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Secondo il ‘modello standard’ della cosmologia, l’universo è spazialmente uniforme – o più correttamente omogeneo e isotropo, ovvero con le stesse proprietà in tutti i punti e in tutte le direzioni, a parità di epoca cosmica –, se lo osserviamo a bassa risoluzione spaziale, ovvero su scale di distanza superiori a un centinaio di megaparsec (1 megaparsec, Mpc, equivale a circa 3.26 milioni di anni luce, ovvero a circa 31 miliardi di miliardi di chilometri). Ma, se scrutiamo l’universo con maggiore risoluzione, scopriamo che esso è caratterizzato dall’ammassarsi (clustering) della materia. Galassie, gruppi, ammassi e super-ammassi di galassie tendono, infatti, a formarsi laddove la materia (detta ‘oscura’, come vedremo) si addensa maggiormente: filamenti e membrane di materia si estendono per decine e centinaia di Mpc, formando una gigantesca ‘tela cosmica’ (cosmic web) sulla quale si sono, per così dire, ‘adagiate’ le galassie, i cui segnali luminosi, nelle varie bande spettrali, vengono raccolti dai nostri telescopi terrestri e dai satelliti in orbita nello spazio, e al cui interno brillano le stelle. Le galassie e i sistemi di galassie (gruppi, ammassi e super-ammassi di galassie) vanno sotto il nome di ‘strutture cosmiche’. Quale fenomeno fisico ha dato origine a tali strutture cosmiche? Rispondere a questa domanda equivale ad affrontare il tema dell’origine della complessità nell’universo e, in ultima analisi, a gettare le basi per rispondere a una domanda ancor più avanzata e affascinante: quali sono le condizioni che hanno dato origine alla vita nel cosmo?

Dinamica della formazione delle strutture cosmiche:
l’instabilità gravitazionale

L’unica forza capace di agire sulla scala di distanza delle strutture cosmiche è la gravità, grazie alla sua natura di interazione a ‘lungo range’, ma anche grazie a un’altra caratteristica peculiare: essa può essere solo attrattiva (almeno a livello della teoria di Newton). Infatti, la gravità si esercita tra ‘cariche’ gravitazionali – le masse – che sono tutte dello stesso segno. Questa proprietà implica che, se poniamo una concentrazione di massa in un dato volume, essa tenderà ad addensarsi sempre di più, a meno che la gravità non sia contrastata da opportune forze di pressione, come accade, ad esempio, nelle stelle.
Esiste una lunghezza critica, detta lunghezza di Jeans (dal nome dello studioso – sir James Jeans – che, all’inizio del Novecento, studiò matematicamente il fenomeno e ne formulò le leggi), al di sopra della quale non esistono effetti di pressione capaci di contrastare l’attrazione gravitazionale. Se una perturbazione di densità nasce con dimensioni minori della lunghezza di Jeans, essa oscillerà come una normale onda acustica, ma se ha dimensioni maggiori della lunghezza di Jeans, essa non potrà che collassare a causa della propria ‘auto-gravità’ e tenderà inesorabilmente a formare una struttura gravitazionalmente legata. Ci si riferisce a tale fenomeno con il nome di instabilità gravitazionale o di Jeans: l’universo omogeneo e isotropo è instabile rispetto a piccole perturbazioni, e tende col passare del tempo a raggiungere uno stato in cui tutta la materia si organizza in aggregazioni di sempre maggiore dimensione, le strutture cosmiche. Questo semplice fenomeno spiega – direttamente o indirettamente – la formazione di tutte le strutture cosmiche che conosciamo, e permette in ultima analisi di comprendere anche la nascita delle strutture più complesse.

Condizioni iniziali per la formazione delle strutture cosmiche:
le fluttuazioni del vuoto

Rimane, però, da comprendere quale sia stata l’origine di quelle minuscole perturbazioni, increspature dello spazio-tempo, che costituiscono i ‘semi’ necessari per innescare il fenomeno dell’instabilità gravitazionale.
Nel modello cosmologico standard non esisteva alcun meccanismo fisico capace di render conto della generazione di tali semi, e il motivo dell’esistenza di irregolarità primordiali nella densità di energia della materia era rimasto un enigma totalmente insoluto, fino a quando, all’inizio degli anni ’80, fu proposto quello che oggi è considerato un vero e proprio paradigma e un’estensione del modello standard: l’inflazione cosmica.
Per comprendere la natura e l’importanza della fase ‘inflazionaria’, che si ritiene abbia avuto luogo nell’universo primordiale, dobbiamo fare un passo indietro. Il modello cosmologico standard rende perfettamente conto dell’espansione universale, regolata dalla legge di Hubble, secondo la quale la velocità di allontanamento da noi delle galassie lontane è – in prima approssimazione! – proporzionale alla loro distanza da noi. Esso, inoltre, ci consente di ricostruire la storia termica dell’universo. Se ne deduce che il cosmo ha attraversato una fase primordiale calda, caratterizzata da temperatura e densità così elevate da permettere il prodursi di fenomeni fisici non riproducibili nei nostri laboratori.
L’estrapolazione di queste caratteristiche all’indietro nel tempo porta all’idea del big bang, una sorta di grande scoppio iniziale da cui tutto avrebbe tratto origine: spazio, tempo, materia e radiazione. Il big bang corrisponde a una ‘singolarità spazio-temporale’, un istante in prossimità del quale la densità di energia cosmica e, di conseguenza, la curvatura dello spazio-tempo tendono a un valore infinito.
Ma la stessa esistenza del big bang porta con sé un paradosso, noto con il nome di ‘problema dell’orizzonte’: esso consiste nell’osservazione che regioni distanti dell’universo, che oggi verifichiamo avere proprietà sostanzialmente identiche, non avrebbero mai potuto essere in connessione causale nel passato, se l’evoluzione fosse quella descritta dal modello cosmologico standard. Tali regioni non avrebbero mai potuto scambiarsi informazioni e concordare tra loro le rispettive caratteristiche fisiche (densità, temperatura, ecc.): ci dovremmo quindi aspettare che esse abbiano proprietà del tutto differenti. Possiamo formulare il problema dell’orizzonte nel modo seguente: ogni osservatore cosmico può ricevere messaggi solo da una regione dello spazio, la cui dimensione massima è definita dalla distanza percorsa da una particella che viaggi alla velocità più elevata concessa in natura (quella della luce nel vuoto, c = 299.792 km/s), avendo iniziato il proprio viaggio all’istante del big bang. Tale distanza, che stabilisce i limiti della possibile connessione causale tra gli eventi, i confini della regione del cosmo da noi conoscibile, viene chiamata ‘orizzonte cosmologico’ e il suo valore aumenta col procedere del tempo più rapidamente dell’espansione cosmica stessa. Ne segue che ad ogni istante possiamo ottenere informazioni da regioni sempre più distanti del cosmo, regioni la cui conoscenza, fino a un istante prima, ci era stata preclusa. Il problema dell’orizzonte sta nel fatto che ogni nuova informazione che ci giunge, ‘attraversando’ l’orizzonte cosmologico, appare perfettamente coerente con le proprietà fisiche dell’universo precedentemente noto.
A risolvere questo paradosso è appunto l’idea dell’inflazione, un periodo in cui la velocità di espansione dell’universo cresce col passare del tempo, un periodo di espansione accelerata. La soluzione del problema dell’orizzonte richiede semplicemente che l’espansione accelerata duri per un intervallo di tempo sufficientemente lungo. Diciamo subito che, nelle sue normali forme, la presenza della materia implica che l’espansione cosmica sia decelerata, cioè che la velocità di espansione cali col passare del tempo. Questa proprietà segue proprio dall’osservazione che la forza gravitazionale – almeno a livello della teoria di Newton – ha necessariamente carattere attrattivo, come abbiamo appena detto. La presenza della materia nel cosmo non può, quindi, che implicare un rallentamento dell’espansione ad esso inizialmente impartita all’istante del big bang, portando ad un’espansione decelerata. È proprio tale proprietà che, a partire dalle condizioni attuali di espansione universale, ci fa concludere che, ripercorrendo a ritroso la storia cosmica, è esistito un istante nel passato in cui il tasso di espansione deve aver assunto un valore infinito: il big bang. Assumere che sia esistita una fase di espansione accelerata equivale a dire che esiste in natura una qualche sostanza capace di impartire ai corpi una forza gravitazionale repulsiva, una sorta di antigravità, in netto contrasto con la nostra esperienza (si tratta dell’energia del vuoto, la cui caratteristica peculiare è di avere pressione negativa; secondo alcuni ricercatori, l’energia del vuoto potrebbe essere all’origine della cosiddetta ‘energia oscura’, che sta causando una nuova fase di espansione accelerata nell’universo attuale, una sorta di seconda inflazione cosmica).
La prima e più importante conseguenza di una fase di espansione accelerata è che l’orizzonte cosmologico cresce meno rapidamente dell’espansione cosmica: il rapporto tra la dimensione dell’orizzonte e qualsiasi altra lunghezza fisica decresce col passare del tempo, nel caso di espansione accelerata. Questo fa sì che regioni dotate di reciproca correlazione causale perdano via via la possibilità di comunicare, ma preservino memoria della loro coerenza, quella stessa coerenza che ritroveremo osservando tali regioni nelle fasi post-inflazione. Un minuscolo volume dell’universo, causalmente connesso al proprio interno e quindi in grado di armonizzare, omogeneizzare le proprie caratteristiche fisiche, ha potuto gonfiarsi enormemente a causa del processo inflazionario, dilatandosi a tal punto da poter racchiudere una regione di raggio almeno pari a quello dell’orizzonte attuale. Questo ci spiega perché ciò che entra dai confini dell’orizzonte odierno ha le proprietà di coerenza spaziale che osserviamo: quelle proprietà erano state in realtà stabilite in maniera perfettamente causale durante l’inflazione. È legittimo sostenere che uno dei meriti, forse il maggiore, del modello inflazionario è quello di aver portato a soluzione l’enigma della generazione delle perturbazioni primordiali. È, infatti, l’espansione accelerata che permette la creazione dei semi da cui trarranno poi origine le strutture cosmiche, sotto forma di minuscole fluttuazioni nella curvatura dello spazio-tempo. Tali fluttuazioni, una volta generate a livello microscopico, grazie alle oscillazioni quantistiche del vuoto, vengono amplificate e dilatate sino a raggiungere la scala di lunghezza macroscopica delle attuali strutture cosmiche. L’espressione ‘oscillazioni quantistiche del vuoto’ si riferisce alle proprietà delle ‘particelle virtuali’, particelle quantistiche che vengono continuamente create e annichilate dal vuoto, grazie al principio di indeterminazione di Heisenberg. Se l’espansione dell’universo è sufficientemente rapida, cioè se il tempo caratteristico di espansione è sufficientemente breve, le particelle virtuali create dal vuoto non riescono ad annichilarsi in tempo utile, trasformandosi inesorabilmente in particelle reali. Si ritiene che la successiva evoluzione modifichi l’iniziale natura quantistica di tali particelle, dando finalmente luogo a fluttuazioni statistiche classiche, le cui conseguenze noi oggi osserviamo nei fenomeni cosmici. Il processo cosmologico di creazione di particelle dal vuoto fu scoperto, ben prima della nascita del modello inflazionario, da Erwin Schrödinger (1939). Studiando la propagazione dei fotoni (quanti di luce) nell’universo, egli si scontrò con ciò che gli apparve un «allarmante fenomeno». Scrive Schrödinger in proposito: «questo è un fenomeno di preminente importanza. Per le particelle [materiali] esso comporterebbe produzione o annichilazione di materia semplicemente a causa dell’espansione…» – e continua: «l’allarmante fenomeno non è connesso con la velocità di espansione, ma avrebbe probabilmente luogo in un’espansione accelerata». Solo una trentina di anni più tardi, Leonard Parker, Yakov B. Zel’dovich, Aleksej Starobinskij, Stephen Hawking e altri ricercatori, rianalizzando il processo di creazione di particelle dal vuoto in spazi-tempo curvi, corressero alcune inesattezze nell’analisi di Schrödinger e ne compresero fino in fondo la portata positiva. Il processo di creazione di particelle dal vuoto in presenza di rapida variazione del campo gravitazionale riveste oggi un ruolo assolutamente fondamentale nella generazione di quei semi primordiali da cui si ritiene abbiano tratto origine sia le anisotropie intrinseche della radiazione cosmica di fondo nelle microonde che le strutture cosmiche tutte. La complessità che caratterizza oggi la struttura dell’universo osservabile non avrebbe avuto origine senza questo meccanismo quantistico.

Organizzazione delle strutture cosmiche: la ragnatela cosmica
Nell’ambito della cosmologia moderna si ipotizza che la maggior parte della materia in grado di condensare in strutture cosmiche sia composta da materia oscura fredda (Cold Dark Matter), per la quale tutte le interazioni non gravitazionali – cioè quelle che descriviamo a livello macroscopico come forze di pressione – sono completamente trascurabili. Nel caso della materia oscura fredda, la lunghezza di Jeans è quindi praticamente nulla. Di conseguenza, perturbazioni su qualsiasi scala di lunghezza tendono a collassare per auto-gravità verso uno stato con densità formalmente infinita. In pratica, il processo di collasso gravitazionale cessa quando la regione interessata dalla perturbazione raggiunge una densità pari a circa duecento volte la densità media dell’universo a quell’epoca, formando ciò che viene chiamato un ‘alone di materia oscura’. Le grandi strutture luminose che vediamo nel cielo, quali ad esempio le galassie, hanno potuto avere origine in quanto la componente sottodominante, la materia ordinaria o ‘barionica’ di cui sono composte le stelle, è caduta nelle buche di potenziale gravitazionale corrispondenti a tali aloni, ovvero è stata catturata dall’attrazione gravitazionale esercitata dalle concentrazioni di materia oscura.
Grazie a simulazioni numeriche al computer della dinamica della materia oscura nell’universo, si è riscontrato che le regioni di maggiore densità tendono a organizzarsi in modo da formare gigantesche strutture a fogli (cioè bidimensionali) e soprattutto filamenti (unidimensionali). Dobbiamo quindi aspettarci che le galassie che osserviamo nel cielo si trovino prevalentemente localizzate lungo strutture filamentose lunghissime di materia oscura, una sorta di ragnatela cosmica invisibile, chiamata appunto cosmic web. Questa intuizione teorica è oggi confermata in modo spettacolare dalle osservazioni astronomiche compiute con i grandi telescopi, che consentono di conoscere la posizione nel cosmo di parecchie centinaia di migliaia di galassie.

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