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Esiste una nuova generazione critica? Esiste. Ma è una realtà di cui non abbiamo un’immagine, proprio perché è nuova sotto tanti aspetti. Una generazione che si sente diversa non solo dalla massa post-ideologica attuale, ma anche dai movimenti ideologici degli anni ’60 e ’70. I ‘movimenti’ erano estroversi e collettivizzanti; i ‘giovani critici’ di oggi sono introversi e individualizzanti (non individualisti, ma impegnati in un cambiamento che comincia da loro stessi). Non appartengono a organizzazioni, ma sono ormai molti (benché pochi se ne rendano conto): il fenomeno è comune a tutta l’Europa. Questa avanguardia nascosta è sorprendentemente fitta in Italia. Il nostro Paese, campione dell’inerzia mediterranea descritta da Fernand Braudel nella classe politica e in quella accademica, mostra invece fra i giovani un vasto rinnovamento. Quasi subito, però, notiamo la sua impotenza. Questo potenziale atomizzato non confluisce in una ‘massa critica’. Manca non solo di movimenti che lo unifichino formalmente, ma soprattutto di simboli, cioè di aggreganti psicologici. Inconsistente è il luogo comune: ‘il loro modello è Saviano, come un tempo era il Che’. Guevara era coniugato con ‘tutto e subito’, con l’azione, estroversa e rivoluzionaria; Saviano col pensiero che gradualmente elabora una coerenza interiore. La gioventù critica lo ammira, ma non può identificarsi in lui. Tutti potrebbero imparare a sparare; quasi tutti, invece, sanno che lo scrivere forte, ‘armato’, è eccezionalmente difficile.
Se anche riuscisse a eguagliare Saviano, un giovane diverrebbe ancora più solo. La penna (o il computer) crea attorno a chi scrive la ‘stanza’ descritta da Pamuk (La valigia di mio padre); le armi creano (anche per nascondere la colpa che comportano) ‘il branco dei fratelli’ (la Band of brothers dell’Enrico V di Shakespeare). Con il loro isolamento individuale, i giovani critici si lasciano le difese di gruppo alle spalle e pongono le premesse del senso di inadeguatezza che li tortura. Una porzione consistente della gioventù non adattata è così introversa e, contemporaneamente, inconsapevole della propria condizione da viverla come fallimento. Essi scelgono di essere eremiti urbani, non perché insensibili al mondo, ma perché troppo sensibili alle differenze che da questo li separano. A causa delle semplificazioni offerte dalla tecnologia e del trasferimento di moltissime industrie nei Paesi emergenti, gli impieghi offerti alle nuove generazioni sono pochi. Ma questa esclusione, economica e sociale, va tenuta distinta da un atteggiamento psicologico che in molti casi gli si sovrappone: quantità crescenti di giovani sembrano infatti auto-escludersi. Questo gruppo di ‘né-né’ (NEET in inglese: Not in Employment, Education or Training; hikikomori in Giappone e nelle parti ricche dell’Asia, dove il fenomeno ha dimensioni devastanti) è spaventato dalla competitività crescente; spesso è anche iperprotetto da madri che non fanno crescere il figlio per mantenere il controllo sulla famiglia; rinuncia a rischiare nella società, si chiude nella casa dei genitori comunicando col mondo attraverso internet.
Uno specialista di questi fenomeni, Nadio Delai, ha parlato di ‘inabissamento’ dei giovani.
È errato studiarli solo come coloro che ‘hanno una malattia psichica nuova’. Per capire una condizione così generalizzata bisogna prima di tutto interrogarsi sul suo senso. Sarebbe quasi banale dire che ‘fuggono dalle’ nuove difficoltà. Il problema è: ‘verso quale direzione’ cercano di andare? In un’epoca storica che premiava qualità appartate (per esempio nel Medioevo), molti sarebbero diventati teologi, cioè maestri. Oggi sono giovani delicati, ma inutili: spesso incapaci di responsabilità, corazzati in meccanismi di difesa e di evitamento del mondo. Ma è la loro ipersensibilità che alimenta l’esclusione o l’esclusione che nutre l’ipersensibilità?
La psicanalisi o la sociologia non fanno in tempo a condurre studi approfonditi che le condizioni sono già cambiate. Spesso proprio chi prende i massimi voti all’università non si presenta poi dove ci sono opportunità di lavoro. Questo giovane è già tornato nella sua stanza a leggere: ha gridato aiuto, ma lo ha accolto solo quel luogo, e quella condizione ormai nota. Dopo la parte dei giovani più ‘patologica’ e dipendente dalla famiglia, passiamo a quella più indipendente.
In Europa si sono sempre più affermati i festival culturali. Partita più tardi, l’Italia li ha visti avanzare ininterrotti, malgrado la recente crisi economica (G. Guerzoni, Effettofestival, 2009) e malgrado buona parte dei frequentatori sia proprio costituita da giovani, che fanno grandi sacrifici per assistervi. Proprio questo nuovo gruppo giovanile legge più delle generazioni precedenti. Su un tema simile le interpretazioni sono complesse. Studi approfonditi, come quelli di Giovanni Solimine (L’Italia che legge, 2010), mettono in guardia da facili ottimismi. Chi già leggeva legge anche di più, chi non leggeva, se possibile, legge ancora di meno. Ma in linea di massima gli attuali ventenni leggono più dei trentenni, questi più dei quarantenni, e così via (ISTAT, Famiglia e società, 2009). Dati confortanti, perché gli studi condotti dal NEA (National Endowment for the Arts) negli Stati Uniti dicono da tempo che le abitudini alla lettura si acquisiscono in gioventù e restano relativamente stabili. Quindi, una volta che i trentenni saranno quarantenni, e i ventenni trentenni, circoleranno più libri (o, in seguito al loro diffondersi, più e-books). Nel 2004, col rapporto Reading at Risk, il NEA aveva lanciato un allarme: sembrava che internet disabituasse a leggere. Ma nel 2009, con Reading on the Rise, ha segnalato un ritorno alla lettura. Anche in Europa la crescita è visibile: l’Italia, partendo da livelli di lettura fra i più bassi, sembra ora risalire più degli altri.
Come possiamo classificare il ‘consumo’ giovanile dei mezzi di comunicazione?
Il CENSIS parla di ‘diete mediatiche’ (Settimo e Ottavo rapporto sulla comunicazione, 2008 e 2009), che suddivide così:

1) solo audiovisivi (sostanzialmente televisione);
2) audiovisivo più mezzi stampati (libri e periodici);
3) audiovisivi, stampati e internet;
4) audiovisivi, internet ma rinuncia a leggere stampati.

Quest’ultima categoria è ridotta e nata da poco. Il passaggio dalla prima e seconda dieta alla terza (internet), invece, è stato travolgente: nei quattro principali Paesi europei, cinquanta milioni di persone in un anno. Parallelamente, dal 2003 al 2007 i giovani italiani che indicano i libri come attività preferita del tempo libero sono cresciuti del 10%: sembra che le diverse letture (elettronica e cartacea) non siano in competizione, ma che addirittura si incoraggino a vicenda.
Due sono le principali conseguenze.
Prima di tutto sta sorgendo una generazione per la quale il monopolio dei media diventa sempre meno rilevante. Gruppi crescenti vanno e vengono, molte volte al giorno, dal cellulare ai libri alla televisione, ai quotidiani e al computer. Cosa importa loro quel che Murdoch o Berlusconi ‘vuole’ che essi vogliano? Non sono dipendenti dal consumo di alcun medium; soprattutto, usano con estrema agilità internet, il mezzo che nessun monopolista riesce a controllare.
La seconda conseguenza merita approfondimenti psicologici. La parte avanzata dei giovani sembra costituire un movimento di base (grass-root, nella terminologia americana) non programmato, la cui forza aggregante viene dall’inconscio collettivo. Esso reagisce energicamente ai ritmi sempre più affrettati e meno approfonditi che la competizione economica impone. Pur cavalcando internet, rifiuta la sostituzione dei rapporti umani con le presenze virtuali offerte dalla tecnologia. Una spinta inconscia cerca di uscire dalla galoppata tecno-economica che dà ansia: vuole rallentamento e decompressione. Questo è l’aspetto insufficientemente studiato del successo dei festival: ci si sottopone a sacrifici anche notevoli non per seguire il filo astratto delle idee, ma per ascoltare un autore in carne e ossa. Se lo spettatore non è riuscito ad assistere a una conferenza, di solito gli interessa poco se sarà pubblicata su internet o come libro. Chiede: «Quando parlerà la prossima volta? Verrò lì». Non è affatto un caso che questo gruppo, nato col computer, abbia anche assicurato il successo dei taccuini Moleskine e di altri oggetti su cui si torna a scrivere lentamente e a mano. (Nelle ultimissime settimane, un film che descrive dei frati trappisti, girato con lentezza monacale, ha raccolto in Francia milioni di spettatori, in buona parte giovani.)
È riduttivo classificare queste tendenze solo come contro-tendenze: prima di essere contro, sono a favore di qualità umane cui si rischia di rinunciare troppo presto. È anche affrettato qualificare questa generazione per quello che le manca e che certamente non si è tolta da sola (il CENSIS ha parlato, realisticamente ma troppo in fretta, di nichilismo digitale dei giovani).
Attraverso Carlo Petrini – che, oltre alla biodiversità, propone ora il salvataggio di riti e costumi –, il nostro Paese ha offerto al mondo lo slow food: regalo al gusto, alla salute, all’ambiente. Non è esagerato immaginare che, dopo quella gastronomica, gli stia inconsciamente proponendo una dieta mediatica alternativa, che potremmo chiamare slow culture: una alimentazione della conoscenza, basata non solo sull’elettronica, ma anche sul rapporto umano e su ritmi in ogni senso biologici, che le radici profonde della psiche non hanno dimenticato.

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