LINK
L’atto del tradurre. Questioni di filosofia del ‘linkaggio’
di Gianluca Garelli
La parolina ‘è’ inquieta da secoli il pensiero. In che cosa consiste il link per eccellenza, la copula, che collega il soggetto alla parte nominale di un giudizio, per esempio ‘A è B’? Più in generale: in che modo si può porre la domanda tautologica per definizione, ‘che cos’è l’è?’. Fin dagli albori della filosofia, da problema grammaticale e linguistico, questa domanda è divenuta la questione per eccellenza, in cui logica e metafisica, ontologia e teoria della conoscenza determinano il loro interrogarsi sul reale e sul mondo. Dalle risposte che le sono state date, spesso inconciliabili fra loro, dipende la natura irrequieta e polemica che è peculiare del pensiero filosofico. In queste note cercherò di mostrare come la filosofia dell’idealismo classico tedesco – della quale molti detrattori hanno preteso di sancire la mancanza di concretezza, l’impraticabilità o magari il mero interesse storiografico – abbia su questo punto ancora molto da insegnare. Vorrei suggerirlo, tuttavia, non attraverso un’argomentazione astratta e autoreferenziale, bensì riflettendo su un caso esemplare di atto ermeneutico: la traduzione. Non pretendo con questo, tuttavia, di confrontarmi con una letteratura critica sempre più tecnica e specialistica, cresciuta esponenzialmente negli ultimi decenni; essendo stato traduttore di testi filosofici, mi accontento piuttosto di proporre qualche riflessione sull’atto del tradurre.
Accade che il senso comune, talvolta, ceda alla tentazione di sostituire alla parolina ‘è’ il segno dell’uguale, ‘=’. Certo, non sempre il senso comune è ingenuo come pretenderebbe la filosofia. Eppure quante volte, magari prendendo appunti, abbiamo adottato per brevità l’equivalenza grafica per cui ‘A è B’ si trascrive semplicemente ‘A = B’? Non è richiesta, ovviamente, la consulenza di un filosofo per sapere che il segno di uguaglianza, lì, non sta a indicare un’identità. Potremmo dire che quell’uguale designa il legame della copula, eppure in questa sua funzione esso è rappresentazione simbolica ma non rappresentanza ontologica: tant’è vero che non sarebbe lecito traslarne il valore, per così dire, algebrico in un contesto discorsivo.
Un conto sarebbe stabilire, poniamo nello svolgimento di un’equazione, che ‘x = a’: qui l’uguaglianza autorizza a sostituire un determinato valore ovunque compaia l’incognita. Un altro conto sarebbe, invece, intendere nello stesso modo il valore del link in un contesto discorsivo, per esempio una proposizione del tipo: ‘questo corpo è azzurro’. Per comodità, ripeto, potrò annotarne il contenuto nella forma ‘x = a’, ma non avrò bisogno di Platone per capire che questo determinato corpo e quel determinato colore in sé (qualcosa come l’idea platonica di azzurro, appunto) non sono due nozioni equivalenti. Nelle Ricerche filosofiche (1809), Schelling poteva così rilevare che la proposizione di cui sopra «non significa che il corpo, per ciò e in ciò in cui è corpo, sia anche azzurro, ma significa soltanto che quel qualcosa che è questo corpo, quantunque non sotto il medesimo aspetto,è anche azzurro». Per un certo rispetto, si può dunque scrivere con legittimità:
‘questo corpo è azzurro’ = ‘x = a’
ma, per un altro verso, non meno vero sarà che
‘questo corpo è azzurro’ ≠ ‘x = a’.
E ciò sia detto non per vocazione lapalissiana, ma per illustrare, con un esempio banale, come in quel particolare link che è la copula sia implicita una dialettica di identità e differenza: grazie alla copula, in qualche modo, ‘l’identico è il diverso’. Ovvero, come ha osservato Heidegger: il primo dei due termini, l’identità, qui «assume su di sé la possibilità» del diverso «come di una sua modificazione»; la differenza è solo nella misura in cui è appunto l’identità a garantirne la consistenza ontologica.
Che non ne vada, con ciò, solo di una nebulosa astrazione filosofica diviene più chiaro quando ci si interroga su quel caso esemplare di link che è la mediazione implicita nell’atto del tradurre, a partire dalla metafora che designa semanticamente questa operazione nelle principali lingue occidentali: nel latino traducere, che si ritrova poi nel francese traduire, nello spagnolo traducir, nell’inglese translate e perfino (come calco) nel tedesco übersetzen. Si tratta dunque di un atto del trasporre, ossia – come ha osservato Georges Mounin (Teoria e storia della traduzione, 1965) – del «far passare, […] facilitare il passaggio da una lingua all’altra, […] trasportare». Bisogna però riflettere sul fatto che, se da una parte la traduzione non è una mera trascrizione, cioè un’operazione compiuta solo «sulla forma scritta delle parole», dall’altra essa non riguarda nemmeno un presunto puro contenuto, quasi fosse una semplice trasposizione: come ha osservato Benjamin, chi lo afferma non coglie la peculiarità vivente del tradurre, riducendolo a un atto meccanico (del resto: quand’è che i sistemi automatici di traduzione – nonostante la loro crescente affidabilità – suscitano tanta ilarità, se non appunto quando propongono soluzioni che finiscono per tradire il loro funzionamento sostanzialmente meccanico?). Un modo fruttuoso per impostare dialetticamente la contrapposizione forma/contenuto consiste piuttosto nel comprendere che il link della copula può farsi elemento dinamico ed esplicativo solo se siamo disposti a intenderlo anche in modo transitivo, cioè non sempre e soltanto come sanzione di una mera posizione o stato, ma in qualche circostanza anche come segno di un di più – cioè di una donazione ontologica.
Facciamo ancora un passo, nella storia della filosofia classica tedesca, per affiancare all’osservazione di Schelling l’analisi critica che Hölderlin e Hegel, un tempo suoi compagni al seminario teologico di Tübingen, hanno rivolto alla nozione di ‘giudizio’ (intesa, appunto, nel discorso apofantico o dimostrativo come unione di un soggetto e di un predicato: ‘A è B’). Sottolineandone la lettera e l’etimologia, così scriveva Hölderlin nel frammento Giudizio, possibilità ed essere (1795): «Giudizio [Urtheil] è nel senso più alto e più rigoroso l’originaria separazione dell’oggetto e del soggetto intimamente unificati nell’intuizione intellettuale, quella separazione mediante la quale soltanto diventa possibile oggetto e soggetto, la originaria partizione [Ur-Theilung]. Nel concetto di partizione è già contenuto […] il necessario presupposto di un intero di cui oggetto e soggetto sono parti». Vale a dire: l’intuizione (magari quella del corpo azzurro di cui sopra) è un che di unitario; mentre il giudizio – apparentemente volto a garantire l’unità del reale attraverso la parolina ‘è’ – non fa che scomporre tale unità in elementi (appunto: ‘questo corpo’ + ‘azzurro’), affidandone poi la ricomposizione al soggetto. Abbiamo evidentemente a che fare qui con una denuncia del punto di vista kantiano, che secondo il giovane Hegel «si arresta semplicemente nell’antitesi», ed è dunque incapace di pensare a fondo – appunto – l’identità dell’identità e della non-identità.
Nel paragrafo 166 dell’Enciclopedia (18303), Hegel avrebbe ribadito che in un giudizio come ‘A è B’ gli elementi della relazione «son posti come per sé stanti e insieme identici ciascuno con sé, non già l’un con l’altro». L’atto del giudicare, ossia quell’operazione del soggetto cui Kant attribuiva un valore sintetico e costruttivo per eccellenza, costituisce piuttosto per Hegel un momento fondamentalmente diairetico, dato che presenta le proprie componenti nella loro isolata separatezza (cfr. G. Chiurazzi, Teorie del giudizio, 2005).
Al di là di ogni apparente tecnicismo, la posta qui in gioco è piuttosto concreta. Hegel vuol dire: se siamo interessati a capire davvero la complessità dell’affermazione ‘A è B’, non possiamo accontentarci di porla come un factum brutum nella sua immediatezza, bensì dobbiamo ricostruirne la ragione. Ma ciò è possibile solo se si è disposti a cercare, nella copula, quel percorso di mediazione che ha portato ad affermare appunto che ‘A è B’. È questo il significato della celebre affermazione della Fenomenologia dello spirito (1807) secondo cui «il vero è il tutto». La complessa verità del link sta nella sua storia processuale, cioè nella domanda: come? Ovvero: a quali condizioni si è giunti a stabilire quella determinata identità? Il dato deve lasciare il posto al processo insieme con il suo risultato; il che, al perché; il giudizio, infine, al sillogismo. Potremo, insomma, sensatamente enunciare che ‘A è B’ solo se sapremo ricostruire l’attività di quel link (‘L’) che consente tale affermazione. Nei termini della logica tradizionale, ‘L’ altro non sarebbe che il termine medio del sillogismo di prima specie:
‘A è L’ (premessa maggiore)
‘L è B’ (premessa minore)
dunque, ‘A è B’ (conclusione).
Ciò significa che l’intero processo è legittimato solo dal collegamento che unisce i due estremi, anche se nella conclusione esso scompare. Volendo sottolineare la portata teologica che la mediazione del Logos riveste nel pensiero hegeliano e più in generale nella filosofia dell’idealismo classico tedesco, si potrebbe non meno legittimamente aggiungere: se si vuole capire in che senso ‘A è B’, bisogna indagare la portata implicita del sacrificio di ‘L’.
Proviamo a immaginare, ora, che l’unione di ‘A’ e ‘B’, nel giudizio ‘A è B’, corrisponda alla relazione che sussiste fra l’originale (‘O’) e la sua traduzione (‘T’). In che senso si può dire dunque che ‘O è T’? Va da sé, non certo in quello della mera identità (‘O = T’): la traduzione è infatti copia, trasposizione non solo da una lingua a un’altra, ma anche (e in molti possibili sensi) da un orizzonte a un altro. Nel migliore dei casi essa, come recita il titolo di un libro di Umberto Eco dedicato proprio a questo tema, riesce a Dire quasi la stessa cosa (2003) – ma appunto: quasi. Eppure non si tratta soltanto di rassegnarsi all’ineluttabilità del declino. Su questo punto, Hans-Georg Gadamer (Verità e metodo, 1960) ha probabilmente pronunciato una parola decisiva, sottolineando come la mimesis – e la traduzione è senz’altro, in qualche modo, una forma di mimesi d’un testo – non sia semplice riproduzione o copia contraffatta dell’originale, ma svolga un ruolo decisivo nel conferire e nel far riconoscere all’originale stesso la propria realtà e verità. Si può parlare, in proposito, di accrescimento ontologico, cioè di liberazione di significati latenti capaci di mettere in luce virtualità proprie dell’originale, che uno sguardo reso ottuso dall’abitudine rischia altrimenti di lasciarsi sfuggire. È quindi anche a partire dalle sue traduzioni che l’originale merita davvero di essere considerato come tale: ecco perché la traduzione costituisce un’attività ermeneutica per eccellenza. Se ‘O’ non è assolutamente identico a ‘T’, esso è comunque anche ‘T’, ovvero lo è in un certo senso, perché ‘T’ ne costituisce un’interpretazione, ne libera alcune virtualità. ‘T’ senza ‘O’ non sarebbe; ma anche ‘O’ senza ‘T’ sarebbe qualcosa di meno – perderebbe in qualche misura, per quanto ridotta, la propria consistenza ontologica. Ma di nuovo: che cosa, se non l’atto del tradurre, costituisce qui il termine medio, quel link che permette di intendere la verità di ‘O è T’ non come mera identità di contenuti trasposti in forme diverse, bensì come una transitiva donazione di senso?
Nel saggio sul Compito del traduttore (1921), dando voce a quell’autentico messianismo linguistico che lo portava a confidare nell’originaria affinità delle lingue tra loro, Walter Benjamin – ormai ben al di là della stagione idealistica – avrebbe sostenuto che nella traduzione «la vita dell’originale raggiunge, in forma sempre rinnovata, il suo ultimo e più comprensivo dispiegamento», poiché «anche nell’ambito della traduzione vale: en arché en ho logos, all’inizio era la parola […]. Anzi il valore della fedeltà, che è garantita dalla letteralità, è proprio questo: che si esprima, nell’opera, la grande aspirazione all’integrazione linguistica». Mi pare che, alla luce di queste considerazioni, di cui siamo debitori alla filosofia classica tedesca, anche un’affermazione storiografica neutrale come quella secondo cui sarebbero «ragioni legate all’esegesi religiosa» ad aver avviato «il lavoro specifico di traduzione verso una definizione sempre più sottile» finisca per assumere un significato nuovo e ben più impegnativo di quanto probabilmente non intendesse il suo autore Mounin. In una parola: se, come scrive ancora questo padre della moderna traduttologia, «cristianizzare equivale sempre a tradurre», ecco che in tale indicazione potrebbe nascondersi una sfida ermeneutica tanto più istruttiva quanto più essa appare delicata, rischiosa e a un tempo promettente.