quanto si riusciva a vedere e con quanto riuscivano a raccontarci le persone che eravamo in grado fisicamente di incontrare e di ascoltare. L’organizzazione sociale ne derivava quasi di conseguenza, con gli anziani che assumevano un ruolo centrale proprio per la loro esperienza e per la funzione di trasmissione del sapere alle nuove generazioni.

La scrittura ha superato questo vincolo di sincronia spazio-temporale. L’innovazione apportata dalla scrittura è stata, di fatto, questo superamento. Poter fissare le informazioni su un supporto rendeva tutto più facile: bastava far circolare il supporto. Questa semplificazione dei processi di informazione ha aumentato di diversi gradi la complessità del mondo da riconoscere e organizzare. Sia sul versante quantitativo delle informazioni disponibili, sia su quello qualitativo dell’organizzazione sociale. Ha permesso la nascita della moneta (secondo molti è stato un processo persino contrario: la moneta ha portato alla scrittura), ha modificato la struttura del discorso e questo ha generato nuovi campi di studio, dalla filosofia alla filologia. Ha consentito i primi esperimenti di democrazia e di società ordinata, che non sarebbero stati possibili senza leggi scritte. Eccetera, eccetera.

Fatto il primo passo importante, la complessità delle nuove informazioni da gestire ha generato soluzioni sempre più complesse. Si sono sviluppati i supporti, le tecniche di riproduzione (si pensi alla stampa), le modalità di distribuzione (dai network postali a quelli ferroviari). Fino ad arrivare all’ultima metà del secolo scorso, con i cosiddetti ‘media di massa’.

Questa storia ovviamente non si potrebbe raccontare completamente nemmeno in ottocento pagine. Ma sono possibili alcune osservazioni: la complessità della società di massa è una complessità spesso delegata. La delega, già implicita nel concetto di massa (come in quello di ‘medium’, che suppone il mediatore), è un adattamento di ciascuna società ad un vincolo strutturale dei suoi media più efficaci, ma anche delle sue capacità di elaborare e gestire informazioni sul suo funzionamento interno. Ci sono due esempi facili: il primo è la democrazia, il secondo la televisione. La democrazia, nelle sue prime forme, era diretta. I cittadini di Atene si riunivano e si ascoltavano. Dominare e gestire tutte le voci (sebbene attraverso un set di regole) era un processo intellettualmente affrontabile in una città delle dimensioni di Atene del quinto secolo a.C. E nonostante questo – non a caso – i critici della democrazia parlavano proprio di ‘disordine’. Poiché la prima tentazione di fronte ad uno scenario complesso è ‘togliere informazioni’ per selezionare quelle rilevanti, con la crescita dei numeri la democrazia è diventata ‘rappresentativa’. La rilevanza delle informazioni è scandita sulla base dell’autorevolezza, e l’autorevolezza calcolata ‘democraticamente’ attraverso le scelte dei cittadini attraverso i voti. Il risultato è una delega a decidere, quindi – in prima istanza – anche a capire il mondo per poter decidere.

La televisione, come la stampa periodica, l’editoria e la radio, ha lo stesso problema. A causa dei costi di produzione e distribuzione delle informazioni, non può portare tutti i messaggi di tutti gli emittenti. Va fatta una selezione a monte, quindi bisogna determinare prima cosa è di qualità e cosa è autorevole. E non si tratta di una scelta affatto priva di significato, poiché al tempo dei media di massa la nostra conoscenza è per il 99,9% ‘di seconda mano’. Detto in maniera più tecnica, i media creano la ‘cornice sociale’, ovvero il mondo come noi lo conosciamo. Come lo interpretano per noi.

Ma, soprattutto, è un mondo che attraverso i media setta il suo sistema di valori e organizza le sue società. Persino la delega politica viene scelta e definita attraverso quei processi tecnici che lavorano sul limite funzionale dei media. Scegliamo i nostri rappresentanti in base a quanto (ed a come) i media riescono a raccontarceli. E i nostri rappresentanti conoscono di noi (e delle nostre esigenze) solo delle medie statistiche, attraverso i sondaggi. Non è una cosa buona o cattiva: è solo la miglior soluzione possibile di fronte alla complessità.

Poi ad un certo punto succede una cosa. Si inventa una infrastruttura di comunicazione aperta. Aperta significa non controllabile centralmente, non organizzabile, non coordinabile: una specie di apologia del disordine. Internet non è stata progettata per essere controllabile, altrimenti avrebbe una maggiore riconoscibilità, a partire da un sistema di ricerca dei contenuti e un sistema di governo. La sua architettura, al contrario, è disegnata perché da ogni punto si possa inserire informazioni e persino innovazioni. La sua caratteristica funzionale è quella di consentire a chiunque l’immissione (e la distribuzione) di tutti i contenuti. Sembra poco, ma per questa ‘semplice’ innovazione nella circolazione delle informazioni la nostra società sta affrontando un salto a piedi uniti, confrontandosi con una complessità di mille gradi superiore alle precedenti.

Il fatto stesso che la comunicazione sia ubiqua, bidirezionale e senza limiti di portata sta ridisegnando completamente i sistemi sociali. Dai mercati, alla cultura, alla ricerca scientifica, alla politica, al concetto di individuo. Non è una rivoluzione (parola abusata), è semplicemente accorgersi che non funzionano più (o potrebbero essere in discussione) tutte le convinzioni basate sul sole che gira intorno alla terra. Qualcosa è cambiato e abbiamo davvero molto da studiare.

La prima reazione ad Internet è stata quella classica: attenzione attenzione, troppa complessità in circolo, bisogna semplificare. Il cappello dell’information overload, i giudizi netti degli intellettuali («C’è molta spazzatura in Rete») non sono serviti a nulla. Una infrastruttura che è utile a tutti e che tutti possono arricchire e persino modificare è stata immediatamente percepita come un bene pubblico. E ad oggi sta dimostrando che nel suo ‘disordine’ c’è un ordine nuovo, più simile all’ordine biologico che a quello artificiale. Ed è un ordine che funziona de facto: guardiamo solo a come si è sviluppata la Rete negli ultimi dieci anni, al ruolo che ha nelle nostre vite, allo sviluppo che ha avuto senza alcun coordinamento. La percezione di Internet come bene pubblico fa sì che ciascun utilizzatore che avverte un problema sia anche in grado di suggerire o applicare soluzioni. Pensiamo alla ricerca di informazioni: avessimo dato retta ai teorici dell’information overload avremmo oggi un costosissimo comitato di redazione impegnato a valutare contenuti e a vagliare proposte di innovazione. Invece Google è nato in uno scantinato. I feed RSS (un formato per la distribuzione dei contenuti) si sono affermati grazie all’opera di divulgazione di persone che volevano risolvere un problema. La Rete cresce, con i suoi tempi, perché è la prima infrastruttura globale di comunicazione in grado di discutere su se stessa e di modificarsi autonomamente. Il primo medium (se è ancora un medium uno strumento che in fondo crea relazioni prima che contenuti) con una sua mente sociale.

Cosa avverrà nei prossimi anni è difficile da dire. A senso la comunicazione bidirezionale (cui il mercato sta già prendendo dolorosamente le misure, poiché prima non era contemplata la voce del consumatore) porrà problemi che porteranno le scienze politiche a riesaminare alcune basi del concetto di rappresentanza. E succederanno molte altre cose. Ma la prima riguarda già noi tutti i giorni e il nostro modo di pensare: non stiamo più delegando l’interpretazione del mondo ad altri. Le informazioni sono lì (tutte, ‘terribilmente’ tutte) e ciascuno di noi deve imparare ad essere il mediatore di se stesso, a costruirsi il proprio ‘ordine’ in cui collocarsi. Non c’è più la qualità, decisa dagli altri: oggi si parla di pertinenza, ovvero di ciò che è importante per ciascuno.

È un cambiamento assai rilevante. La nostra generazione lo sta vivendo dal di dentro, i nostri figli lo sentiranno normale. L’unica certezza che possiamo avere è che stiamo entrando in un mondo destinato a cambiare sempre più velocemente. Io, personalmente, mi sentirei solo di rubare una piccola profezia a Bruce Sterling: «La gente del XXI secolo passerà la vita ad imparare. E questa è al contempo una benedizione e una maledizione».

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