FLESSIBILITÀ
Rigidità vs flessibilità: la precisione è un’approssimazione
di Sabrina Tonutti
Immaginiamo: mentre leggete queste righe state mangiando una mela, e più procedete a morsi in questa gustosa attività, meno mela vi rimane fra le mani, fino a che vi ritrovate con un torsolo che gettate via come scarto. Immaginiamo ancora: di quando in quando lo scrosciare della pioggia richiama la vostra attenzione e il vostro sguardo fuori dalla finestra, verso un prato d’erba, e notate che le piogge abbondanti hanno brizzolato il manto verde di steli ora marroni, ora gialli.
Ebbene, quelli citati non sono che due banali indizi di quella moltitudine di azioni ed eventi apparentemente insignificanti che mettono in crisi la logica classica: il mondo che ci circonda, un multiverso ricco di sfumature e variazioni, luogo di mutamento e vaghezza, mette in scacco, da millenni ormai, la nostra tendenza e aspirazione a leggere, classificare, sistematizzare il reale in termini fondamentalmente binari. Vediamo perché. Torniamo alla nostra mela: rotonda e rubiconda quando intera, morso dopo morso si trasforma, fino a che della mela non rimane più nulla, e viene da chiedersi, seguendo le regole della logica classica – il cui principio di non-contraddizione insegna che A non può essere allo stesso tempo non-A – qual è il momento in cui, e dopo quale morso, la mela si trasforma in non-mela, dov’è, insomma, il confine fra mela e non-mela.
Pensiamo ora al prato d’erba, del quale non avremmo alcun timore ad affermare che è verde: l’espressione «il prato d’erba è verde» è vera? Il dubbio è legittimo se osserviamo con maggiore attenzione il manto vegetale, e scopriamo appunto che non tutti gli steli d’erba sono verdi; alcuni sono marroni, altri gialli. L’affermazione «il prato d’erba è verde» è ancora valida se è presente uno stelo marrone? E se gli steli sono due? E se sono 100? E se sono 1.000?
Questo tipo di quesito appartiene a quella schiera di longevi paradossi che turbano i filosofi dai tempi di Aristotele, perché rimane irrisolto all’interno delle coordinate dalla logica binaria, per la quale gli enunciati sono veri o falsi, e non esistono vie mediane: ma la realtà propone alla nostra osservazione confini non netti, bensì sfumati, entità imprecise e non clear-cut, gradienti fra il bianco e il nero, lo zero e l’uno, l’acceso e lo spento, e così via. La realtà, in altre parole, si presenta in modo preponderante come fuzzy, vaga, come la logica inventata per descriverla.
Preceduto dalle teorie di studiosi come Bertrand Russell, Jan Lukasiewicz e Max Black, fu lo scienziato Lotfi Zadeh (della University of California a Berkley) a concepire negli anni ’60 la logica fuzzy (o vaga, o polivalente), una teoria (che è anche un modo di processare i dati nei sistemi informatici) che supera la rigidità e l’imprecisione della logica binaria. Mentre infatti per la logica classica i predicati si esprimono nelle modalità di vero/falso, e le cose sono bianche o nere, o, meglio, la realtà fenomenica deve rientrare nella griglia classificatoria binaria, la logica fuzzy riconosce e fa propri la polivalenza, la ricchezza di sfaccettature e il mutamento che ineriscono alla realtà ed elabora un modello e un sistema di rappresentazioni che si rivelano flessibili, e si esprimono per sfumature e gradienti: di grigi (dal bianco al nero), di valore, in percentuale (da 0 a 100%, da acceso a spento), e così via. Ciò che caratterizza quindi la logica fuzzy è un realismo epistemologico che permette di allontanare il rischio dell’approssimazione e dell’imprecisione di enunciati binari cui mal si adattano i fenomeni che al contrario si presentano parziali, o dai confini smagliati, comunque complessi. Ciò corrisponde a una tensione del sistema di modellizzazione (cioè delle rappresentazioni) verso la maggiore aderenza possibile a quella realtà che esso ha il compito di leggere, descrivere, analizzare.
Ecco allora che, tornando alla nostra mela e al nostro prato, l’‘essere mela’ della mela decresce, in percentuale da 0 a 100, man mano che viene mangiata, fino a che non sarà più mela. E lo stesso dicasi della lussureggiante ‘verdezza’ del prato, non turbata nella sua veridicità dalla presenza degli steli d’erba marroni se non nella esatta, e non approssimata (vero/falso), misura data dalla quantità di questi ultimi (0%, 1%, 2% … 99%, 100%).
L’innovazione della logica vaga rispetto a quella binaria getta luce su una serie di interessanti aspetti e fenomeni della conoscenza: la relazione tra una rappresentazione e ciò che essa rappresenta; le nostre tendenze percettive e cognitive nella ricognizione e descrizione dei fenomeni; le traslazioni di tale approccio ad altri ambiti di conoscenza e applicazioni.
La riflessione che la prospettiva delle ‘sfumature’ e la fuzzy logic stimolano all’interno di campi disciplinari diversi da quello ingegneristico-informatico rappresenta senza dubbio una fertile incursione che favorisce, fra l’altro, un ripensamento critico della categorizzazione del reale e della sua rifrazione nel linguaggio.
Ponendoci sempre nel solco indicato dalla tradizione della logica binaria, le categorie cui facciamo afferire le entità della realtà presentano dei confini che le definiscono e le distinguono le une dalle altre; per quanto riguarda i membri di ciascuna di esse vale il principio di non-contraddizione, per cui un’entità X appartiene alla categoria A, oppure non le appartiene.
A partire però dagli anni ’70, e soprattutto a seguito degli studi di Eleonor Rosch sulle categorie semantiche, è emerso come la distribuzione di tratti caratterizzanti all’interno della categoria non sia affatto omogenea: al contrario, all’interno della categoria esistono da un lato dei membri ‘esemplari’, che meglio rappresentano (qualitativamente e quantitativamente) l’insieme di afferenza e che pertanto costituiscono il ‘prototipo’ categoriale e, dall’altro, membri marginali, distanti dal centro della categoria. Mutuando un esempio da L’etnografo imperfetto (2002) dell’antropologo Leonardo Piasere, ci possiamo interrogare sull’appartenenza del pinguino alla categoria degli uccelli: certo, non c’è dubbio che il pinguino, nonostante tutto, sia per definizione scientifica un uccello, ma, ci chiediamo, lo è allo stesso modo di un gabbiano e di un passero? O, mettendola in altri termini, è più uccello il gabbiano o il pinguino? Insomma, all’interno delle coordinate di inclusione/esclusione, appartenenza/non-appartenenza dettate dal principio di non-contraddizione la veridicità dell’enunciato «il pinguino è un uccello» non rende conto delle differenze interne alla categoria, non risponde alla nostra esigenza di veder riconosciuta la macroscopica diversità fra i due uccelli, di cui il primo vola, mentre l’altro nuota! Pensando invece le categorie come politetiche e i membri di queste nei termini di ‘prototipici’ e ‘marginali’, e collocando i soggetti in rapporto a un ipotetico ‘fuoco’ o centro della categoria, possiamo definire il gabbiano e il passero ‘volatili prototipici’ (o ‘tanto’ volatili), e il pinguino un uccello non-prototipico o marginale (o ‘meno, poco’ uccello). Col pinguino infatti la categoria sfuma verso la non-categoria, perché, come scrive Piasere, «si può essere tanto, poco, appena appena, per nulla, membri di una categoria».
Ma come può il linguaggio registrare l’esistenza di un centro e di una periferia nelle categorie? Come si può esprimere la prototipicità di un membro di una categoria? L’utilizzo di un superlativo per il sostantivo (e strategie linguistiche simili) ci è precluso dalla nostra grammatica (nonché dalle esigenze di sinteticità dell’espressione), ma certamente l’espressione ‘uccellissimo’ renderebbe bene l’idea.
Ora, pur rilevando l’imprecisione e la rigidità dell’opzione binaria rispetto alla presenza di sfumature, ‘ponti’ e gradienti fra le categorie, è necessario nondimeno osservare che, a un livello molto generale, il sistema binario di classificazione costituisce una risposta a una esigenza di economia nella sistematizzazione agile e sintetica del reale e nella comunicazione.
Sotto certi aspetti, Aristotele non aveva fatto che codificare una nostra tendenza filogenetica; infatti, come ci suggerisce la storia della nostra filogenesi (e come indicato dalla psicologia della Gestalt), noi siamo inclini a pensare per coppie di opposti: ‘sì/no’, ‘su/giù’, ‘caldo/freddo’, e così via. E l’opzione binaria e il principio dell’antitesi rappresentano certamente un’utile chiave di lettura, nella misura in cui facilitano e rendono agili le nostre associazioni mentali. Tuttavia, questa tendenza costituisce anche una limitazione del nostro pensiero, poiché lo conduce a quelle che Irenäus Eibl-Eibesfeldt (Etologia umana, 2001) chiama ‘illusioni’ o ‘limitazioni’, come l’emergere di una visione in bianco e nero e di aut-aut nella lettura, anche scientifica, della realtà che ci circonda.
È stato da alcuni osservato come schemi di interpretazione della realtà binari e bipolari siano caratterizzanti della tradizione del pensiero cosiddetto ‘occidentale’, all’interno del quale la contraddizione è una seccatura e lo spettro da esorcizzare è la coesistenza dei due predicati A e non-A.
Diversamente, altri orizzonti culturali accettano le contraddizioni e si alimentano di paradossi, come avviene nel caso del misticismo orientale in cui, per fare un esempio, gli studenti vengono sottoposti dai maestri all’esercizio del koan, cioè la risoluzione di un paradosso, una domanda senza senso (come «che suono ha l’applauso di una sola mano?») cui il discepolo deve dare una risposta superando l’opposizione fra l’affermazione e la negazione; sulla strada verso il satori, cioè l’illuminazione, il koan è uno strumento utile a riprendere il controllo del proprio pensiero, arginando l’influenza della forma mentis dicotomica.
Bart Kosko dichiara che, nella larga (e imprecisa) comparazione fra pensiero ‘occidentale’ e ‘orientale’, Aristotele e Buddha personificano due radici culturali, e non a caso, commentano attenti osservatori della diffusione delle applicazioni fuzzy, la logica vaga ha attecchito più celermente in paesi, come il Giappone, già conoscitori, praticanti e depositari di saperi e prospettive fuzzy. Ed è stato soprattutto qui, prima che altrove, che la logica fuzzy ha inaugurato un nuovo capitolo nelle innovazioni della tecnologia: colossi giapponesi come la Hitachi, la Canon, la Nissan e altri hanno lanciato sul mercato lavatrici, condizionatori d’aria, macchine fotografiche e una lunga serie di prodotti tecnologici di largo consumo la cui caratteristica è di avere una intelligenza macchinica di tipo fuzzy, cioè più simile, nel sistema di controllo, al modo di pensare dell’uomo che delle macchine fino a poco tempo fa conosciute.
Dalla logica alla filosofia alla tecnologia o, nel nostro breve excursus, dalla mela, al prato, al koan, alla lavatrice.
Quella fuzzy è una finestra che ci fa osservare il nostro mondo da una visuale inusuale, che ci solletica e sollecita a rileggere le cose consuete con una nuova chiave di lettura: così, tornando al nostro contesto di lettura iniziale, ci rammenta che mentre consumiamo la nostra merenda la mela passa morso dopo morso dal 100% allo 0%, che il prato che vediamo fuori dalla finestra è sì, in buona sostanza, verde, ma anch’esso in percentuale.
E il nostro pensiero, prendendo le distanze da Aristotele e confidenza con le sfumature, si lascerà forse guidare in nuovi ambiti di riflessione domandandosi, seguendo indizi fuzzy, quanto sia uccello il passero che volteggia fra i rami degli alberi, quanto sia prototipico il nostro cane rispetto ai suoi consimili di altre razze, quanto sia intelligente e fuzzy il condizionatore d’aria. E, ancora, se ci sono confini oppure sfumature fra giovinezza e vecchiaia, la vita e la morte, il giusto e l’ingiusto.
E, pure, in che misura quanto avete fin qui letto sia vero.