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Il filosofo austriaco di origine ebraica Martin Buber, parafrasando il prologo del Vangelo di Giovanni (1, 1-2), ha affermato che «In principio era la relazione». In effetti questo assunto non sembra irragionevole se solo si pensa che la capacità di formare legami – link appunto – ha pervaso tutta la storia del Cosmo fin dal suo inizio (13,7 miliardi di anni fa). Nell’arco di un secondo dal big bang, l’energia infinita degli inizi – ciò che i fisici definiscono ‘singolarità’ – si è tramutata in un brodo bollente di quark ed elettroni (le componenti più elementari della materia), che si sono poi combinati per formare protoni, da cui, a loro volta, si sono generati i neutroni per interazione con gli elettroni. Protoni, neutroni ed elettroni hanno, infine, potuto legarsi formando i primi atomi o elementi (idrogeno ed elio) attraverso un processo denominato nucleosintesi. Nello sconfinato ‘oceano di materia in espansione’ vi erano alcune discontinuità (increspature) del Cosmo, che hanno poi reso possibile la formazione di galassie (entro 8 miliardi di anni fa), per azione della forza di gravità, in ciascuna delle quali si trovano centinaia di miliardi di stelle simili al sole. Il nucleo di queste stelle ha generato, con un secondo processo di nucleosintesi, gli atomi (carbonio, ossigeno, azoto, fosforo ecc., oltre naturalmente all’idrogeno) di cui sono costituite tutte le forme di vita conosciute. Tali elementi sono stati, quindi, dispersi nel Cosmo quando le stelle, alla fine del loro ciclo, sono esplose trasformandosi in Supernovæ: siamo a tutti gli effetti ‘polvere di stelle’. Ebbene, queste componenti ‘privilegiate’ della materia, per quanto ne sappiamo, hanno innescato una serie di processi di aggregazione su uno sperduto pianeta (la Terra) del sistema solare di una delle centinaia di miliardi di galassie (la Via Lattea), che ha portato alla formazione di acqua e di tutte le altre molecole della vita (amminoacidi, zuccheri, basi azotate, lipidi ecc. nel brodo primordiale). Attraverso un processo di auto-organizzazione e poi di evoluzione, cadenzato da un delicato gioco tra competizione e cooperazione, queste molecole hanno originato le prime protocellule che, nell’arco di 3,5 miliardi di anni, hanno reso possibile, seppur con un andamento discontinuo, il dispiegarsi di quella straordinaria radiazione adattativa di forme di vita la cui bellezza e raffinata complessità sono fonte di grande stupore. Non è stato, come spesso si crede, un percorso ‘lineare’ verso la complessità. Da un’origine comune, si sono fin dall’inizio generate numerose ramificazioni in cui il semplice coesisteva con il complesso. In altri termini, non vi sono gerarchie in natura, né descrittive né interpretative, anche perché tutti gli esseri viventi hanno un loro senso. Gli organismi unicellulari che si formarono all’inizio, ben presto manifestarono una tendenza ad aggregarsi per vivere in colonie, seppur con scarsa o nulla specializzazione. Sulla Terra pullularono così le prime cellule (batteri) prive di nucleo e altri organelli (procarioti). I batteri si nutrivano anche per ‘fagocitosi’, processo attraverso cui una cellula vive a spese di un’altra, che viene inglobata e poi ‘digerita’. È accaduto, però, nel corso dell’evoluzione, che tale meccanismo si sia ‘inceppato’ in alcuni casi. La cellula ‘fagocitata’ (cibo), invece di essere digerita, ha iniziato una ‘convivenza’ (endosimbiosi), specializzandosi per assolvere varie funzioni quali la respirazione (mitocondri) e la fotosintesi (cloroplasti), o per svolgere qualche altro ruolo. Questo fenomeno è stato intuito da diversi studiosi, tra cui Konstantin Mereschkowsky. Ma la prima rigorosa descrizione per spiegare l’origine delle cellule eucariote (provviste di nucleo e altri organelli) a partire da procarioti si deve alla biologa Lynn Margulis. In tal modo si sono poste le basi per una nuova ondata di links. Circa 570 milioni di anni or sono si verificò uno straordinario (e unico) evento che comportò la nascita di tutti i tipi (phyla) di organismi pluricellulari animali.
Questo sorprendente fiorire di forme di vita, denominato ‘esplosione del Cambriano’, ci è stato mirabilmente descritto, attraverso l’analisi dei fossili presenti negli argilloscisti di Burgess (Canada), da Stephen J. Gould in un suo famoso libro (La vita meravigliosa). Un ulteriore fondamentale evento di unione è costituito dall’emergere della riproduzione sessuale, diffusa sia negli eucarioti unicellulari sia pluricellulari, che ha avuto un ruolo notevole nell’evoluzione delle specie, come peraltro già colto da Charles R. Darwin, che parla anche di selezione sessuale accanto a quella naturale. Ma la comparsa degli organismi pluricellulari ha permesso che gli stessi, giunti a un certo livello, si dotassero pure di un sistema nervoso, che nei Primati (cui appartiene anche l’uomo) ha espresso un elevato livello di complessità: il cervello. Formato da più di cento miliardi di cellule nervose (neuroni), che formano circa mille o più miliardi di connessioni (sinapsi), esso è la base fisiologica di tutte quelle funzioni ‘superiori’ che solitamente attribuiamo alla mente – soprattutto il linguaggio simbolico – e che ci rendono così specifici, seppur non esclusivi. Infine, tutte le forme di vita (la rete della vita) sono inter-relate tra di loro e con l’ambiente fisico che le ospita (nicchia) da delicati cicli ecologici, che sono a fondamento della biosfera. Possiamo, quindi, affermare che la storia della vita sia stata, in effetti, costellata dallo stabilirsi di un’incredibile serie di links. Il cosmo e la vita, quali sistemi complessi, sembrano così emergere da processi che hanno nella capacità di formare legami il loro fondamento. Eppure, tutti questi fenomeni sono governati anche da sottostanti leggi fisiche di notevole valore e apparente semplicità: si pensi alle equazioni di Erwin Schrödinger relative alla meccanica quantistica, a quelle di James C. Maxwell sull’elettromagnetismo, alla meccanica hamiltoniana, oppure all’incredibile, per semplicità e bellezza, legge di equivalenza tra energia e materia formulata da Albert Einstein.
Questi fantastici successi della scienza sono il frutto dell’approccio sperimentale (galileiano) allo studio dei fenomeni naturali, che ha nel riduzionismo e nel determinismo i suoi cardini. Il riduzionismo è un metodo che implica la scomposizione di un sistema complesso – ad esempio una cellula – e lo studio delle sue componenti (membrane, organelli, ecc.), la cui conoscenza è poi utilizzata per comprendere e interpretare la funzione del tutto (la cellula), attraverso una spiegazione rigorosamente deterministica di causa/effetto, che implica un percorso logico lineare. Questo metodo fu esaltato, ancora nel 1820, da Pierre-Simon de Laplace, il quale ha sostenuto, nel suo Théorie analyptique des probabilités, che, se conoscessimo la posizione e la velocità (quantità di moto) delle particelle che costituiscono l’Universo, saremmo in grado non solo di predirne il futuro, ma anche di ricostruirne il passato. L’approccio è ancora fortemente difeso (ciò è corretto) e considerato un esclusivo (ne dubitiamo) strumento per lo studio della natura. Molti illustri studiosi, tra cui primeggia Steven Weinberg, sostengono che con questo metodo si possa giungere nel futuro a ciò che si definisce ‘Teoria del tutto’, in base alla quale dovremmo poter spiegare tutti i fenomeni di natura con leggi fisiche universali. Non tutti i fisici, però, sono concordi su tale visione della scienza. Due autorevoli studiosi, Nigel Goldenfeld e Leo P. Kadanoff, in un articolo del 1999 apparso sulla rivista «Science» (Simple Lessons from Complexity), di fronte alla stupefacente bellezza delle leggi di natura ebbero a dire: «Ogni cosa è semplice e chiara – eccetto, naturalmente, il mondo». Un’affermazione che rende giustizia, a distanza di tempo, a uno dei grandi geni dell’Umanità, Johann W. Goethe, il quale nel suo Studio su Spinoza aveva con largo anticipo compreso che «ciò che chiamiamo parte di un essere vivente, è talmente inseparabile dal tutto che le stesse parti possono essere comprese soltanto nel e con il tutto; e né le parti possono essere adoperate come misura del tutto, né il tutto come misura delle parti». Questo passo goethiano può essere a tutti gli effetti considerato il manifesto della Teoria della complessità, una nuova branca della scienza. Essa si occupa di sistemi formati da un numero più o meno elevato di componenti (nodi) i quali, formando legami tra di loro (sistema a rete), si influenzano reciprocamente. Tali sistemi possono manifestare tre regimi di comportamento: ordinato, caotico e critico, vale a dire al confine (margine) tra ordine e caos (edge of chaos). Queste nuove conoscenze traggono origine dall’attività di numerosi studiosi in differenti settori della scienza. Le loro profonde radici sono riconducibili a Jules Henry Poincaré (cfr. F. Capra, La rete della vita, 1966), che ha sviluppato una geometria di tipo nuovo (non-euclidea), basata su una matematica degli schemi e delle relazioni (topologia). Questo filone è stato poi ripreso ed esteso, a partire dagli anni ’40 del secolo scorso, con la teoria dei sistemi dinamici, che ha permesso di portare ordine nel caos. In altri termini, è stato possibile scoprire come schemi ordinati (attrattori e frattali) possano emergere da uno stato caotico (fig. 1) (un ‘attrattore’ o ciclo degli stati descrive un fenomeno complesso, che, dopo un’iniziale fase caotica, diventa ordinato comportandosi in maniera ciclica e indefinita, purché non venga perturbato anche da una piccola variazione – effetto farfalla: il battito d’ali di una farfalla dell’Amazzonia scatena un temporale a New York.
I ‘frattali’ sono figure geometriche irregolari che hanno identiche strutture in tutte le scale: un cavolfiore ne è un chiaro esempio; cfr. B. Mandelbrot, Nel mondo dei frattali, 2001). Altri sviluppi, soprattutto per merito di John von Neumann, Claude Shannon e Norbert Wiener, sono legati alla nascita della cibernetica, cioè della scienza che si occupa di regolazione nei sistemi complessi. Ma soprattutto decisiva è stata l’opera di Ludwig von Bertalanffy: a lui si deve, infatti, l’introduzione della scienza dei sistemi, descritta nella sua magistrale opera del 1968 General System Theory. La sua teoria ha il grande merito di spostare l’attenzione dallo studio delle parti di un sistema a quello del tutto (approccio sistemico), nonché di farci capire che gli organismi viventi sono sistemi aperti (capaci di scambiare materia ed energia con l’ambiente), non completamente riducibili alle leggi della fisica. Infine, un grande impulso va attribuito a quella straordinaria esperienza di scienziati di varia formazione, tra cui Murray Gell-Mann, Stuart Kauffman e altri, che nel 1984 fondarono il Santa Fe Institute for the Study of Complexity.
I sistemi complessi sono governati da una serie di principi che li caratterizzano (a questo proposito cfr. A.F. De Toni e L. Comello, Viaggio nella complessità, 2007). Alla base vi è la loro capacità di auto-organizzarsi, una proprietà descritta per la prima volta con un formalismo matematico dal chimico di origine russa Ilya Prigogine. L’auto-organizzazione è una tendenza dei sistemi aperti ad esplorare il loro ‘stato delle possibilità’ per generare spontaneamente nuove strutture e forme – strutture dissipative, nel linguaggio di Prigogine –, purché il sistema sia lontano dall’equilibrio (cioè non sia stabile, rigido). Tali sistemi soggiacciono a una nuova forma di geometria, denominata ‘frattale’, a cui si è già fatto cenno, e manifestano anche altri caratteri peculiari, quali un elevato grado d’imprevedibilità e una grande capacità delle proprie componenti a formare legami: nel risultante sistema prevale la causalità circolare (se A causa B, B influenza A), e la modalità di apprendimento si realizza per prova ed errore. Alla luce di quanto sopra, possiamo affermare che «la capacità di ridurre ogni cosa ad alcune leggi fondamentali non implica affatto la possibilità di ripartire da queste leggi e ricostituire tutto l’Universo». Queste autorevoli parole del fisico Philip W. Anderson, tratte da un suo celebre articolo apparso su «Science» nel 1972 (More is Different), costituiscono una sfida al riduzionismo, pur riconosciuto ancora molto importante, e un invito ad andare oltre. Il riduzionismo, infatti, non appare adeguato a descrivere l’aspetto forse più peculiare e diffuso di tutti i sistemi complessi: la ‘proprietà emergente’. Questa locuzione è stata introdotta nei primi anni ’20 del secolo scorso dal filosofo Charlie D. Broad per indicare dei comportamenti che emergono a un certo livello di complessità, ma che sono assenti a livelli inferiori, un fenomeno che riguarda tutti i livelli di descrizione della natura: dai sistemi fisici, a quelli biologici, fino a quelli sociali (sul ruolo dell’emergenza in biologia e, in particolare, in economia, cfr. A.F. De Toni, L. Comello e L. Ioan, Auto-organizzazioni. Il mistero dell’emergenza dal basso nei sistemi fisici, biologici e sociali, 2011). L’auto-organizzazione è indubbiamente la più importante fonte di emergenza. Può essere definita come il risultato di un processo dal basso in alto (bottom-up) attraverso cui un sistema complesso, giunto a un punto di instabilità (biforcazione), (ri)organizza le sue componenti per creare una nuova struttura più complessa con nuove proprietà che non sono riscontrabili nelle sue parti. Uno stormo di uccelli ne costituisce una stupefacente esemplificazione (fig. 2), divenendo così una metafora di tutti i fenomeni della vita. Negli organismi viventi, proprio perché esibiscono un regime in bilico (margine) tra ordine e caos – coincidente con uno stato di ‘criticità auto-organizzata’ –, l’auto-organizzazione è più frequente e sembra conferire loro, secondo Per Bak e Kan Chen, una migliore capacità di evolversi. Una seconda fonte di emergenza ci è stata descritta da Philip Anderson nel già citato lavoro. Egli introduce il concetto di ‘rottura di simmetria’, che, come vedremo, risulterà cruciale nel capire la creatività della vita. La rottura di simmetria può essere facilmente spiegata ricorrendo a una metafora utilizzata dal fisico pakistano Abdus Salam. A tale proposito, s’immagini una tavola da pranzo rotonda su cui tutt’intorno sono regolarmente disposti (alternati) coltelli e forchette. Questa è una tipica situazione con una perfetta simmetria a 360 gradi. Il primo commensale che a caso sceglie il primo coltello di fatto ‘rompe la simmetria’. A questo punto tutti gli altri commensali sanno distinguere il proprio coltello (a destra) e la propria forchetta (a sinistra). Possiamo così affermare che la destra e la sinistra ‘emergono’ da una rottura di simmetria. Questo fenomeno appare peraltro diffuso a diversi livelli di scala, a partire dalle molecole che, in alcuni casi (zuccheri e amminoacidi ad esempio), possono essere distinte in conformazione ‘destra’ (D) e ‘sinistra’ (L, da lævus). Anche gli organismi viventi, pur con ragionevoli eccezioni (Cnidari ed Echinodermi, ad esempio), per colonizzare la terra hanno ‘rotto’ la loro simmetria raggiata (a 360 gradi) per assumerne una bilaterale (a 180 gradi), in cui possiamo distinguere, appunto, un lato destro e uno sinistro (fig. 3).
Nelle scienze della vita i fenomeni emergenti non sono, però, confinati all’auto-organizzazione e alle rotture di simmetria sopra esaminate. In un recente saggio (Reinventare il sacro, 2010), Stuart Kauffman ci ha ricordato che «una delle idee più brillanti di Darwin consiste in quello che oggi noi chiamiamo preadattamento darwiniano». In breve, non tutti i caratteri che compaiono negli organismi viventi attraverso l’evoluzione per selezione naturale soddisfano immediatamente una determinata esigenza adattativa: alcuni non hanno inizialmente funzioni, mentre altri ne svolgono una, ma la stessa è successivamente ‘cooptata’ per adempierne un’altra.
Si pensi, ad esempio, alle piume degli uccelli, che si sono inizialmente evolute come meccanismo di termoregolazione del corpo, per essere poi cooptate come strumenti per il volo (penne, fig. 4). Questo fenomeno è ampiamente diffuso e documentato in natura. Le sue funzioni adattative sono state riscoperte da due grandi biologi evoluzionisti, Elisabeth Vrba e Stephen J. Gould, che l’hanno ridefinito ‘exattamento’ (exaptation) e che ne hanno, peraltro, messo in luce il ruolo nel processo evolutivo.
Il preadattamento/exattamento, secondo quanto suggerito da Kauffman, sembra alla base di gran parte dei fenomeni emergenti che costellano l’evoluzione della vita e che non possono essere riducibili/riconducibili a un esclusivo e rigido determinismo. Si viene così a manifestare un’insolita ‘libertà’ nell’evoluzione della vita.
Secondo Kauffman i preadattamenti darwiniani si ritrovano, in particolare, in tutti i fenomeni emergenti che sembrano ‘trascendere’ la natura biologica dell’uomo (ma non solo). Ci si riferisce, in primo luogo, a ciò che questo scienziato identifica con la parola inglese agency, da intendersi come ‘azione volontaria’ o ‘processo agente’, ma anche all’emergere del ‘significato’, fino a giungere al ‘valore’. Questa cornice concettuale fornisce perciò supporto all’intuizione del paleoantropologo Ian Tattersall, il quale sostiene che il linguaggio simbolico dell’uomo con tutte le sue manifestazioni (etica, arte, valori, ecc.) possa costituire una proprietà emergente del suo sistema cervello/mente e corpo, che forma un’unità inscindibile. Possiamo così affermare che, se il ‘caos deterministico’ che conduce ai frattali e agli attrattori non infrange le leggi di natura, il preadattamento/exattamento ne può prescindere. Allora l’evoluzione della vita, in un’ottica neodarwiniana, può essere spiegata mediante il binomio variazione (casuale) di un carattere (fenotipico) in una popolazione di organismi viventi, che è poi soggetto al vaglio della selezione naturale (necessità). Ma i preadattamenti/exattamenti ci mettono di fronte a un tipo radicalmente nuovo e imprevedibile di creatività della vita (biosfera), che non finisce mai di stupirci e che la rende sublime. Allora, questa proprietà consente alla vita, a tutti i suoi livelli di complessità, di esplorare sempre nuovi ‘adiacenti possibili’, cioè nuove vie, nuove prospettive (‘adiacente possibile’ esprime il concetto che l’evoluzione non si può manifestare secondo infinite possibilità: può procedere solo partendo da una realtà già esistente e producendo novità che, comunque, sono ‘contigue’ all’entità da cui sono derivate; tuttavia, si deve tener conto che a volte cambiamenti fenotipici minimi sono pressoché proibiti – la famosa scolopendra con ventidue paia di zampe, anziché le solite ventuno –, mentre possono esserlo altri che comportano ‘salti’ clamorosi, purché il meccanismo ontogenetico per effettuarli sia più semplice). Non sembra, quindi, fuori luogo ipotizzare che l’evoluzione della società possa avvenire proprio attraverso meccanismi di co-costruzione di una rete di finalità, ruoli sociali, etica e produzione, frutto di questa incredibile creatività emergente. La creatività della vita può, allora, esprimersi attraverso differenti forme (grazie a Dio), ma sembra avere una stupefacente radice comune. Un esempio significativo, in tal senso, ci è fornito da una disciplina che si colloca all’interfaccia tra le scienze ‘dure’ e quelle umanistiche: l’economia. Lo sostiene in maniera autorevole l’economista Brian Arthur quando assimila la rete economica a una vera totalità co-evolvente, auto-consistente e co-costruttiva. Attraverso la complessità possiamo, infatti, descrivere le dinamiche economiche come fenomeni non-deterministici, imprevedibili e non-meccanicistici.
Sebbene la società appaia fondata sullo stabilirsi di links e su tutto ciò che ne consegue, non tutti i legami sembrano possibili o ‘leciti’. Un clamoroso esempio ci è fornito da uno dei più grandi antropologi, Claude Lévi-Strauss, recentemente scomparso, nella sua opera Le strutture elementari della parentela. Egli sostiene che la cultura umana sia nata con le prime regole di convivenza, dettate proprio dallo stabilirsi di relazioni tra i membri di un gruppo. Tra queste regole spicca il tabù dell’incesto, al fine di minimizzare la nascita di prole anormale. La conseguente esogamia, cioè l’accoppiamento al di fuori del ristretto cerchio familiare, ha avuto anche altre importanti conseguenze sul piano biologico e sociale: da un lato ha accresciuto la variabilità genetica della popolazione, che si è tramutata in una più elevata capacità di sopravvivenza; dall’altro, ne ha arricchito la compagine sociale, che ha potuto così evolversi da piccolo gruppo famigliare a clan di maggiore estensione e complessità organizzativa.
Il tabù dell’incesto è, nel contempo, un’incredibile ed efficace metafora dei rischi che la nostra società può correre se si chiude in se stessa. A tale proposito, è illuminante la conclusione del grande romanzo di Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine. Tutto lo straordinario succedersi di coraggiose rivoluzioni mancate, vite operose, segnate dalla fortuna o (indistintamente) dalla sfortuna, confluisce in un destino segnato da un’irripetibile solitudine: la nascita di un bambino con la coda di maiale, frutto dell’incesto fra i due protagonisti che le formiche portano via. Come non cogliere in questo tragico finale l’immagine trasfigurata della storia umana, «effimera e sventurata» secondo le parole di Nietzsche, che cede alla tentazione di chiudersi al diverso e che si preclude la possibilità di formare legami con altri popoli e altre culture.
Forse ha proprio ragione Stephen J. Gould quando afferma che «la variazione (diversità) è la materia prima di qualsiasi progresso biologico e culturale». Allora, a fronte di una società globalizzata in cui riemergono tentazioni falsamente identitarie e si erigono nuove barriere, il rischio è quello di incorrere in forme di ‘incesto collettivo’. Infatti, solo l’accettazione della diversità può salvare (paradossalmente) la nostra identità e fornirci una consapevolezza e una saggezza che hanno nella capacità di formare nuovi e impredicibili links la loro vera fonte di creatività, aprendoci così a un futuro possibile.
Il passo di Márquez ci fa capire come anche la letteratura o, più in generale, il linguaggio, in cui l’arte combinatoria di simboli e parole si esprime a livelli creativi unici, può svelarci profondi significati. Analogamente, la musica e la pittura sono le attività artistiche che forse più si avvicinano al binomio complessità-emergenza. Prendiamo ad esempio un quadro, in cui le singole pennellate (le parti) non hanno alcuna proprietà. Ma qualcosa improvvisamente accade a livello dell’intera opera: forma, bellezza e significato emergono quasi d’incanto quando la stessa è portata a termine. Un notevole esempio (icona) ci è offerto da un quadro di Alighiero Boetti, prematuramente scomparso, un artista che fece parte del movimento denominato ‘arte povera’.
Il titolo dell’opera è Avere fame di vento (fig. 5). L’autore combina elementi semantici differenti (lettere, forme, colori), che derivano da campi diversi, ma che si integrano fino a far emergere qualcosa che le singole parti non possono esprimere: un arazzo. D’altra parte, questa modalità creativa sembra essere anche quella praticata dai poeti se, come scrisse Thomas S. Eliot, «la mente del poeta è infatti un ricettacolo che coglie e immagazzina infiniti sentimenti, frasi immaginarie che rimangono lì fino a quando le particelle, che possono unirsi per creare un nuovo composto, sono presenti nello stesso momento».
Forse dovremmo cercare di essere un po’ poeti, anche perché, come ha scritto un altro grande fisico, Robert Laughlin: «se un semplice fenomeno fisico può acquistare indipendenza rispetto alle leggi essenziali da cui deriva, la cosa vale anche per noi. Sono di carbonio, ma potrei non essere stato solo quello. Il senso di ciò che sono trascende gli atomi di cui sono fatto».

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