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È fin troppo evidente che la perdita del senso dell’Altro è una diagnosi amara ma reale del nostro tempo, anche in terre ad antica radicazione cristiana. Non è certo un’esclusiva della nostra epoca, ma almeno si poteva presumere che il cristianesimo, facendo emergere come principio di identità della fede l’ospitalità del prossimo, specialmente se emarginato, forestiero, perseguitato, avrebbe circoscritto il successo politico della formula pessimista di Thomas Hobbes, secondo cui ‘l’uomo è lupo per l’uomo’.
Non si può escludere che il processo di interdipendenza, che si mette in moto in modo accelerato nelle latitudini dell’informazione, delle migrazioni, del mercato mondializzato, della scienza e della tecnologia, incluse la biotecnologia e la ricerca genetica, possa far prevalere la speranza di una nuova tappa dell’umanità, ancorata in modo crescente alla coscienza di appartenere al genere umano e di dover garantire la sua sopravvivenza.
Sfogliando i testi di storia, si riceve l’impressione che le stesse religioni, piuttosto che spegnere le fiamme dell’odio e favorire lo spirito di altruismo, abbiano talora soffiato sul fuoco e procurato una giustificazione teologica al rifiuto del diversamente pensante e del diversamente credente, se non persino alle crociate e alle guerre. In particolare si deve ammettere che, nella misura in cui è stata piegata a svolgere le funzioni decorative dell’illusione magica e dell’idolatria del potere costituito, la stessa religione cristiana è stata minacciata di ridursi a sottocultura, a partire dalla sua installazione nel IV secolo come componente del sistema politico per i bisogni religiosi dell’impero. Sotto la cenere, la spinta universalistica riuscì a tenere viva la brace evangelica, ma sacrificando il suo carattere originario in un sistema rimasto a lungo autoreferenziale. L’impianto dei primi secoli apostolici era basato su una contaminazione libera di ‘koinonia’, in cui non la legge, ma la libertà dalla legge oltre ogni confine e circoncisione tribale era la regola dello stare insieme. Così il battesimo ‘in spirito e verità’, e non più nell’acqua, doveva rappresentare l’ispirazione del consenso. La religione non poteva ridursi allo spazio della ‘re-ligio’, cioè del ‘legame all’indietro’, nella ripetizione restaurativa del Sacro, ma doveva compiersi nella rottura del ‘velo del Tempio’. Fondamentale il testo del Vangelo di Giovanni (4, 22) nel dialogo fra Gesù e la samaritana: «Viene il momento in cui l’adorazione di Dio non sarà più legata a questo monte o a Gerusalemme. Viene un’ora, anzi è già venuta, in cui gli uomini adoreranno il Padre guidati dallo Spirito e dalla verità di Dio. Dio è spirito. Chi lo adora deve lasciarsi guidare dallo Spirito e dalla verità di Dio». Bisogna anche ammettere che, circa cinque secoli prima di Cristo, una luce è apparsa all’orizzonte dell’umanità: la compassione è emersa come una necessità primordiale dell’approccio religioso. Parole come ‘ospitalità’, ‘compassione’, ‘legame in avanti’ sono considerate anche oggi emblematiche del buddismo. Tra le quattro ‘virtù incommensurabili’ figura lo svuotamento del proprio ‘io’ per accogliere le sofferenze dell’Altro.
Questo stesso principio affiora anche in altre tradizioni. I profeti ebrei narravano di un Dio che ospita nella sua tenda «chi agisce con giustizia e non fa danno al prossimo, non lancia insulto al suo vicino». Fanno parte degli imperativi morali dell’Islam la ‘zakat’ (offerta con fini umanitari) verso i meno abbienti e il rispetto per i seguaci delle religioni del Libro.
Non è la prima volta che il cristianesimo si trova alle prese con alcuni tentativi di ridurre la figura di Gesù alla sola dimensione spirituale. Considerando la situazione della nostra epoca dobbiamo ammettere che Ario non è ancora morto. Ricordo l’impressione che mi fece un grande crocifisso di legno buttato su un mucchio di rifiuti nella sagrestia della cattedrale di Vilnius, trasformata dal regime sovietico in museo dell’ateismo: gli avevano tagliato le braccia. Questa amputazione prosegue in Occidente ogni volta che si dimentica che il Dio di Gesù Cristo è fonte di solidarietà e di altruismo, e condivide la condizione umana, votata alla sofferenza e alla morte. Sarà il caso di ricordare che il Vangelo di Matteo assicura che il Giudizio finale non riguarderà le questioni di dottrina e di ortodossia, ma l’impegno concreto al servizio del prossimo. Nello spirito del Fondatore, infatti, l’uomo misericordioso considera come prossimo chiunque si trovi sulla propria strada, per grande che sia la sua alterità. Non si tratta di un vago sentimento filantropico, ma del duro contrasto quotidiano con l’odio, anche se si riveste modernamente di indifferenza e di legalismo auto-interessato. C’è da chiedersi se anche la Chiesa cattolica non abbia delle nuove lezioni da apprendere sulla strada del samaritano. Se bisogna riconoscere che i contemporanei aderiscono al religioso e lo comprendono in modo molto differente e con gradi di appartenenza diversificati, la Chiesa non dovrebbe mostrarsi ospitale verso questa diversità? Certo, se si trattasse di reagire al rischio di una amputazione delle braccia solidali e ospitali della fede cristiana, la Chiesa non potrebbe tacere, meno che mai per convenienza politica. Ma tutt’altra partita sarebbe se la Chiesa si irrigidisse su un solo modello di appartenenza religiosa, persino in forma autoritaria o integralista, senza venire incontro alle ricerche molto diverse di senso che pulsano nella società, in quel perimetro fluido che Benedetto XVI ha chiamato con espressione felice «il cortile dei Gentili».
Questo atteggiamento comporta il riconoscimento di esigenze spirituali il più delle volte incomplete, di fedi implicite, di aspettative religiose inadeguate e incoerenti, ma che costituiscono per i moderni la via di accesso a Dio o il cammino lungo il quale Dio comunica con loro. E impone una revisione di posizioni ufficiali esclusiviste, se non intolleranti, verso i dissenzienti.
Si dice che la Chiesa ‘non è una democrazia’. Allo stesso modo si potrebbe dire che non è una monarchia. Essa è una comunione. Come tale non si identifica con modelli profani di governo. Padre Yves Congar, teologo domenicano francese, tra i principali maestri del Concilio vaticano II e cardinale di Giovanni Paolo II, ha dimostrato peraltro che nei primi secoli le sue forme concrete di esistenza erano più affini alla democrazia; e comunque essere una comunione comporta essere più di una democrazia, non meno.
Una Chiesa ospitale dei carismi differenti è una prospettiva che i fatti sembrano imporle, qualunque sia la volontà di unificazione dogmatica della gerarchia: nella crisi della cristianità di tipo sociologico, questa condizione provvisoria alla ricerca della fede cristiana, questi Vangeli impliciti, antropologici, che attendono di essere accolti e integrati, queste nostalgie o echi lontani di valori cristiani sono una realtà condivisa da una crescente quantità di persone. Ne deriva che conservare un modello unico di adesione cristiana, magari chiudendosi dentro il proprio castello veritativo, non saprebbe rispondere a questa complessità di mondi religiosi informali, mentre la Chiesa verrebbe sollecitata a offrire una nuova prova di universalismo, direi meglio di ‘multiversalismo’, e dunque ad assumere una pluralità di vie cristiane, tutte in conversione e tutte complementari. Lo stesso atteggiamento ‘multiversale’ è un appello che chiama il cristianesimo ad andare oltre la sintesi europea tra fede e cultura, all’incontro con le grandi tradizioni spirituali e le culture dell’Asia e dell’Africa, sulle tracce dei grandi pionieri dell’inculturazione come Matteo Ricci, il primo che seppe gettare un ponte fra l’Europa e la Cina. Non dimentichiamo che i periodi più vitali della cristianità sono stati largamente aperti a una straordinaria diversità di modi di essere cristiani. E che la diversità appare fin dall’inizio come costitutiva del cristianesimo.

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