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Gli ecosistemi urbani sono costituiti dalle relazioni che gli abitanti stabiliscono tra loro e con il contesto. L’ecosistema è, in altre parole, l’interconnessione di individui, luoghi, infrastrutture, strutture e istituzioni. Qualunque sia il livello di coinvolgimento sociale, vale a dire il modo in cui si partecipa alle sorti della comunità, si è sempre parte di una rete di relazioni. Si vive nel mondo reale, in cui i corpi si muovono attraversandolo, i sensi sono sollecitati e gli incontri aprono nuove possibilità di relazione. In questo mondo si ama, si odia, si stringono amicizie e si costruiscono muri. In questi luoghi ci si lega alle sorti del pianeta e ne si è coinvolti, si è parte di un sistema a rete in cui ciascuno è influenzato dalle decisioni altrui. Gli eventi imprevedibili che accadono localmente, che siano decisioni individuali o casualità inaspettate, si ripercuotono anche a notevole distanza, sia geografica che temporale. La rete della vita urbana è dunque un sistema complesso, in cui la relazione di causa ed effetto non si stabilisce in uno spazio e un tempo precisi. Gli eventi precedenti non ci dicono molto su quanto accade, occorre invece individuare le strutture e le politiche di sistema. Prendiamo allora la città, completa di cittadini e non solo di manufatti: finora è stata soggetta alla pianificazione e considerata come un sistema lineare fatto di funzioni semplici e identificabili – abitare, lavorare, svagarsi –; su questa base è stata pianificata, cioè organizzata nelle funzioni e immaginata nello sviluppo. La sua proiezione nel futuro è sempre stata considerata in crescita, dato che nella società industriale la riduzione, la contrazione o la decrescita sono considerati valori negativi. In questa organizzazione i cittadini entrano quale variabile quantitativa, in grado di svolgere una funzione alla volta, sempre prevedibile e sempre organizzata. Avremo gli operai, gli studenti, la gente che va al cinema, i clienti di centri commerciali, i residenti di una certa strada, poi le categorie generali: gli uomini, le donne, i giovani, gli anziani. Una simile lettura, fredda, fondata ancora su una cultura rigidamente determinista, non si occupa delle condizioni specifiche, ma tende sempre a trovare gli aspetti generali e generalizzabili. Da queste generalizzazioni, nel corso degli anni, è stata sviluppata una tecnica della gestione urbana che ha affrontato, separatamente, un problema alla volta. Specialisti del traffico, dell’energia, del verde, delle zone residenziali si concentrano, di volta in volta, su certi obiettivi di miglioramento, senza occuparsi delle conseguenze. In tal modo, la soluzione di un problema determina anche zone di declino economico e sociale. Oggi la trasformazione urbana avviene in tempi brevissimi, due-cinque anni, con la conseguenza di dissolvere in un attimo situazioni stratificatesi nei decenni o secoli precedenti. In genere le previsioni di piano sono volte al raggiungimento di determinati obiettivi, regolando le quantità costruibili, e non considerano le catene di conseguenze che ne possono derivare. Ad esempio, l’insediamento contemporaneo di persone nei nuovi quartieri suburbani, o nelle zone centrali ristrutturate, non dà tempo alla strutturazione dell’ecosistema, a quella stratificazione di relazioni che ne costituiscono le capacità resilienti. Le relazioni sociali hanno bisogno di molto tempo per stabilirsi mentre basta un attimo per dissolverle. In questa luce, la città di oggi è più il frutto degli errori e delle semplificazioni sommatesi nei decenni precedenti, che il prodotto di lungimiranti politiche urbanistiche. Essa si presenta come sommatoria di parti, edifici, complessi di edifici e zone nate dall’applicazione schematica di un’organizzazione funzionale rigida, che le chiude rispetto al contesto circostante. Risultano tecnicamente efficienti nello svolgere la loro funzione per un arco di tempo definito – ad esempio l’orario di apertura dei negozi, per i centri commerciali, o le ore di vita domestica, per le aree residenziali – ma, dato che queste parti nascono con proprie regole interne di funzionamento e crescita, non possono rispondere a domande e aspettative della città nel suo complesso. La tecnica progettuale si concentra sui singoli interventi di ‘sviluppo immobiliare’ (development) e determina, negli spazi confinanti, una condizione indefinita in cui si subiscono solo gli aspetti negativi di impatto, quali il traffico, l’inquinamento, il rumore, la mancanza di sole. Tutti gli interventi recenti si caratterizzano per l’assenza di relazione con il contesto, l’incapacità di accogliere cittadini imprevisti – cioè fuori dalle categorie previste – e funzioni non contemplate. Questa organizzazione riduce drasticamente la ridondanza funzionale, che è uno dei presupposti vitali degli ecosistemi; elimina, cioè, la compresenza di più figure e più spazi che possano assicurare la stessa funzione. La pianificazione della città esclude la ridondanza, considerandola inutile, non efficiente. Ci si rifiuta di ammettere nella città contemporanea attività non pianificate, per paura che queste portino all’inceppamento del funzionamento stabilito. L’ecosistema città, privato dell’abbondanza, della distribuzione, delle differenze, dell’accessibilità, della cooperazione, non vive più, resiste. Oppone resistenza immettendo rigidità nel sistema, creando una sempre maggiore impermeabilità ai flussi di informazione e ai flussi di persone, privandosi così di ciò che ne costituisce l’elemento vitale. Una città concepita rigidamente imbriglia i tentativi dei singoli di usare gli spazi in modo differente e blocca nuove forme di auto-organizzazione. Progressivamente la capacità di agire come comunità su un proprio spazio è stata delegata agli esperti, ai politici, ai gruppi che detengono il potere economico. Chi costruisce oggi le città, chi ha i capitali e chi ha il potere decisionale è concentrato sull’oggetto, sull’immobile merce, è guidato dal piano economico che calcola il rendimento dell’investimento. Le città sono ricostruite annullando il prima, senza prevedere il dopo, senza avere mai un’ipotesi di relazione contestuale, con azioni puntuali e rapidissime che non prevedono le conseguenze. Centri commerciali, centri direzionali, centri residenziali, centri sportivi, centri benessere e poi polo scolastico, polo universitario, polo sanitario-ospedaliero, polo museale, polo carcerario: la toponomastica della città contemporanea sembra ossessionata dalla concentrazione in spazi definiti e specializzati di una sola funzione alla volta. Questi centri nascono da una sorta di esplosione, un big bang urbano che dissemina frammenti monofunzionali su un’area sempre più vasta. Da un punto di vista strettamente semantico, il centro ha senso se riesce ad attrarre un intorno nella sua orbita, ma, anche da un punto di vista strettamente urbanistico, il centro dovrebbe essere un punto di attrazione e concentrazione di funzioni diverse, in grado di porsi a scala territoriale come il luogo in cui trovare molte più cose, in cui incontrare la massima varietà di individui.
La visione di chi oggi determina l’assetto delle nostre città è sintetica, opera per tagli, cioè limita, confina, termina. Al contrario, ci sarebbe bisogno di una visione simultanea, comprensiva, in grado di andare oltre ai sintomi e alle cause, oltre alla necessità e allo scopo; bisognerebbe capire la natura di ciò che accade e contemporaneamente agire, tenendo in gioco la complessità dei mille piani in cui funziona la logica non escludente del ‘e questo e quello’. Dalla scienza delle reti ci arriva questa possibilità di ragionare sulle interazioni, su ciò che avviene tra questo e quello, dove ‘questo e quello’ non sono l’inizio e la fine agli estremi di un processo lineare, ma aspetti della circolarità in cui agiscono continui effetti di retroazione. Ragionando in termini di rete, non si raggiungono obiettivi, dato che non si pone un limite temporale in cui finire, piuttosto si liberano i processi che portano all’agire. Ma chi è chiamato all’azione? Le forze del mercato, guidate dal capitalismo finanziario improntato alla speculazione, rivendicano il ruolo di guidare lo sviluppo della città, e di fatto lo esercitano attraverso gli specialisti e i politici, le figure che sono in grado di creare delle regole finalizzate alla realizzazione degli obiettivi di mercato. Ma obiettivi di mercato e vivibilità degli spazi urbani non sono quasi mai coincidenti; qualsiasi intervento che vada solo nella direzione della creazione di un profitto tende a minare la vitalità dell’ecosistema città.
La città oggi richiede una ricostruzione totale, non nel senso dei manufatti, quanto di una re-invenzione sociale che dia ruolo attivo ai cittadini e li spinga a una presa di responsabilità, a sentirsi responsabili in prima persona dello spazio pubblico e dei beni comuni. Per uscire dalla logica del vano abitato, della merce del mercato immobiliare, e affrontare dinamicamente l’uso degli spazi, dal domestico all’urbano, bisogna spostare l’attenzione dalla parte al tutto, dalla conoscenza dell’oggetto alla conoscenza del contesto. Gli ambienti fisici, sociali, culturali, tecnici, non sono fissi; non servono strutture rigide, la costruzione dello spazio fisico è oggi, forse, quella meno necessaria. Non c’è bisogno di nuovi muri, di volumi; ciò che occorre è la re-invenzione degli usi, occorre riattivare tutte le forze locali, in termini di intelligenza e creatività, per far sì che la città viva. Ad esempio, in campo culturale, non funziona una politica che costruisca musei, spazi tecnici, specializzati, rigidi, e poi si disinteressi del loro funzionamento. Il luogo espositivo ha senso se esistono le condizioni di stimolo e rinnovamento continuo del patrimonio culturale comune. È ora di iniziare a pensare a un modo di costruire leggero, temporaneo, flessibile, non invasivo. È questo il senso della rete: non essere vincolati a un’unica infrastruttura rigida, ma essere proiettati nella connessione totale, che abbraccia tutti i campi e organizza tutte le produzioni locali.

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